Ritiro sinodale, le meditazioni di padre Radcliffe del 1 ottobre. Mettiamo a disposizione i testi integrali delle due riflessioni spirituali tenute stamane dal padre domenicano ai partecipanti della seconda sessione dell’Assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, riuniti presso l’Aula nuova del Sinodo.

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“Quella notte non presero nulla”. Ogni apparizione del Risorto inizia nell’oscurità. Per Maria Maddalena si trattava dell’oscurità nel non sapere che il Signore era risorto. Egli però è lì ad aspettarla. Per i discepoli nella stanza chiusa, si trattava dell’oscurità della loro paura. Cristo è risorto la domenica di Pasqua, vincendo la notte, e tuttavia ogni volta ci ritroviamo nell’oscurità. L’oscurità della guerra, la crisi degli abusi sessuali e via dicendo.

Qual è la notte che avvolge questi discepoli che sono andati a pescare? Siamo tornati nel mondo ordinario. Pietro dice: “Vado a pescare”. Sono tornati alla vecchia routine. È quasi come se non fosse successo niente a Gerusalemme. Le loro reti sono vuote. Essi sono vuoti. Lo straniero chiede se hanno qualcosa da mangiare. Rispondono tutti insieme No. In greco ou. La parola è vuota quanto loro. Ou! I pescatori di esseri umani non riescono a catturare nemmeno il più piccolo dei pesciolini.

Tutti abbiamo conosciuto quei momenti in cui sembra che non riusciamo a ottenere nulla. L’entusiasmo iniziale è svanito. Mentre iniziamo la seconda Assemblea sinodale, scommetto che alcuni di noi la pensano così. Coloro che avevano iniziato con entusiasmo e trepidazione potrebbero chiedersi se stiamo andando da qualche parte. Alcuni di noi non ci hanno mai creduto comunque. Ou! La domanda più comune che ho ricevuto sul Sinodo in questi ultimi undici mesi è stata scettica: è stato ottenuto qualcosa? Non è tutto uno spreco di tempo e denaro?

Lo straniero, tuttavia, è lì sulla spiaggia prima ancora che possano vederlo. Dio è sempre lì per primo, prima ancora che ce ne accorgiamo. Nel Prologo della Regola di San Benedetto Dio dice: “rivolgerò i miei occhi verso di voi e le mie orecchie ascolteranno le vostre preghiere, anzi, prima ancora che mi invochiate vi dirò: “Ecco sono qui[1]!”. Dio attende, prima ancora che noi preghiamo.

Perché non lo riconoscono? Potreste pensare che questa sia una di quelle domande oscure su cui gli studiosi amano scrivere articoli incomprensibili, ma è profondamente rilevante per noi in questo Sinodo. Come possiamo riconoscere che oggi è con noi il Signore che però non abbiamo visto?

La questione non è che sembri diverso. No, è perché non lo avevano mai visto prima. Herbert McCabe OP lo spiega bene: “Le persone non riconoscono Gesù solo come l’uomo che sanno essere stato ucciso. Lo riconoscono come l’uomo che in un certo senso conoscevano e che pensavano di conoscere, ma che non conoscono fino ad adesso[2]“. Egli è il mistero dell’Amore Incarnato e solo ora iniziano a intravedere l’altezza e la profondità dell’amore che supera ogni comprensione. È il discepolo amato che dice: “È il Signore” perché ha occhi che amano. I primi teologi spesso si chiedevano perché Gesù non fosse apparso ai suoi nemici, come Ponzio Pilato. Avrebbe potuto saltare su e giù davanti a Pilato e ancora Pilato non lo avrebbe visto.

Amore “è una parola in crescita, il cui significato cambia e si sviluppa”[3]. Da bambini pensiamo che l’amore di nostra madre consista nel darci cibo quando lo chiediamo e ne non lasciarci mai soli. Crescendo, arriviamo a capire che a volte l’amore richiede di essere assenti o di rifiutarsi di darti ciò che vuoi, come, ad esempio, un iPhone.

Nel 2012 un domenicano francese di nome Jean-Joseph Lataste è stato beatificato. O come ha detto la BBC, ‘bellificato’! La sua vita è stata sconvolta quando nel 1864 ha visitato una prigione per donne. La maggior parte di loro erano prostitute o avevano commesso infanticidio. Le ha guardate e ha detto: “sorelle mie”. Ha fondato una congregazione di suore che potevano vivere insieme ad altre donne. Molti pii borghesi erano disgustati. Non avevano ancora imparato a vedere l’amore in azione. Non avevano riconosciuto lo straniero sulla spiaggia.

