Effatà, apriti (1990)
LETTERA PER IL PROGRAMMA PASTORALE
«COMUNICARE»
Carlo Maria Martini
Terza parte
AGIRE
1. DALLA PRESA DI COSCIENZA AGLI ITINERARI SIGNIFICATIVI
[39] In questa terza parte, alla luce dell’autocomunicarsi del Dio vivente, è necessario verificare la nostra vita di singoli e di comunità. Nel prossimo anno 1991-1992 questa verifica verterà sul mondo dei mass-media e su come ci collochiamo in esso. In questo anno 1990-1991 ci limiteremo a suggerire piste di riflessione per il nostro comunicare in generale.
La domanda di fondo è quella del primo e del secondo paragrafo di questa Lettera: è possibile incontrarsi a Babele? come vivere la grazia di Pentecoste? in un mondo afflitto da tante fatiche comunicative e schiacciato da una massa confusa di informazioni e di messaggi, come ristabilire canali di comunicszione autentica, creare oasi di incontro vero, contribuite a migliorare il clima comunicativo generale segnato dalla conflittualità e dalla diffidenza?
Per questo proporremo anzitutto alcune domande che aiutino a “interiorizzare” quanto detto fin qui, in vista di una presa di coscienza adeguata della situazione attuale e dei rimedi che Dio ci offre nella sua alleanza pasquale. Poi esporremo alcuni itinerari comunicatitvi che ci aiuteranno a rileggere le prime cinque Lettere pastorali dal punto di vista del comunicare. Infine proporremo alcune tecniche che potranno essere utilmente messe in opera quest’anno per migliorare i canali comunicativi in noi e nelle nostre comunità, e suggeriremo alcuni momenti di verifica della nostra comunicazione nella fede, soprattutto a riguardo di alcune categorie da privilegiare negli appuntamenti pastorali di quest’anno.
Alcune domande per aiutare il discernimento
[40] E’ possibile riprendere in mano la prima e la seconda parte di questa Lettera (vedere, ascoltare e contemplare) sotto forma di domande che ci aiutino a comprendere fino a che punto le cose richiamate sono parte della nostra coscienza.
Mi limito ad alcuni esempi. Potrà essere un utile esercizio quello di tradurre in domande rilevanti il contenuto di altre pagine delle prime due parti della Lettera. Suggerisco di riprendere più volte, durante l’anno, singolarmente e insieme, tali domande al ISne di verificare e migliorare la nostra comunicazione.
[41] * Quali segni trovo in me di alcuni blocchi del mio comunicare? insofferenza, malumori frequenti, fatiche eccessive nel lavoro, disgusto di alcuni rapporti? riesco a dominare abbastanza il flusso dei miei sogni ad occhi aperti, del mio fantasticare? so moderarmi nell’uso della televisione? con quale criterio ascolto la musica? ho talora l’impressione di fare alcune cose o di concedermene altre per “fuggire” da realtà mie o vicine a me a cui non vorrei pensare? e queste realtà non sono appunto “blocchi comunicativi”? le mie amicizie sono durature? mi lamento spesso dell’incoerenza e poca fedeltà delle persone amiche? sono spesso diffidente nei loro confronti? dopo un litigio so ricomporre il rapporto? (cf sopra n. 7).
[42] * Quale “voto” darei al nostro comunicare sia nella coppia sia nel rapporto genitori-figli? ottimo, passabile, mediocre, scarso, insufficiente, disastroso? penso che sia possibile salire di un gradino più in su nel modo del nostro rapporto? che cosa ho fatto oggi per migliorare le nostre relazioni? che cosa mi propongo di fare questa sera? (cf sopra n. 8).
[43] * Come descriverei dal mio punto di vista le difficoltà di comunicazione tra i diversi strati sociali di cui ho più diretta esperienza, in particolare nell’ambiente di lavoro? mi lascio spesso esasperare o turbare o coinvolgere eccessivamente dalla conflittualità sociale e politica? che cosa mi aiuta a ritrovare la calma e la padronanza di me stesso? (cf sopra n. 9).
[44] * Quale il giudizio sulle mie relazioni all’interno della comunità cristiana? hanno per me qualche rilevanza, le ritengo importanti oppure mi toccano poco? se sono impegnato all’interno della parrocchia, mi sento capito, valorizzato? so valorizzare gli altri, li stimo davvero, anche se fanno cose diverse dalle mie? cosa farò oggi per migliorare il mio rapporto con il parroco, con gli altri operatori pastorali? quale dima regna all’interno del Consiglio pastorale, nelle Commissioni, nelle Consulte? ci si sforza di capirsi, di volersi bene, di accettarsi, pur nelle differenze di vedute? quale il mio rapporto di comunicazione con il vescovo? leggo le sue lettere pastorali, lo incontro talora in occasioni solenni come le feste in Duomo, le Scuole della Parola? ascolto la sua voce alla radio? oserei scrivergli se avessi necessità di comunicare con lui? parlo con fiducia con i suoi vicari e collaboratori, con il decano, con il parroco? se sono membro di una comunità religiosa, come coltivo le relazioni fraterne all’interno della mia comunità? come la mia comunità ascolta la voce del Papa, del vescovo? come mi sento accolto, in quanto religioso, nell’ambito della Chiesa locale? come viviamo e comunichiamo la gioia del Vangelo? (cf sopra n. 10).
