L’Africa e la missione ai tempi di Comboni
Gianpaolo Romanato

1. Premessa
Per venticinque anni, dal 1856 fino alla morte, avvenuta nel 1881, Daniele Comboni viaggiò ininterrottamente in Europa e in Africa. Viaggiare in Europa era un massacro, ma viaggiare in Africa, allora, era una follia.
Per capire e apprezzare la vita incredibile di quest’uomo che morì a soli cinquant’anni – una delle figure più originali espresse dalla Chiesa negli ultimi secoli, ancora poco conosciuto e poco apprezzato, uno straordinario soggetto cinematografico, se un regista di talento volesse impadronirsene – dobbiamo partire dalla conoscenza che si aveva dell’Africa a metà 800, o meglio, dalla non-conoscenza, dato che allora si sapeva qualcosa, in realtà molto poco, soltanto della fascia mediterranea, ma si ignorava tutto dell’Africa nera, a sud del Sahara.
Il deserto divideva l’Africa dal mondo civile molto più di quanto l’avrebbe divisa un oceano. Dalla fascia desertica fino alla zona del Capo il continente africano era un immenso buco nero. La geografia, la storia, le popolazioni che lo abitavano, le lingue che vi erano parlate, le forme sociali ed economiche, il corso dei fiumi, l’orientamento e l’altezza delle montagne, la presenza o meno di laghi erano avvolti nel buio più assoluto. Terrae incognitae era l’espressione che allora, abitualmente, indicava sulle carte geografiche l’indistinto spazio africano, dove ancora si favoleggiava dei Monti della Luna (ne parla anche Comboni), sulla base di una tradizione che risaliva niente meno che al geografo greco Tolomeo, vissuto quasi duemila anni prima.
Comboni e i suoi missionari, che si mossero nel Sudan e Sud Sudan odierni, non avevano perciò mappe, non avevano punti di riferimento, non avevano protezioni né assistenza, non avevano nulla. Il viaggio per arrivare dal Cairo a Khartoum, l’ultima località dotata di un barlume di organizzazione – prima risalendo il Nilo in barca, poi attraversando a dorso di cammello il micidiale deserto della Nubia, poi di nuovo in barca lungo il Nilo, in balia di trasportatori e cammellieri locali – poteva durare anche tre mesi ed essere letale. Basta questo viaggio, scrisse Comboni “per ammazzare e rendere inetto il missionario”(1). Ma poi, a sud di Khartoum, era peggio. Da qui in avanti l’Africa era davvero il nulla.
Se questo era l’ambiente africano del tempo, perché una missione proprio nell’Africa nera? Certamente per portare agli africani la salvezza di Cristo, che era morto e risorto anche per loro. Ma a orientare questa scelta furono in primis ragioni strategiche più generali, legate alla situazione del papato e alla politica europea del tempo.
2. La scelta dell’Africa
Comboni visse negli anni agonici dello stato pontificio, quando la Chiesa cattolica passava di sconfitta in sconfitta e in Europa, ma anche nell’America del sud appena emancipata dal controllo spagnolo, pareva sul punto di soccombere agli assalti del mondo postrivoluzionario. L’ottocento fu un secolo drammatico. In Francia, in Germania, in Italia (e prima in Piemonte) parve spesso che per il cattolicesimo romano fosse prossima la fine. Ma il pericolo imminente diede slancio a una capacità di resistenza e a una volontà di rinascita probabilmente imprevisti, di cui proprio Daniele Comboni fu uno dei simboli.
L’ardore missionario che infiammò tanti sacerdoti del tempo va inteso infatti come la reazione quasi rabbiosa di una cristianità messa alle corde ma ancora ricca di forze e di autocoscienza la quale, sconfitta su un terreno, trasferisce la lotta altrove.