Gli studiosi della Bibbia trascorrono ore in silenzio nelle biblioteche a studiare oscure lingue morte. Questo sembra per alcuni una perdita di tempo, anche questo è un atto d’amore. Non ci riuniamo in sinodo per negoziare compromessi o criticare gli oppositori. Siamo qui per imparare gli uni dagli altri qual è il significato di questa strana parola “amore”. Ognuno di noi è un discepolo amato che ha il dono particolare di vedere lo straniero sulla spiaggia e di dire: “È il Signore”.

Il punto di svolta è quando obbediscono alla voce del Signore e gettano la rete dall’altra parte. Sembra inutile. Sono loro che se ne intendono di pesca. Perché obbedire a quest’uomo che non sa nulla di pesca? Siamo venuti a questo Sinodo in obbedienza. Per molti sembra inutile. Abbiamo lavorato giorni e notti e forse dubitiamo che si ottenga qualcosa. Ma la Chiesa dice vieni, e noi siamo venuti. Abbiamo gettato la rete dall’altra parte della barca sebbene alcuni di noi pensino che non si sarà alcuna pesca. . Questa obbedienza porterà frutto in modi che noi non immaginiamo.

Eccoci giunti alla crux interpretationis: 153 grossi pesci. Potrei annoiarvi per ore con tutte le meravigliose, e spesso assurde, spiegazioni di questo numero. Perché 153? Alcuni dicono che devono essere stati 153. Ma immaginate di contarli mentre guizzano ovunque. Altri si riferiscono alle 153 chiese che potrebbero essere esistite all’epoca. Altri ancora alle 153 nazioni che erano allora conosciute. Significa chiaramente abbondanza. L’abbondante provvidenza di Dio è all’opera. San John Henry Newman descrisse la provvidenza come “l’opera silenziosa di Dio”. L’Instrumentum Laboris si apre con una citazione di Isaia: “Su questo monte, il Signore dell’universo preparerà per tutti i popoli un banchetto di cibi succulenti, un banchetto di vini ben invecchiati, di cibi succulenti pieni di midollo, di vini ben invecchiati limpidi e filtrati” (25.6).

Il regno irrompe nelle nostre vite con convivialità, eccesso, come tutto quel vino a Cana. San Domenico tornò al monastero delle suore a Roma a tarda notte dopo una missione di predicazione. Svegliò le suore per poter raccontare loro della sua predicazione. Chiese del vino. Restava soltanto una piccola bottiglia. Le suore portarono una coppa che fecero passare dicendo alle consorelle: “bevete, Bibite satis, bevete a sufficienza”. E la coppa non finì mai.

Dobbiamo avere il coraggio di confidare nel fatto che la Divina Provvidenza benedirà questo sinodo abbondantemente, ‘una buona misura, pigiata, scossa insieme, traboccante, vi sarà versata nel grembo’ (Luca 6.38). Non siamo qui per un pasto magro, ma per la haute cuisine del Regno, se lo desideriamo abbastanza.

Pietro si trasforma all’istante. All’inizio di questa scena, è vuoto. È ritornato alla sua vecchia vita, come se non fosse successo niente. Ora si alza e indossa i suoi vestiti prima di tuffarsi in mare. Di solito ci togliamo i vestiti quando andiamo a nuotare, ma questo è un segno della sua dignità ripristinata, proprio come il padre veste il figliol prodigo quando arriva a casa. Nonostante la vergogna che prova per aver rinnegato il Signore, nuota verso il suo amico. Io mi sarei vergognato e avrei nuotato nella direzione opposta. Gli altri discepoli si sforzano per tirare a riva il pescato. Pietro lo fa da solo. Qual è il segreto di Pietro? Qualunque cosa abbia fatto, torna al Signore più e più volte. Il suo amore è più forte della sua vergogna.

Gesù disse: “Quando sarò elevato, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Ora vediamo Pietro che attira – è la stessa parola in greco – la rete piena di pesci grassi verso di sé e la rete non si rompe. Questo non è dovuto alla sua forza, ma alla sua cooperazione con l’attrazione del Signore, la forza magnetica del Signore Risorto. È l’attrattiva del Signore che tira a riva la rete intatta. Il ministero petrino dell’unità non sta sorvegliando i figli ribelli di Dio. Sta rivelando l’attrattività del Signore, che ci attira insieme.