[45] * Ho riscontrato qualche volta in me la nostalgia di non saper comunicare o l’irritazione per non esserci riuscito? quali le cause di questi fallimenti? riesco a cogliere in me quel “gusto del dominio” che sta alla radice di un comunicare non autentico? sono anch’io vittima della “fretta” nel comunicare? so ascoltare gli altri? sono uno da cui gli altri vanno volentieri e anche riescono a confidarsi? (cf sopra nn. 14-15).
[46] * Prego talvolta perché il Signore mi si comunichi e risani le mie relazioni umane? mi sento desideroso di accogliere il dono della comunicazione divina? uso del sacramento della Riconciliazione a questo scopo? (cf sopra n. 17).
[47] * Ho di me e degli altri questa consolante visuale, che siamo fatti per comunicare e per amare, o mi lascio vincere dalla sfiducia in me stesso e negli altri? (cf sopra n. 18).
[48] * Rileggere i testi citati sulla Pentecoste e sull’alleanza e lasciare che sgorghi in me una preghiera di lode a Dioper quanto ha fatto per noi e per me,per volermi essere alleato e amico, dalla mia parte … (cf sopra nn. 19-20)
[49] * Preparandomi al sacramento della penitenza mi esaminerò sulla differenza che statna, l’avversario, suscita in me riguardo Dio e il suo disegno su di me, riguardo alla purezza delle mie intenzioni, riguardo alle intenzioni del prossimo nei miei confronti (cf sopra n. 22).
[50] * In un’ adorazione eucaristica contemplare il verbo fatto uomo per me, crocifisso e nascosto nel mistero del dacramento per potersi comunicare a me pienamente. Adoro il Padre dal cui silenzio procede questo dono, il Figlio che mi si dà in pienezza, lo Spirito che rende presente Gesù nell’Eucarestia (cf sopra n.24).
[51] *So affidarmi all’amore comunicativo della Trinità? so aspettare con pazienza e fiducia i tempi di Dio? mi lascio intimorire dal suo silenzio nei momenti della prova? che parte ha nella mia vita la speranza della pienezza del dono eterno? Da queste interrogazioni lasciar scaturire la preghiera di pentimento e la richiesta di più fede e speranza (cf sopra nn. 26-27)
[52] * So leggere la Bibbia in particolare i Vangeli come libro del comunicare di Dio? quale passo dei vangeli mi attrae maggiormente come icona della forza comunicativa di Gesù trasmessa agli uomini? (cf nn. 28-29).
[53] * Quante volte il mio parlare con altri evade dalla superficialità e diventa anche dono? so informare con oggettività, senza esagerazioni? nel parlare a qualcuno tengo presente la sua situazione e le sue attese? la mia preghiera è monologo o dialogo? (cf sopra nn. 30-32).
[54] * Sento in me qualcosa della passione evangelizzatrice di Gesù e dei suoi apostoli? sento la gioia dell’Evangelo? (cf sopra n. 33).
[55] * Quali sono i rischi del comunicare a cui vado più facilmente soggetto? Considero con attenzione, nella comunità, quelle persone che per motivi fisici o psicologici fanno maggior fatica a comunicare e vivono nella solitudine? quale l’attitudine mia e della comunità verso coloro che hanno difficoltà di udito (anziani, sordi) o di parola? si pensa a loro nella Messa festiva? (cf n. 34).
[56] * Contemplare Maria leggendo lentamente Lc 1, 26-55 e pregandola affinché mi ottenga un cuore capace di comunicare con Dio e con i fratelli e un risanamento delle mie storture comunicative (cf sopra nn. 35-38).
2. ITINERARI COMUNICATIVI
[57] E’ possibile, a questo punto, rivisitare i cinque primi programmi pastorali proposti alla diocesi negli anni ’80 per rileggerli nella prospettiva del comunicare.
Essi volevano infatti aiutare a costruire una figura di cristiano e di comunità cristiana scaturita dalI’Evangelo e capace di proclamarlo nella cultura e nella civiltà di questo fine millennio. Ora questa figura di cristiano e di comunità fluisce dalla comunicazione che Dio fa di sé all’umanità. E’ quindi possibile rileggere tali programmi alla luce di quanto detto finora. Darò qualche spunto di rilettura insistendo soprattutto sul programma che mi pare sia stato finora meno capito e assimilato, ossia Partenza da Emmaus.
a. Silenzio contemplativo e comunicazione
[58] Ci si educa al comunicare sviluppando la “dimensione contemplativa della vita”. Ogni comunicare nasce dal silenzio, non però vuoto o triste, ma pieno della contemplazione delle meraviglie che Dio ha operato in favore del suo popolo. Occorre reinterrogarsi sui tempi dati al silenzio nella vita quotidiana, durante la liturgia, nei periodi di ritiro che ci proponiamo noi stessi o che proponiamo alle nostre comunità. Si potrebbe rileggere utilmente la Lettera su alcuni aspetti della meditazione cristiana della Congregazione della Dottrina della Fede ( 1989). E’ anche importante interrogarsi, a partire dal silenzio di Maria che accoglie con stupore e timore la parola dell’angelo, sulla nostra capacità di guardare con stupore alle cose, agli eventi, alla vita, al mistero di Dio. Qual è il nostro grado di purezza di cuore? E’ scritto, infatti, “beati i puri di cuore, perché vedranno Dio” (Mt 5, 8).