E l’altrove, nel XIX secolo, erano le terre di missione, i popoli non ancora toccati dal cristianesimo, le zone vergini, inesplorate o semi-inesplorate, del pianeta. L’Africa, appunto, vicina all’Europa, se vogliamo, ma ancora immensamente lontana. L’Oceania. Le terre estreme della Patagonia. I paesi dell’estremo oriente, in primis la Cina, che erano stati in cima ai pensieri di Propaganda Fide fin dalla sua nascita. Con scopi esclusivamente missionari nacquero nell’800 in tutto il continente, come sappiamo, innumerevoli nuove congregazioni: i Padri Bianchi, gli Spiritani, i Verbiti, il Pime, la Società di Mill Hill, oltre naturalmente ai Comboniani. E a queste si aggiunsero le tante aggregazioni laicali che sorsero dovunque, a partire dalla più nota: l’Opera per la Propagazione della Fede, nata in Francia nel 1822.
In questo scenario fu l’Africa il continente che più entusiasmò i missionari ottocenteschi. L’immensità di questa terra sconosciuta, primitiva, era un miraggio che incantò politici, geografi, esploratori, viaggiatori, avventurieri, e con essi i missionari. L’Africa era alterità allo stato puro, era il mistero, l’ignoto, e il mistero esercita sempre un fascino, un’attrattiva singolari. In Africa sembrava aprirsi un campo d’azione sterminato e fecondo, l’Africa poteva essere, per questa Chiesa ansiosa di riscatti, la culla di una nuova primavera cristiana da opporre all’autunno europeo.
E in fondo è stato così, se pensiamo che oggi, solo un secolo e mezzo dopo Comboni l’Africa ha una cristianità fiorente e porterà nel futuro conclave 15 cardinali.
Ma l’Africa attirava anche perché divenne nel XIX secolo il teatro di una grande partita politica. La corsa per accaparrarsi il controllo dell’Africa fu uno dei grandi eventi ottocenteschi. Il colonialismo, comunque lo si valuti, fu una pagina fondamentale della storia di quel secolo e del successivo. E la Chiesa di Roma non poté non esserne coinvolta.
3. Missione, esplorazione, colonialismo
Ma proprio la storia della missione comboniana serve a sfatare un luogo comune largamente diffuso, quello secondo il quale la missione africana andò a rimorchio del colonialismo politico. Al contrario, la Chiesa di Roma anticipò di qualche decennio l’esplosione degli interessi imperiali europei. Fu la prima “grande potenza”, se così possiamo chiamarla, che comprese l’importanza di quanto stava avvenendo in Egitto sotto il governo vicereale di Mohammed Ali. Questi era un greco mandato dal governo di Costantinopoli per combattere Napoleone che presto si mise in proprio, si rese semiautonomo dal potere centrale, modernizzò il paese valendosi dell’aiuto di tecnici e consiglieri europei e arrivò a minacciare in varie occasioni il primato del Sultano. L’Egitto divenne con lui uno stato di fatto indipendente, anche se formalmente soggetto al governo ottomano.
Fra le sue intuizioni vi fu quella di allargare il controllo egiziano verso l’Africa nera esplorando il corso del Nilo oltre le cateratte, fino alla città di Khartoum, fondata appunto a questo scopo nel 1821. L’esplorazione dimostrò che il fiume era navigabile, seppure a fatica, che le sue rive erano popolate da popolazioni meno bellicose di quanto si pensava, che vi abbondavano gli elefanti e quindi l’avorio, cui gli indigeni non davano valore. E dimostrò soprattutto che il fiume si spingeva fino al cuore dell’Africa, di cui era la porta d’accesso.
Impadronirsi del Nilo equivaleva dunque ad impadronirsi dell’Africa. Cominciò così la corsa alla scoperta delle sue sorgenti, forse la più ardimentosa avventura ottocentesca, che costò la vita a non pochi esploratori.
Ebbene, il primo governo europeo a capire che quella aperta dal despota egiziano era l’unica strada percorribile per entrare in Africa fu il governo pontificio, che nel 1846, con una fretta inusitata per le abitudini romane, fondò il Vicariato apostolico dell’Africa centrale, con confini estesi verso sud praticamente ad infinitum. Da questo atto papale ebbe inizio la cristianizzazione dell’Africa interna, mentre i “Verona fathers”, come chiamano oggi in Africa i seguaci di Daniele Comboni, tracciarono una via e insegnarono un metodo missionario che poi, mutatis mutandis, seguirono tutti.