Quando sono arrivato al Sinodo l’anno scorso, pensavo che la grande sfida fosse superare la velenosa opposizione tra tradizionalisti e progressisti. Come possiamo guarire quella polarizzazione che è così estranea al cattolicesimo? Ma mentre ascoltavo, sembrava esserci una sfida ancora più fondamentale: come può la Chiesa abbracciare tutte le diverse culture del nostro mondo? Come possiamo tirare su la rete con i suoi pesci da ogni cultura del mondo? Come può la rete non rompersi?

Quando il Muro di Berlino cadde nel 1989, si considerò finita la Guerra Fredda. Francis Fukuyama pubblicò The End of History and the Last Man[4] sostenendo che eravamo entrati in una nuova era, il trionfo della democrazia liberale occidentale. Ogni nazione sembrava destinata a “evolversi” nel nostro stile di vita occidentale. Alcuni paesi, soprattutto nel Sud del mondo, dovevano solo recuperare. Questa fu un’illusione da cui l’Occidente si sta lentamente svegliando. Viviamo piuttosto in un mondo multipolare in cui diverse persone del Sud del mondo vedono l’Occidente come decadente e condannato. Viviamo in un mondo post-occidentale[5] . Parecchi occidentali non se ne rendono ancora conto.

Attendiamo una nuova Pentecoste in cui ogni cultura parli nella propria lingua nativa e sia compresa. Questo è anche il nostro compito durante il Sinodo e il fondamento della nostra missione nel nostro mondo lacerato e diviso. Chiediamo preghiere di Maria, che scioglie i nodi, e di Pietro, che ripara le reti!

Innanzitutto, riconosciamo che abbiamo bisogno gli uni degli altri se vogliamo essere cattolici. Le diverse culture riunite in questa Assemblea si offrono reciprocamente guarigione, mettono alla prova i rispettivi pregiudizi e si invitano a vicenda a una più profonda comprensione dell’amore. Ogni cultura ha un modo di vedere lo Straniero sulla spiaggia e dire “È il Signore”.

Papa Benedetto, ad esempio, ha riconosciuto che l’Occidente soffre di “una forma di malattia dello spirito[6] “, da quella che San Giovanni Paolo II ha chiamato “una cultura della morte”. O fuggiamo dalla morte e fingiamo che non accadrà mai o cerchiamo di dominarla con la morte assistita. Come Pietro, noi occidentali abbiamo bisogno di aiuto per vedere, sulla riva, il Signore Risorto sulla riva che ha trionfato sulla morte. Abbiamo bisogno di aiuto per vivere con la nostra mortalità nella speranza.

Uno stimato confratello domenicano francese morì durante un Capitolo Generale a Bogotà. Al suo funerale, i fratelli dell’Occidente erano sopraffatti dal dolore. Un giovane frate colombiano ha reagito così: “Questo non è il momento della morte. Questo è il momento della fede [7]“. Durante questo Sinodo il nostro fratello, Padre Orobator SJ ha ringraziato per essere stato cresciuto da genitori che praticavano la religione tradizionale africana, con il suo profondo senso del dono della vita. Ha scritto: “al centro dell’intero sistema religioso in tutta l’Africa c’è una profonda fede nella vitalità della creazione[8]“. Non sai cosa significa vivere se ti nascondi dalla morte. Abbiamo molto da imparare dai nostri fratelli e sorelle in altre parti del mondo, i cui occhi sono aperti alla morte e quindi capiscono di più cosa significa essere vivi.

Forse la nostra sfida più grande è abbracciare ciò che Papa Benedetto ha chiamato “interculturalità”. Questo non è il momento per un’esplorazione teorica di cosa significhi. Immaginiamo invece una rete. Una rete è composta da buchi vuoti collegati tra loro da corde. Spazi e legami. Senza entrambi, non ci sarebbe una rete per tirare su i pesci.

Quando le culture si incontrano, dovrebbe rimanere uno spazio tra di loro. Nessuna delle due dovrebbe divorare l’altra, come sta accadendo con la globalizzazione del consumismo. Dovremmo onorare la differenza culturale. Ricordate quella meravigliosa parola tedesca, Zwischenraum, “la stanza tra”. Questo è lo spazio fertile tra le culture quando ciascuna conserva la propria identità ma è aperta all’altra. Tommaso d’Aquino disse che quando c’è amore, i due diventano uno, ma rimangono distinti[9].