Ricordo quanto avevo già detto nella prima Lettera pastorale sul ruolo delle comunità monastiche e claustrali in diocesi come luoghi di ricarica spirituale, oasi di silenzio, centri di irradiazione della preghiera contemplativa. Ne approfittiamo?
b. Comunicare nella Parola
[59] L’ascolto credente della parola di Dio libera e unifica. Esso unisce anche tra loro quelli che ascoltano la stessa Parola, producendo esperienze di autentica comunicazione. Le Scuole della Parola, che quest’anno saranno continuate per i giovani sul tema della prossima Giornata mondiale della gioventù – Avete ricevuto uno Spirito da figli (Rm 8,15)- possono pure divenire scuole di un comunicare più autentico. E’ necessario pertanto che siano riprese una volta al mese anche nei gruppi giovanili delle parrocchie e nelle associazioni e movimenti, imparando a comunicare vicendevolmente sul tema meditato.
Si può incominciare con il rileggere il testo biblico proposto, lasciando che dopo una pausa di silenzio alcuni sottolineino le parole che li hanno maggiormente colpiti, chiedendosi poi perché quelle parole hanno avuto particolare risonanza; inizia così un fruttuoso scambio nella fede. Imparare a comunicare nella fede a partire dalla Parola è uno dei frutti che ci attendiamo da questo primo anno sul comunicare.
L’ascolto della Parola nella celebrazione eucaristica domenicale può e deve generare delle forme semplici, ma intense e significative, di comunicazione nella fede: nei gruppi, nelle famiglie, nelle comunità, nei cammini di coppia. Si tratta dell’appuntamento settimanale più importante per i cristiani; preparato e atteso, arricchito da un’omelia che aiuta a penetrare le ricchezze della Parola, esso si rivela sempre in grado di rigenerare la comunicazione tra noi alla luce dei pensieri e della logica di Dio, rivelataci nelle pagine che vengono proclamate nella liturgia.
Non posso non ricordare, a questo punto, l’importanza della comunicazione con coloro che venerano come noi e scrutano attentamente la Sacra Scrittura. Mediante l’ascolto e la conoscenza attenta della Parola, noi ci apriamo al dialogo ecumenico con i fratelli riformati d’Occidente. Anche nel rapporto con le “sette”, oggi tanto difficile e per il momento quasi “impossibile” a causa del loro atteggiamento spesso rigido e incapace di dialogo, più che la polemica diretta vale la conoscenza profonda e amorosa della Scrittura, che permetta di dire con garbo ai visitatori importuni: “No grazie, la Bibbia l’abbiamo già, la leggiamo e la conosciamo, per grazia di Dio, anche più di voi!”.
c. Comunicare nell’Eucaristia e nella liturgia
[60] La liturgia fa opera di mediazione tra l’interiorità contemplativa colmata dal dono della Parola e l’espressione esterna e pubblica dell’adorazione e della lode. Essa non sta soltanto dalla parte del “rito” esteriore e della “celebrazione” visibile, ricca di parole elevate, di simboli e segni. Presuppone e coltiva pure l’interiorità del credente; educa alla comunicazione. La comunità esprime e realizza se stessa nella misura in cui è capace anzitutto di ascolto comune della Parola e di risposte giuste anche a livello pubblico.
Cuore, centro e culmine della liturgia è l’Eucaristia, dalla quale derivano e a cui si riportano tutti gli altri sacramenti. Suggerisco di rileggere le pagine di Itinerari educativi che prospettano la liturgia e il cammino sacramentale come il cammino educativo della Chiesa per eccellenza, nel quadro dell’anno liturgico. Si possono pure rileggere le pagine di Attirerò tutti a me (recentemente richiamate nel documento L’Eucaristia al centro della comunità religiosa), in cui viene descritta l’azione formativa che l’Eucaristia esercita sulla comunità e le caratteristiche di una comunità che da essa si lascia plasmare. Scopriremo che una tale comunità è aperta, pronta a donarsi, umile e attenta agli altri, cioè disposta a comunicare con verità a tutti i livelli.
E’ importante, e primario compito del lavoro pastorale, che soprattutto la celebrazione domenicale dell’Eucaristia, per il modo con cui è preparata ed eseguita, esprima con chiarezza il suo dinamismo interno, vera . propria forza che abilita e sollecita a una comunicazione profonda in grado di spingersi fino al dono di sé e alla convinta testimonianza del Vangelo.
Tra questi vari livelli a cui l’Eucaristia abilita a comunicare, va ancora una volta richiamato quello ecumenico. Dobbiamo in particolare renderci sensibili a quanto pensano, dicono e fanno i nostri fratelli delle comunità cristiane non cattoliche anche in campo liturgico. E’ specialmente importante conoscere di più e apprezzare i tesori della liturgia orientale, il “secondo polmone della Chiesa” come lo definisce Giovanni Paolo II.
Voglio pure richiamare il sacramento della Penitenza o Riconciliazione. In esso sottoponiamo alla potenza del Cristo crocifisso e risorto i nostri fallimenti e blocchi comunicativi perché siano medicati e risanati. Siamo convinti della forza di questo sacramento? lo offriamo ai fedeli, se siamo preti, e lo esigiamo dai preti, se siamo laici?
d. Comunicare il Vangelo («Partenza da Emmaus»)
[61] L’autocomunicazione divina fonda, in chi l’accoglie, l’esigenza di comunicare gratuitamente ad altri quanto gli è stato gratuitamente comunicato.