4. L’Egitto, porta dell’Africa
Dopo quasi duemila anni di silenzio, l’Egitto era rientrato sulla scena mondiale, una scena che da allora non ha più lasciato. Vi era rientrato per i colpi che inferse al primato di Istambul nell’Impero Ottomano, ma vi era rientrato anche perché l’apertura del Canale di Suez, un progetto accarezzato ma mai realizzato da tutti i dominatori di quest’area, a partire dai Romani, stava giungendo finalmente alla conclusione.
Il Canale, che rivoluzionò per i successivi centocinquant’anni il commercio mondiale, sarà aperto e inaugurato nel 1869, con una delle cerimonie più sfarzose mai avvenute fino ad allora, alla quale partecipò anche Comboni. Vale la pena di ricordate la sua presenza a quell’evento, se non altro per segnalare il suo fiuto per gli eventi e le situazioni decisivi.
Da quel momento l’Egitto divenne un luogo strategico, uno dei punti nevralgici della politica e dell’economia mondiali. Rimaneva un paese arretrato e per molti versi primitivo, come testimoniano tutti gli osservatori europei che vi risiedettero, al punto che secondo Jean François Champollion, il decifratore dei geroglifici, suscitava “orrore e pietà” in ogni straniero(2).
Ma la politica delle grandi potenze non poté non orientarsi verso questo lembo d’Africa che la natura ha collocato proprio all’incrocio di tre continenti: l’Africa, l’Asia e l’Europa. Un osservatore europeo notava già nel 1855 che in Egitto gli interessi inglesi erano “fitti come la sabbia nel deserto”. E gli interessi si accompagnavano ai controlli, allo spionaggio, ai rischi. Fin da allora vigilava in Egitto una specie di “polizia politica” che ascoltava e riferiva, rendendo molto imprudente esprimere in pubblico giudizi sgraditi al governo(3).
E’ questo il paese che la Santa Sede, anticipando i progetti coloniali europei, individuò come l’unica via percorribile per penetrare in Africa. In Egitto si dirigeranno così prima Maxymilian Ryllo e Ignaz Knoblecher, coloro che avvieranno il Vicariato centrandolo su Khartoum, poi Daniele Comboni.
Ma subito ci si accorse che per realizzare qualcosa nell’Africa nera bisognava prima esplorare il territorio, conoscerlo, disegnare delle attendibili carte geografiche, classificare le popolazioni che vi risiedevano. E il primo dei problemi fu l’individuazione delle sorgenti del Nilo, il “porro unum” delle infinite questioni africane, come scrisse uno storico avveduto(4), il più appassionante enigma geografico ottocentesco.
Nei miei studi su Daniele Comboni(5) ho raccontato ampiamente il decisivo contributo, anche se poco conosciuto, fornito dai missionari alla soluzione di tale problema. In particolare da Angelo Vinco e Ignaz Koblecher, le cui pionieristiche navigazioni nell’Alto Nilo e le relazioni che ne scrissero fornirono agli esploratori – Giovanni Miani, Carlo Piaggia, Georg Schweinfurth e soprattutto John Speke e James Grant – le informazioni che risultarono determinanti per arrivare a individuare le sorgenti del fiume.
Credo tuttavia, e approfitto dell’occasione per ripeterlo, che i comboniani e la storiografia missionaria non abbiano fatto abbastanza per far conoscere questo fondamentale contributo ecclesiastico alla scienza africanistica. Un contributo che sottrae questi primi missionari alla nicchia della semplice storia missionaria e ne fa dei protagonisti di prima grandezza di quella grandiosa epopea dell’ardimento umano che fu la scoperta dell’Africa. Un’epopea che è costata un numero impressionante di vite umane, comprese quelle di tanti missionari, da Vinco a Knoblecher allo stesso Comboni.
5. L’incontro-scontro con l’Islam
L’Egitto era un paese islamico. Possiamo dire addirittura che fosse diventato lo Stato guida del mondo islamico ottocentesco, dal momento che Mohammed Ali, nella sua smania espansionistica, aveva esteso il potere egiziano sull’altra sponda del Mar Rosso inglobando i luoghi santi della Mecca e di Medina. Avviando la missione in Egitto, sia pure con l’obiettivo di agire poi in Sudan, i nostri missionari, e con essi Comboni, ebbero perciò il primo concreto incontro dei tempi moderni con l’Islam. Un incontro di vertice, con il potere governativo egiziano, e un incontro di base, con i semplici fedeli che essi incontrarono risalendo per duemila chilometri (tanta era la distanza fra Il Cairo e Khartoum) il corso del Nilo.