Nessuna cultura potrebbe mai unirci: né il latino, né il tomismo! La rete è intatta perché ogni cultura è aperta a modo suo alla verità. Il cardinale Ratzinger spiegò in un discorso tenuto a Hong Kong nel 1992 che “l’apertura fondamentale di ogni persona all’altra può essere spiegata solo dal fatto nascosto che le nostre anime sono state toccate dalla verità; e questo spiega l’accordo essenziale che esiste anche tra le culture più lontane tra loro… Nessuno coglie il tutto; le innumerevoli intuizioni formano e costruiscono una specie di mosaico che mostra la loro complementarità e interrelazione. Per essere completi, tutti hanno bisogno l’uno dell’altro. Gli esseri umani si avvicinano all’unità e alla completezza del nostro essere solo nella reciprocità di tutte le grandi conquiste culturali”[10].

Siamo legati insieme dalla nostra fede condivisa, il Credo, che trascende ogni cultura. Ma come si può tradurre homoousios in swahili, hindi o giapponese? Sicuramente la rete deve essere tenuta insieme dalla reciproca gioia, dall’amicizia, dalla gioia condivisa e persino dalle risate. Uno degli esempi più affascinanti di questa interculturalità è stata la missione dei gesuiti in Cina nel XVI secolo. Questo incontro tra Occidente e Oriente è sbocciato dentro ad un percorso di amicizia che si arricchiva dall’una e dall’altra parte. Il primo libro di Matteo Ricci si intitolava De amicizia. L’amicizia ha tessuto la rete.

Piuttosto che parlare di questi ammirevoli gesuiti, darò un’occhiata a due esempi di cui ho avuto esperienza nel mio Ordine, solo per aiutarci a immaginare il nostro compito nel Sinodo. Uno dei miei posti preferiti è una fattoria in Benin, fondata dal nostro fratello Godfrey Nzamujo. Si chiama Songhai, dal nome del grande impero africano che fiorì nella regione cinquecento anni fa. Nzamjo imparò a coltivare a casa in Africa e studiò anche scienze occidentali in California. Songhai è il frutto dell’agricoltura africana e occidentale. La fattoria iniziò con un ettaro di terra incolta che nessuno voleva, e ora copre 24 ettari e istruisce giovani agricoltori da tutta l’Africa, anzi dal mondo.

In questo posto non si spreca nulla. Le mosche ingrassano con gli avanzi del ristorante e poi vengono date in pasto ai pesci. Nzamujo chiama Songhai lo Sheraton Hotel delle mosche. Tutti gli animali e le piante prosperano in reciproca dipendenza. A Songahi persino le zanzare hanno il loro ruolo da svolgere nell’equilibrio della vita, anche se non sono una delle migliori idee di Dio!

L’Eucaristia, in questo posto, è vista all’interno di un’ecologia di gratitudine, Una volta Nzamujo disse: “La messa è la combinazione dei doni del sole, dell’acqua e del suolo. Il vino è il dolore e l’angoscia che derivano dall’uva che deve essere pigiata, ma diventa un simbolo di amicizia”. Songhai irradia speranza. Ha anche detto,:“C’è un tempo per nascere e un tempo per morire, perché questa è la natura. L’Africa può sembrare dalla parte perdente, ma, onestamente, da quello che sento e vedo, domani è il tempo africano”.

Questo è ciò che accade quando le culture si incontrano in amicizia e generano speranza. Lo spazio tra noi è colmato da reciproca gioia e persino da risate. Nzamujo sostiene che i suoi maiali simboleggiano sia il progetto, che la nostra amicizia, poiché sono il risultato dell’incrocio tra grandi maiali bianchi dello Yorkshire, come me, e piccoli maiali neri africani, come lui. La differenza è fertile.

Un altro breve esempio: un domenicano giapponese, Shigeto Oshida, si descrisse come un buddista che incontrò Gesù. Fondò un ashram vicino al monte Fuji dove cristiani e buddisti vivevano insieme in armonia. Detestava la tendenza dell’Occidente a sviscerare la realtà con nozioni astratte. Chiamò questo la “terza zampa del pollo”, che non era né la zampa destra né la zampa, ma una zampa astratta e inesistente. Disse: “Noi giapponesi sappiamo nel nostro sangue cos’è la religione. La Chiesa cattolica non è una scatola di cioccolatini o un’azienda”[11].