Le forme di esercizio di questa comunicazione sono l’evangelizzazione, la catechesi, il dialogo fraterno, l’omilia, ecc. Nel programma pastorale Partenza da Emmaus abbiamo trattato, in particolare, della catechesi per gli adulti e degli adulti. Sarà bene che ogni comunità rilegga quanto ha fatto a partire da quella Lettera e, in particolare, dal Convegno di Busto Arsizio Catechisti Testimoni (1984). A tutti raccomando la ripresa della Lettera Partenza da Emmaus proposta ne Il Segno di quest’anno 1990 sotto il titolo Ripartire da Emmaus.
Ai presbiteri chiedo di approfondire con l’ausilio delle Settimane residenziali, previste per il gennaio 1991, la loro singolare responsabilità di “comunicare la fede” nelle condizioni odierne della gente, non trascurando di considerare il problema dei tratti fondamentali che dovrebbero essere ritrovati nel presbitero perché egli sia reale punto di riferimento per le persone, luogo capace di ascolto e di consiglio per i singoli e l’intera comunità. Chiedo inoltre di approfondire le esigenze, anche di metodo, della comunicazione degli adulti in vista di una reale attenzione a dove l’altro “si trova” (come situazione spirituale) e ai passi che “catecumenalmente” insieme con lui andrebbero compiuti.
Un’esperienza di dialogo unita alla proclamazione è stata percorsa, in questi anni, nella cosiddetta Cattedra dei non credenti. Pur se i metodi per tali incontri possono variare, è importante promuovere luoghi in cui chi non crede o ha difficoltà di fede, ma è in seria ricerca possa esprimersi, confrontarsi, essere ascoltato e capito.
Ogni cristiano e ogni realtà ecclesiale dovranno comunque interrogarsi sull’urgenza evangelizzatrice che nasce dalla comunicazione del dono di Dio. In particolare la pastorale giovanile nella nostra diocesi è stata invitata a porsi come pastorale missionaria. Esprimo alcune ulteriori riflessioni che ci aiuteranno a questo proposito, specialmente in relazione a chi non crede o ha difficoltà di fede, dedicandole ai nostri missionari e missionarie che operano in ogni parte del mondo, e in particolare ai preti diocesani Fidei donum che operano in Zambia, Camerun, Brasile, Messico e Perù.
Comunicare il Vangelo anche a partire dalla poca fede
[62] Mi ha sempre stupito e confortato il comportamento di Gesù con gli Undici dopo la Risurrezione: “Li rimproverò per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato. Gesù disse loro: “Andate in tutto il mondo e predicate il Vangelo a ogni creatura”” (Mc 16, 14-15). Proprio a questi uomini, increduli e ostinati, è affidata la comunicazione del Vangelo!
Perché ci è stato comunicato
[63] Possiamo comunicare il Vangelo perché anzitutto è stato a noi comunicato da coloro che prima di noi hanno creduto. Davvero possiamo ripetere con s. Agostino: “Io credo in colui nel quale hanno creduto Pietro, Paolo, Giovanni…”. Perché non continuare aggiungendo ai nomi dei primi testimoni quelli di tutte le persone per le quali noi siamo venuti alla fede, di quei comunicatori del Vangelo che costituiscono la nostra storia di credenti e la storia delle nostre comunità? Possiamo aggiungere il nome dei nostri genitori, dei nostri nonni, dei nostri sacerdoti, di qualche religioso o religiosa, dei catechisti, di tutti i credenti, uomini e donne, grazie ai quali noi apparteniamo a una lunga storia di fede. Guardando nel nostro passato, troveremo i loro volti e le loro voci; allora salirà alle nostre labbra la gratitudine perché scopriremo che la comunicazione della fede è stato in primo luogo un dono per noi.
Ne siamo responsabili
[64] Nasce di qui la nostra responsabilità di comunicatori. Con Paolo ripetiamo: “Ho creduto e perciò ho parlato” (2 cor 4, 13); proprio perché è stata detta a noi, la fede deve essere detta, a nostra volta, da noi.
I primi discepoli del Signore, quando il tribunale ebraico vorrebbe chiuder loro la bocca, replicano: “Noi non possiamo tacere quello che abbiamo visto e ascoltato” (At 4, 20). Gesù stesso li aveva ammoniti: “Chi dunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch’io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli” (Mt 10, 32). Paolo chiede a Timoteo di imitare l’esempio di Gesù che ha dato la sua bella testimonianza di fede davanti a Ponzio Pilato (cf 1 Tm 6, 12ss.).
Giovanni, nella sua Prima Lettera, ricorda la necessità di riconoscere pubblicamente Gesù nella sua divinità e umanità (cf 1 Gv 4, 15; 4, 2). Oggi, come allora, a ciascuno di noi è dato l’impegno di rispondere a quanti ci chiedono ragione della speranza che è in noi, spiegazioni che devono essere date con gentilezza e rispetto (cf 1 Pt 3, 15).