Indubbiamente l’Islam del XIX secolo, decadente e politicamente insignificante, non era quello di oggi, ne era proprio l’opposto. Cionondimeno Comboni ebbe immediata la percezione della forza intrinseca a questa fede religiosa, della sua capacità di amalgamare popoli e culture. Per questo, rivisitata oggi, la sua esperienza fornisce quasi l’anticipazione di tanti problemi che travagliano il mondo odierno.
Quando i primi missionari giunsero al Cairo, garantiti dal passaporto e dalla protezione diplomatica austriaca, Mohammed Ali fu molto chiaro: avrebbero potuto occuparsi degli europei e delle popolazioni pagane non islamizzate, residenti oltre i confini egiziani. Ma non avrebbero dovuto fare proselitismo fra i musulmani. Era l’inizio di un rapporto di sfida fra le due religioni che è giunto sino a noi. Al sovrano egiziano i missionari servivano perché portavano competenze e civilizzazione, ma dovevano operare al di fuori dalla fascia islamizzata.
La questione islamica, se così posso esprimermi, per le autorità cattoliche cominciò allora. Anzi, proprio il fatto di averla chiaramente avvertita sembra essere stata il vero motivo che indusse Roma a fondare il Vicariato. Risulta infatti che fu un rapporto spedito a Roma dall’isola di Malta nel 1844 a far scattare il progetto della missione. In questo rapporto si diceva che l’islam, alleato degli inglesi, stava allargando la sua influenza nell’Africa interna. Se la Chiesa cattolica non voleva rischiare di essere tagliata fuori e di perdere l’Africa, a vantaggio di musulmani e protestanti, in arrivo al seguito delle potenze coloniali, doveva pensare a mandare missionari in quelle zone. E doveva far presto. Roma assunse altre informazioni, sicuramente presso i gesuiti, e poi, con una fretta inusuale nelle abitudini curiali, come ho già detto, emanò il Breve di erezione del Vicariato, scelse il personale e avviò in concreto l’iniziativa(6).
Fu insomma la consapevolezza della forza espansionistica con cui l’Islam si estendeva in Africa a convincere la Santa Sede ad avviare una missione stabile nell’Africa nera. Quando poi i missionari da Khartoum si spinsero più a sud, verso quello che oggi è il Sudan del Sud, andando oltre la fascia islamizzata alla ricerca di popolazioni pagane da avvicinare, si resero conto che in quelle terre remote e sconosciute stava iniziando una partita decisiva fra quelli che Sergio Romano ha definito, giustamente, i “due monoteismi alla conquista dell’Africa”(7).
Che cosa sapevano i nostri missionari dell’Islam? Che cosa ne sapeva Comboni? Credo molto poco. In Europa l’avversario del cattolicesimo era allora il protestantesimo nelle sue varie declinazioni, pronto a scendere in Italia per farvi proseliti, come sarebbe avvenuta dopo l’unificazione, non certo l’Islam, un religione esotica e remota, totalmente assente dall’Italia del tempo.
Credo di non andare lontano dal vero affermando che solo quando fu in Egitto e in Sudan Comboni realizzò che cosa fosse l’Islam, si rese conto della sua forza, della necessità di contrastarlo e di contendergli le popolazioni nere dell’Africa, del pericolo che rappresentava.
Perché dico pericolo? Perché Comboni non era un prete di oggi, era figlio del cattolicesimo intransigente dell’800, un cattolicesimo in guerra contro tutto e tutti. Non sapeva neppure che cosa fosse il moderno dialogo fra le religioni. Conosceva solo la contrapposizione, la sfida e la lotta per accaparrarsi le anime e portarle alla salvezza attraverso la verità di Cristo, amministrata dalla Chiesa di Roma.