Quando Oshida teneva ritiri, specialmente per vescovi abituati alla vita sedentaria, gli piaceva mandarli a piantare riso nelle risaie, indifferente alle loro proteste per il mal di schiena. Scrisse: “Un contadino che lavora sodo dall’alba al tramonto sa che un chicco di riso non è un suo prodotto, una cosa fatta con le sue forze, ma qualcosa che gli è stato dato da Dio. Deve offrire il chicco di riso a Dio che è nascosto ma che dà tutto. Deve dire “Questo è tuo”[12].

Oshida era profondamente critico nei confronti della cultura occidentale, ma, come Nzamujo, superava le divisioni culturali con risate e gioia. Gli piaceva scherzare dicendo che Dio lo aveva ingannato facendolo diventare cristiano e poi domenicano perché aveva incontrato cristiani e poi domenicani meravigliosi e pensava che a tutti piacesse così. Rideva dicendo “Mi sbagliavo! Dio mi ha imbrogliato”.

Così la rete di Pietro è piena di spazio e tenuta insieme dalla verità,dall’incanto e dalla gioia. È tirata a riva non dal potere giuridico, ma dall’attrattiva del Signore che, quando è innalzato, attira tutti a sé. La bellezza tira la rete a riva. Pensate a Matatoshi Asari, un cattolico giapponese di Nagasaki, che ha inviato ciliegi, simboli di riconciliazione, a tutte le nazioni che erano state danneggiate dalla seconda guerra mondiale[13].

Che Dio benedica questo sinodo con incontri culturali così amorevoli, in cui i due diventano uno ma rimangono distinti. Nessuna cultura può dominare. Dobbiamo però essere acutamente consapevoli di come lo squilibrio di potere sia in gioco nelle nostre conversazioni. L’incontro di culture non è mai innocente o meramente cerebrale. Il colonialismo struttura ancora il nostro mondo. Robator ha condiviso un proverbio africano: “Finché il leone non impara a scrivere e parlare, la caccia glorificherà sempre il cacciatore”[14]. Il leone ora parla ma l’Occidente non ascolta.

Una canzone della mia giovinezza recita: “Il denaro fa girare il mondo”. Possiamo vivere in un mondo post-occidentale, ma il sistema bancario è ancora controllato dall’Occidente. L’imperialismo non è finito e cerca ancora di imporre i suoi valori agli altri. Ma lo straniero sulla spiaggia non era un membro dell’élite benestante. Fu crocifisso dal più grande potere imperiale del suo tempo, una morte riservata agli schiavi, intesa a umiliare. Ascoltiamo perciò con acuta attenzione coloro che sono crocifissi oggi dai poteri imperiali del nostro tempo. Ascoltiamoci con umiltà gli uni gli altri. È un umile Simon Pietro quello che incontreremo questo pomeriggio.

[1] Regola di s. Benedetto, Prologo.

[2] God, Chrsti and Us, p. 94.

[3] Herbert McCabe OP, Law, Love and Language, p. 18.

[4] F. Fukuyama, The End of History and the Last Man, Penguin, London, 1989.

[5] Oliver Stuenkel, Post-Western World: How Emerging Powers Are Remaking Global Order, POlity, 2016.

[6] Omelia all’apertura della Seconda Assemblea per l’Africa del Sinodo dei Vescovi, 4 Ottobre, 2009.

[7] L’episodio mi è stato riportato da Fr. Bruno Cadoret, OP, Maestro attuale dell’Ordine.

[8] Agbonkhianmeghe E.Religion and Faith in Africa: Confession of an animist, Orbis, New York, 2018, p. 16.

[9] ST II II 17.3.

[10] Cristo, la fede e la sfida delle culture, Incontro con le commissioni dottrinali in Asia, Hong Kong, 3 marzo, 1993.

[11] P. 135.

[12] A cura di Claudia Mattiello, Takemori: Teachings of Shigeto Oshida, a Zen Master, Buenos Aires, 2007.

[13] Naoko Abe, The Martyr and the Red Kimono, Chatto and Windus, London, 2024.

[14] P. XVII.