Con gentilezza e rispetto
[65] Le ultime parole di Pietro sopra riportate sottolineano un altro aspetto della comunicazione del Vangelo a coloro che non credono. La Lumen Gentium (n. 16) ricorda che anche i non cristiani, i non credenti, sono ordinati in vario modo al popolo di Dio: “Coloro che senza colpa ignorano il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa e che tuttavia cercano sinceramente Dio e con l’aiuto della sua grazia si sforzano di compiere la volontà di lui, conosciuta attraverso la coscienza, possono conseguire la salute eterna” Anche la Dei Verbum ci ricorda che Dio ha “assidua cura del genere umano, per dare la vita eterna a tutti coloro che cercano la salvezza con la perseveranza nella pratica del bene” (n. 3). Queste affermazioni fondano la necessità di comunicare il Vangelo con coloro che non credono; è lo stile del dialogo. Già lo aveva indicato con ampiezza Paolo VI nell’Ecclesiam suam: “La Chiesa deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola. La Chiesa si fa messaggio. La Chiesa si fa colloquio” (n. 38).
Al termine del Vaticano II, Paolo VI affermò: “Una simpatia immensa ha pervaso il Concilio. La scoperta dei bisogni umani ha assorbito l’attenzione del Concilio. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia sono partiti dal Concilio verso il mondo. I suoi valori sono stati non solo rispettati, ma onorati; i suoi sforzi sostenuti, le sue aspirazioni purificate e benedette. La Chiesa è scesa a dialogo con il mondo” Nella Gaudium et Spes troviamo indicate le ragioni e le forme del dialogo del credente con tutti gli uomini di buona volontà. Il Concilio invita i credenti a leggere nella realtà, nella storia, negli eventi, tutto ciò che può costituire una sorta di consenso, di dialogo appunto, su valori e ideali da interpretare alla luce del Vangelo (cf nn. 4-10).
Occorre leggere anche nel mondo di oggi i “veri segni” della presenza e del disegno di Dio (cf n. 1 1). Persino un fenomeno così inquietante e negativo come l’ateismo deve essere letto in modo da discernere le ragioni di tale rifiuto, forse l’appello, l’inconsapevole attesa di una fede più evangelica (cf n. 21). Il Concilio compie ancora un passo verso il dialogo quando afferma che la Chiesa può utilmente mettersi in ascolto di chi non crede, perché anche da lui può venire una provocazione di fede, una scintilla di verità (cf nn. 40.44).
Non c’è nessun muro invalicabile
[66] La ragione di tale dialogo è che tra l’orizzonte del credente e quello di chi non crede non esiste assoluta incomunicabilità, proprio perché già qui e ora prende corpo nei solchi della storia il regno di Dio. Questo regno che si esprime pure nell’accogliere, assumere, purificare, rettificare, salvare quanto la fatica degli uomini ha costruito (cf nn. 38-44). Il Concilio crede nella comunicazione profonda esistente tra tutti coloro che cercano con cuore sincero. Il cristiano sa che questo è il tempo di una nascosta gestazione e perciò egli è capace di comunicazione con tutti coloro che cercano con verità.
L’impegno del credente laico
[67] La comunicazione del Vangelo non si attua soltanto nel dialogo esplicito. C’è un immenso campo di azione che compete particolarmente ai credenti laici e che riguarda l’affermazione, il sostegno e la promozione dei valori profondi che sono previ a qualunque confessionalità e comuni a tutti gli uomini. Tutto ciò che ha attinenza alla coscienza, alla responsabilità, alla giustizia, alla pace, alla salvaguardia dell’ambiente, fa parte di un linguaggio a tutti accessibile, che ha le sue radici nell’opera creatrice e redentrice del Signore. Il modo di comportarsi e di interagire nella vita quotidiana, nei rapporti interpersonali, negli affari e nella politica, in quei mille contatti quotidiani che si vivono in famiglia, nei luoghi di lavoro e nel tempo libero, dovunque siano in questione anche modeste e semplici scelte morali (come quella di dare una risposta gentile o un’informazione corretta) può irradiare tali valori a misura dell’intensità con cui sono vissuti, o negarli, o aggredirli. Quanto più la comunità cristiana e il singolo fedele saranno in grado di esibire scelte e stili di vita coerenti con il Vangelo, pur senza sottolinearlo esplicitamente, si eserciterà una forza aggregante e persuasiva sull’insieme dei comportamenti umani per la ricostruzione di una comunione sui grandi temi etici che hanno le loro radici nella rivelazione di Dio.
Comunicare l’«eccedenza» e la «differenza» del Vangelo
[68] In questa forma di comunicazione implicita che si attua nell’impegno morale quotidiano, il credente ha nel cuore qualcosa che gli urge, lo muove, mobilita tutte le sue energie: è la “gioia del Vangelo”, la sua novità incomparabile. Chi crede, anche nel rapporto con chi è molto lontano, non può rinunciare a voler comunicare la formidabile differenza ed eccedenza, il “di più” e l'”oltre” che sono costitutivi dell’Evangelo. Tale differenza, che è peculiare della fede, si traduce in una eccedenza di ideali di vita rispetto alla giustizia puramente legale, eccedenza che è indizio e anticipazione di rapporti umani eticamente più densi e aperti a un orizzonte trascendente, che è riflesso della Gerusalemme celeste e della perfetta comunione di cuori che in essa sarà raggiunta.