I suoi giudizi sull’Islam vanno collocati in questo contesto, storico, culturale e personale, devono essere letti con la sensibilità di allora, non con quella di oggi. “Il vero progresso, la vera civiltà e il Corano non possono stare insieme – scrive –. L’uno distrugge l’altro”(8) Con citazioni del genere potrei riempire pagine intere. Sono espressioni poco gradevoli per la nostra cultura ecumenica e dialogante. Ma sappiamo che nulla è più errato del giudicare il passato con le categorie interpretative e la sensibilità del presente. Direi anzi che proprio la sua distanza dal mondo odierno lo rende, e proprio oggi, degno di interesse e di attenzione.
La fretta quasi incredibile, che mostrò sempre, di avviare la sua opera, una fretta che lo spinse a cominciare benché fosse ben consapevole di tutti i limiti e le improvvisazioni dell’organizzazione di cui disponeva, era legata al fatto che, vivendo in Egitto e in Sudan – gli unici punti d’osservazione realmente aperti agli europei –, aveva colto perfettamente la forza della spinta islamica verso sud e la disponibilità dell’Africa nera a farsene catturare. Scrive: “La propaganda musulmana estende ogni giorno il suo impero nel centro d’Africa, e quanto perde nell’Europa, tanto guadagna fra i neri: perciò quanto più si ritarda la propagazione della vera fede nell’Africa Centrale, tanto maggiori ed insuperabili si faranno le difficoltà in avvenire di piantarvi il cattolicesimo”(9).
In breve, nella visione missionaria di Comboni non c’era soltanto lo zelo romantico di un sacerdote della Restaurazione per la diffusione della salvezza di Cristo, c’era anche la lucida, concreta intuizione – ed è l’aspetto forse più interessante del suo progetto – dello scontro nascente fra civiltà e religioni di cui il futuro, sia lontano che immediato, avrebbe fornito ampie conferme proprio a partire dal Sudan. Indubbiamente – lo ripeto – egli non può ritenersi un precursore dell’odierno dialogo interreligioso, anzi, è proprio l’opposto, ma la sua visione del rapporto fra cristianesimo e islam, assolutamente spontanea, espressa senza preoccupazioni né filtri, priva di tutte le cautele che oggi costituiscono il politically correct, manifestata quando il problema cominciava appena a profilarsi, non è meno degna di considerazione.
Va anche ricordato che la prima rivolta islamica contro l’Occidente – Occidente è un’espressione che non si usava ai tempi di Comboni, ma serve a capirci – nacque proprio in Sudan e sotto i suoi occhi. Mi riferisco alla rivoluzione mahdista iniziata poco prima della sua scomparsa, di cui egli vide solo gli esordi e che, dopo la sua morte, travolse tutto e tutti, uccidendo il generale Gordon e distruggendo non solo la missione ma anche la sua tomba.
Egli non la comprese, o la sottovalutò, come non si rese conto che la dipendenza della missione dalle concessioni e dalla protezione governativa egiziana, la faceva apparire, agli occhi dei sudanesi, una realtà coloniale e di conquista al pari degli egiziani. E infatti i mahdisti non fecero distinzioni ed eliminarono entrambi. Ma – credo – proprio il fatto che la Mahdia sia iniziata sotto i suoi occhi – la prima rivolta islamica dell’età contemporanea e la prima manifestazione di quello che oggi chiamiamo integralismo islamico – aggiunge un’ulteriore motivo di attualità alla sua figura.
6. Il metodo di Comboni
Nel contesto che ho delineato – o islamizzato o primitivo, in ogni caso totalmente ignaro della verità cristiana – quale era il metodo di Comboni? Teorizzazioni non ne ha lasciate, ma leggendo i suoi scritti e ricostruendo il suo operato in Sudan, vediamo che una metodologia c’era, e profondamente meditata.
Una missione in paesi sconosciuti, presso popoli selvaggi, che non avevamo mai avuto contatti con la civiltà europea, aveva bisogno di pazienti investigazioni del territorio e della popolazione, di una scrupolosa attenzione nella scelta del luogo di insediamento, doveva mettere nel conto tempi lunghissimi di affiatamento reciproco, interminabili pause di apparente inattività, probabili sconfitte e regressioni.