Proprio perché nasce dal mistero di Dio, la comunicazione del Vangelo custodisce la differenza: è in grado quindi di offrire ai progetti umani l’orizzonte di senso, la contestazione critica, l’energia progettuale. In tal modo l’esperienza cristiana evita le riduzioni intimistiche e si fa pubblica: rigenera la libertà umana, suggerisce progetti concreti di gesti e interventi con cui la libertà, volendo efficacemente il bene di tutti, si mette al servizio della comunità degli uomini.
e. Comunicare nella carità («Farsi prossimo»)
[69] La comunicazione divina, partendo dal mistero del Padre si comunica nella Parola del Figlio e tale comunicazione si realizza nell’Incontro, lo Spirito. Anche la comunicazione interpersonale si realizza nella verità dei gesti di solidarietà e di condivisione. Il progetto del “farsi prossimo” ci ha spinto nel 19851986, sollecitati pure dal Convegno di Assago, verso itinerari comunicativi della carità: interpersonale, assistenziale, sociale, socio-politica e ha stimolato il nascere delle Caritas parrocchiali, che però non esistono ancora in tutte le parrocchie. La Chiesa italiana si prepara a porre gli anni ’90 sotto il segno della carità.
Vorrei fare due sottolineature. La prima riguarda la carità nelle relazioni quotidiane, nelle cosiddette “relazioni brevi”. E’ qui che si esercita ogni giorno e mille volte al giorno la prossimità concreta, che ogni altra forma di carità trova la sua verifica impietosa. Non pochi eccellono nella solidarietà delle “relazioni lunghe” (di tipo più ufficiale, organizzativo, programmatico) e vengono meno nelle relazioni brevi della quotidianità per nervosismi, forme di cattivo umore, ripulse e sospetti infondati, mutismi punitivi, amarezze coltivate, punzecchiature tanto frequenti quanto inutili. Per questo occorre superare un grande ostacolo, che è quello dell’abitudine e dello scoraggiamento. Abbiamo tentato tante volte di instaurare relazioni vere e amicali verso le persone che ci stanno a gomito, ma non siamo riusciti. Allora ci siamo accontentati di un rapporto di convivenza non belligerante, di tolleranza reciproca, di pazienza, di sospiri lamentosi, dicendo: “Tanto non cambio né io né lui o lei”.
Partiamo dunque dalla persuasione che ormai non c’è più molto da fare e che è già tanto stare in qualche modo insieme. Ebbene, proprio da qui è possibile sviluppare un'”arte” dei rapporti che inizia dalla constatazione che “non cambiamo né io né lui o lei” e che pure qualcosa, anzi molto, può cambiare. Cominciamo rileggendo, in questa luce, le pagine della seconda parte di questa Lettera e mettiamoci in atteggiamento di silenzio e di ascolto davanti a Dio che si comunica anche a chi non lo accoglie; contempliamo Gesù che ricuce continuamente i rapporti sfilacciati tra lui e gli Apostoli o degli Apostoli tra loro. Preghiamo la Madonna della comunicazione e lasciamoci guidare dalla lampada che si accende nel nostro cuore al soffio dello Spirito dell’Incontro. Vedremo che già qualcosa sta cambiando. Basta cominciare.
Una seconda sottolineatura del “farsi prossimo 1990” riguarda un tema che spesso ho richiamato in questi ultimi tempi: l’accoglienza e l’apertura verso gli immigrati extracomunitari. Nel 1985 tale urgenza si delineava appena; oggi è diventata un fenomeno rilevante specialmente nella nostra città. La Caritas e la Segreteria per gli esteri si sono fortemente impegnate per fronteggiare questa emergenza che tuttavia deve mobilitare la capacità comunicativa delle nostre parrocchie e gruppi. “Comunicare con chi è straniero” costituirà una forma di attuazione di questo programma pastorale.
Non entro in altri particolari perché ne ho parlato a lungo e in molte occasioni negli ultimi mesi. Soltanto ricordo che si tratta di una frontiera esigente e urgente della carità e della comunicazione.
Se oggi riusciremo a comunicare con questi nostri fratelli, per il domani avremo preparato orizzonti comunicativi per l’intera nuova Europa che, secondo la parola di Giovanni Paolo II, potrebbe diventare una “Europa dello spirito”.
Concludo dicendo che forse non tutte le nostre parrocchie (perché non poche sono lodevolmente in prima linea) hanno capito questa seconda urgenza proprio perché hanno trascurato la prima delle due sottolineature ora fatte. Hanno cioè identificato la carità semplicemente con la carità assistenziale o socio-politica e hanno deciso a priori che cosa possono fare o non fare in proposito. Non hanno preso sul serio anzitutto il cammino della carità interpersonale che è l’esercizio quotidiano dell’accettazione degli altri e di sé con amore e simpatia. Così vanno a cercare più lontano quelle forme del “farsi prossimo” che stanno sulla porta di casa, con il rischio di non vedere neanche più bene ciò che sta oltre i confini della parrocchia.
3. TECNICHE DELLA COMUNICAZIONE APPLICATE ALLA COMUNICAZIONE DI FEDE
[70] Non voglio entrare in un discorso che ci occuperà l’anno prossimo, ma mi sembra opportuno richiamare fin da ora qualcosa sul rapporto tra la comunicazione in un mondo dominato dai mass-media e la comunicazione della fede e nella fede. Molti studiosi dei problemi della comunicazione di massa ritengono oggi che la rivoluzione tecnologica che è sotto i nostri occhi stia modificando gli stessi processi comunicativi ordinari. Sono d’accordo, almeno fino a un certo punto, con tali affermazioni.
Vorrei però dire qualcosa che mi pare ancora più importante per noi. Lo studio dei processi di comunicazione attraverso i mass-media, in particolare di quelli elettronici, ci porta a riscoprire, al di là del processo di comunicazione mediante segni razionali, la ricchezza di forme di comunicazione nella fede da sempre esistite nella Chiesa e che forse gli ultimi secoli, condizionati dalla ragione ragionante e calcolante, ci hanno fatto un po’ dimenticare.
Vale dunque la pena, al di là di discussioni complicate e di terminologie difficili, esercitarsi a ritrovare quelle forme comunicative della fede, verbali e non verbali, che sono sempre state in onore nella tradizione cristiana e che ultimamente sono state un po’ trascurate o poco curate, perché non c’era coscienza del loro valore.
Do alcuni pochi esempi di queste “tecniche” per stimolare la fantasia di ciascuno a frugare nella memoria e nel tesoro dell’esperienza propria e della propria parrocchia e rivalutare forme antiche del comunicare cristiano.
Forme di comunicazione non verbale della fede
[71] Nella preghiera. Le posizioni del corpo: in piedi, in ginocchio, la preghiera fatta camminando (per esempio nelle processioni), le mani alzate (per esempio nella recita del “Padre nostro”); la genuflessione, gli inchini, il gesto del segno della croce; le mani imposte per la benedizione; il bacio del Crocifisso o della reliquia; il bacio inviato da lontano al tabernacolo, come usano fare i bambini… Tutti questi segni, se compiuti con serietà e senza fretta, anzi con una certa modesta solennità sono un modo di comunicare la fede, di far sentire che sia chi li pratica sia chi sta intorno vive un’esperienza di fede. Ho conosciuto recentemente un giovane straniero che, venuto in Italia per studiare le opere d’arte senza sapere nulla del cristianesimo, è stato scosso dalla percezione dei capolavori dell’arte sacra e insieme dalle persone inginocchiate in preghiera nelle chiese. Anche da un solo gesto si riconosce un uomo di fede, come da un gesto si coglie la misera esteriorità di un ossequio che di fede ha poco! Occorre abituare i bambini fin da piccoli, in particolare i chierichetti all’altare, ad aborrire i gesti sbadati, le genuflessioni furtive o a sghimbescio…
I silenzi. Parlo dei silenzi personali, per esempio lo stare in silenzio ed in ascolto prima di iniziare una preghiera vocale o mentale, come pure dei silenzi nella liturgia: prima di iniziare le orazioni della Messa, dopo il vangelo e la omilia, dopo la comunione. Vi sono silenzi che appaiono pieni di preghiera e di raccoglimento; altri che sembrano pause vuote e inutili; altri che non ci sono più…
Tra il verbale e il non verbale: il canto e la musica
[72] Un modo antichissimo e mirabile di comunicare la fede è il canto. Gli Atti degli Apostoli ci raccontano che Paolo e Sila, nel fondo della prigione, ancora dolenti per le battiture, “in preghiera cantavano inni a Dio mentre i carcerati stavano ad ascoltarli” (At 16, 25). Il valore comunicativo, la forza della vibrazione emotiva, sonora, ritmica, luminosa, propri del canto e della musica sono straordinari. Le vite dei santi e dei grandi convertiti ce ne danno autorevole testimonianza. Perciò considero il canto come comunicazione verbale e non verbale insieme, perché gli elementi non propriamente concettuali superano di gran lunga quelli razionali. La musica poi ha una forza evocativa immensa.
Ma occorre che tali valori siano percepiti da chi suona, da chi canta, da chi dirige e da chi ascolta e partecipa. Su questo punto siamo ancora molto indietro rispetto, ad esempio, alle comunità cristiane di altri paesi dove tutti cantano con dignità e partecipazione. Il cantare insieme, l’ascoltare insieme qualche esecuzione musicale appropriata in momenti ben determinati della liturgia, l’ordine e la proporzione tra gli interventi della schola cantorum e dei fedeli, la scelta accurata dei testi e delle musiche, contribuiscono molto a esprimere e a suscitare sentimenti profondi di fede, di adorazione, di preghiera.
Quante occasioni perdute nelle nostre assemblee liturgiche! Chiedo all’Ufficio per la pastorale liturgica e in particolare alla Sezione per la musica sacra di favorire con intelligenza e decisione il cammino di educazione liturgica delle nostre comunità, anche attraverso le varie iniziative che già sono state attuate in diocesi negli scorsi anni (corsi per animatori liturgici, ecc.). Desidero che si arrivi, lungo il biennio 1990-1992, all’edizione ufficiale del Libro di preghiera e dei canti per la diocesi.
Ci si potrebbe dilungare parlando dei diversi modi di pregare in pubblico. Ho inteso solo dare qualche esempio perché ogni comunità possa fare un esame di coscienza serio sull’insieme dei modi con cui comunica, o potrebbe comunicare, nella fede restando nell’ambito della propria quotidianità.