La demoralizzazione era il primo sentimento che il missionario doveva imparare a superare. La fretta, la prima tentazione da vincere. L’evangelizzazione doveva essere preceduta dalla civilizzazione, ma in termini appropriati alle singole realtà, senza imposizione di modelli prestabiliti, senza forzare le specifiche peculiarità, badando a esaltare i valori indigeni ed evitando di introdurre falsi bisogni.
Comboni non conosceva le moderne scienze etnologiche, che nasceranno dopo di lui, e ne divenne sul campo un precursore. L’africano doveva essere lasciato in Africa, non solo perché in Europa rischiava di morire, ma soprattutto perché vi perdeva i propri valori, diventava un uomo senza anima e senza radici, privo della cultura di origine e incapace di acquisirne una nuova.
Scoprì lentamente che l’Africa non è un buco nero da cancellare ma un gigantesco serbatoio da lasciare fermentare, aggiungendovi, con cautela e lentezza, dosati innesti di cristianesimo. Non riuscì mai a disgiungere il binomio cristianesimo-civiltà europea, troppo legato alle categorie culturali ottocentesche nelle quali era cresciuto, ma avvertì con crescente consapevolezza la sua insufficienza.
L’idea moderna dell’inculturazione della fede – idea e difficoltà! – intesa nel senso più ampio, gli deve più di quanto gli sia stato finora riconosciuto. L’idea portante della sua missione – rigenerare l’Africa con l’Africa, che ha dato il titolo a questo simposio, nacque dalla sua concreta, quotidiana esperienza sul campo.
Il metodo che seguiva puntava ad imporre la missione come centro di civilizzazione, per poi passare, solo in un secondo momento, all’evangelizzazione. Prima era necessario farsi accettare, conquistare la fiducia dei locali, dare alla popolazione la sensazione dell’utilità reale e non fittizia del missionario. In tutta questa fase era fondamentale tanto la credibilità delle persone, il loro comportamento retto, e sappiamo che non tutti i suoi missionari furono all’altezza di questa sfida, quanto la residenza costante nel luogo d’operazione.
Ottenuto il primo scopo, cioè la fiducia della gente, e i tempi variavano enormemente a seconda degli interlocutori, si passava al secondo momento, quello dell’inizio dell’opera di civilizzazione. In che modo? Attraverso le scuole e gli ospedali. Diffondendo cioè l’istruzione, fornendo le prime competenze, curando le malattie, insegnando le norme igieniche elementari.
Le varie stazioni missionarie si fondarono tutte su questo modello, fin dai tempi precedenti l’arrivo di Comboni, con risultati che in un luogo come il Sudan furono immediatamente visibili. L’arsenale governativo di Khartoum, che costruiva le imbarcazioni necessarie a navigare sul fiume, trasse gran parte dei suoi circa duecento operai dalla scuola della missione.
Il terzo momento era costituito dal tentativo di introdurre il modello familiare cattolico, possibilmente favorendo matrimoni fra negri educati entrambi dalla missione. Questi vi affluivano in vario modo: erano ragazzi abbandonati che venivano raccolti e ospitati, oppure, e quest’ultimo rappresentava il serbatoio più prolifico, si trattava di schiavi che i missionari o comperavano, o riscattavano dal loro stato, o accoglievano nelle loro sedi, valendosi del diritto di asilo che era riconosciuto alla missione.
La sua metodologia nacque insomma sul campo, faticosamente, studiando gli africani, penetrando con fatica nel loro mondo e nei loro valori. Imparò che l’africano non andava caricato di bisogni e attese che non gli appartengono, estranee alla sua natura e all’ambiente in cui vive. Se a Verona aveva studiato da missionario, la sua università fu l’Africa. E l’Africa lo cambiò, come cambiò tutti coloro che la conobbero non superficialmente.
Imparò che il “selvaggio”, come apparivano allora gli africani agli occhi degli europei, non è un contenitore da riempire ma un essere umano da rispettare, che la cultura è l’anima profonda di ciascun popolo, e non un monopolio dell’Europa, che è indipendente dal sapere scrivere o dall’essere analfabeti, dall’andare nudi o vestiti, dall’essere cristiani o pagani, che tutto era enormemente più complesso e difficile di quanto apparisse negli schemi teologici dei seminari europei. Leggendo certe sue pagine – generalmente lucide, chiare, precise, nonostante le condizioni in cui viveva e scriveva – si ha l’impressione che l’esperienza africana lo abbia trasformato.
Egli non conobbe l’Africa di oggi ma quella precedente la spartizione coloniale. Un continente vergine, incontaminato, ancora interamente se stesso. Avvicinò uomini e donne che non avevano mai visto i bianchi, la cui evoluzione si era fermata alla preistoria. E’ uno dei pochissimi europei che hanno conosciuto non superficialmente questo mondo remoto, che oggi non esiste più, e ce ne hanno lasciato memoria.
Diversamente da altri, anche missionari, quest’Africa Comboni la amò e la apprezzò non soltanto per la sua infinita miseria, che chiedeva soccorso, ma anche per se stessa, per i valori che racchiudeva, per l’umanità che svelava a chi fosse stato capace di andare al di là dell’apparenza.
Ma nel suo rapporto con le culture africane, Comboni non fu mai sfiorato dalla tentazione di facili irenismi. Egli non appare mai né un rivoluzionario né un europeo pentito. Rispetto al primitivo ebbe un rapporto consapevole, maturo, affatto alieno da nostalgie regressive o da mitologie decadenti. L’Africa lo affascinò senza travolgerlo. Non dimenticò mai di essere un europeo, non fu mai colto dal dubbio se dovesse convertire o convertirsi. Anni e anni di esperienze spossanti gli lasciarono un invidiabile equilibrio interiore.
Alla fine della sua vita riuscì a guardare all’Africa con una consapevolezza infinitamente maggiore di quando era giovane, ma con la stessa intelligenza, con lo stesso distacco critico, senza cedimenti intellettuali, senza tentennamenti morali, senza tormenti di coscienza. Solo avvertiva che bisognava avere umiltà: tacere, guardare, ascoltare, imparare, soffrire.
Non perdette mai il rispetto e la venerazione per la Chiesa e le sue istituzioni romane, ma osservandole dal profondo dell’Africa ne vide i limiti e le angustie: la lentezza; le sottigliezze diplomatiche; le subordinazioni politiche; l’ignoranza di luoghi e problemi; la presunzione sussiegosa e moralistica di “certi cardinali di Propaganda Fide”, scrive, che misurano tutto con lo stesso metro, che credono le missioni tutte uguali, “che non hanno veduto che i saloni dorati di Parigi e di Lisbona, che non sanno la storia della Chiesa, che non hanno mai sofferto e patito nulla”. A questa Chiesa, che giudica e non è mai giudicata, Comboni si abituò a parlare con sincerità anche brutale, disposto sempre all’obbedienza, mai però al silenzio(10).
Anche questo fa parte del metodo di Comboni e rende affascinante, attuale, viva, oggi forse più ancora di ieri, la sua figura.
1 D. Comboni, Gli scritti, Roma, 1991, 3232.
2 Citato in G. Romanato, L’Africa nera fra Cristianesimo e Islam. L’esperienza di Daniele Comboni, Milano, Corbaccio, 2003, p. 35.
3 Citato in Ivi, p. 35.
4 Carlo Zaghi, citato in Ivi p. 276.
5 Romanato, op. cit. Anche G. Romanato, Da Knoblecher a Comboni. Il contributo missionario all’esplorazione del bacino del Nilo, in Daniele Comboni fra Africa e Europa. Saggi storici, a cura di F. De Giorgi, Atti del Convegno promosso dall’Università Cattolica e dai Missionari comboniani, Brescia, 28-29 novembre 1996, EMI, Bologna, 1998, pp. 11-53.
6 Comboni, Gli scritti, cit., Comboni a Ciurcia, 15.2.1870, 2027ss.
7 Nella postfazione a Romanato, L’Africa nera fra Cristianesimo e Islam, cit.
8 Comboni, Gli scritti, cit., 4941; Comboni alla Società di Colonia, 1877.
9 Ivi, cit., 1018; Comboni a Barnabò, Parigi, 25 febbraio 1865.
10 Comboni, Gli Scritti, cit., 6661-6662, Comboni a Sembianti, 20 aprile 1881.
Università Urbaniana – Roma – 17 novembre 2017
Simposio: “Rigenerare l’Africa con l’Africa!