La presenza
[73] Anche l’essere presenti è già un modo di comunicare. L’impegno dei nostri preti per una presenza in mezzo ai ragazzi e ai giovani dell’oratorio, la loro disponibilità a essere accostati per un dialogo o per la direzione spirituale, il far sentire che si è con il cuore in mezzo alla gente, consci della propria missione di presbiteri, è già un modo importante di irradiare la fede.
Comunicazione simbolica della fede
[74] L’uomo è capace di raccontare miti e di eseguire calcoli esatti e rigorosi, di fare della poesia e della informatica, di scrivere favole e costruire robot. Perché? Non è una domanda futile. La risposta può permetterci di capire meglio il mistero di un’umanità che al tempo stesso prega e calcola, sogna e pianifica.
I diversi e a prima vista incompatibili linguaggi di cui la stessa persona è capace, possono condurci a meglio comprendere l’uomo che di tali linguaggi è autore e che in essi si manifesta.
Oggi sembra esserci, nella mentalità comune occidentale, trascuranza per i linguaggi simbolici e poetici a vantaggio di una comunicazione esatta, rigorosa, controllata. Al conoscere, si dice, deve presiedere la scienza; arte e religione, invece, esprimono sentimenti, stati d’animo. Il linguaggio serio sembra dunque quello dell’obiettività e del rigore. La verità e l’oggettività si raggiungerebbero solo mediante discorsi controllati ed esatti, mentre i discorsi dell’esperienza religiosa, come quelli dei diversi vissuti umani, sarebbero al più espressioni di stati d’animo, di emozioni.
Eppure noi avvertiamo che questa rigida divisione non rispetta la nostra più profonda verità e non rispetta il modo di comunicarsi a noi proprio della rivelazione dell’Antico e Nuovo Testamento.
Senza niente togliere alla validità dei linguaggi propri delle scienze, linguaggi che tendono a essere rigorosamente univoci -il grande sviluppo delle scienze è stato possibile proprio grazie a questo tipo di comunicazione – non possiamo negare al linguaggio umano una molto più grande valenza di strumenti e di significati. E’ esperienza che spesso facciamo: le parole talora non bastano a dire la ricchezza dei nostri sentimenti. Allora ricorriamo, per esempio, a dei gesti, a dei segni, a dei simboli che aiutino a comunicare ciò che le parole non sono capaci di manifestare. Ogni dono, per esempio, è guidato da questa comunicazione non puramente verbale ma simbolica, cioè dalla capacità di istituire una comunicazione più ricca delle parole. Tutti i simboli infatti dicono di più, dischiudono al di là dei significati immediati e letterali ulteriori valori comunicativi.
Ecco perché la comunicazione simbolica è una grande ricchezza umana alla quale da sempre l’uomo ha fatto ricorso. Non è senza significato il fatto che proprio gli eventi decisivi dell’esistenza siano stati, nelle più diverse culture, accompagnati da linguaggi e gesti simbolici; pensiamo al nascere e al morire, alle scelte di vita, al pasto e alla casa. Tutti questi eventi e questi luoghi, ben al di là della loro funzionalità e del loro significato immediato, racchiudono un valore simbolico senza del quale la nostra esistenza sarebbe davvero insignificante. E’ qui che l’arte, in particolare l’arte sacra, si innesta per interpretare queste dimensioni simboliche della vita, proporle, farle vibrare, approfondirle.
Per questo la qualità umana della nostra comunicazione non può fare a meno dei simboli; ma neppure la qualità della nostra esperienza di fede può fare a meno di tale peculiare forma di comunicazione. Del resto non c’è tradizione religiosa che non sia ricorsa a tale tipo di comunicazione. Questo ci stimola a una scelta attenta dei simboli artistici nelle nostre chiese: all’architettura agli arredi sacri, dall’altare al fonte battesimale, dal confessionale alla Via Crucis, dalle vetrate ai quadri e agli affreschi, dalle tovaglie agli arazzi e ornamenti e alle vesti sacre, tutto deve essere preparato e utilizzato con rispetto e dignità, con semplicità e con gusto. Occorre incoraggiare gli artisti perché per primi penetrino e poi aiutino noi a sentire la ricchezza dei valori religiosi che può sprigionarsi dalle autentiche opere d’arte.
Pensiamo ancora a un altro aspetto così pervasivo della vita come il tempo: possiamo semplicemente ridurlo a una dimensione quantitativa, alla transizione inesorabile di anni, mesi, giorni, ore? perché la Chiesa non rinuncia ad avere un suo calendario, scandito non dai ritmi sempre identici delle stagioni, bensì da una storia, da un cammino verso il fine (e non verso la fine)? il tempo, senza spessore simbolico, non sarebbe forse una insopportabile condanna?
La Bibbia è un libro pieno di simboli stupendi ed è sempre stata per questo la grande ispiratrice degli artisti. Dal giardino dell’Eden alla città dell’Apocalisse, dal linguaggio dei profeti a quello delle parabole, la rivelazione di Dio all’uomo fa costantemente ricorso alla comunicazione simbolica. Anche i miracoli, fatti prodigiosi, sono letti dal vangelo di Giovanni come segni (cf Gv 2, 11; 4, 54 ; 20, 30-3 1 ).
Perché i simboli?
[75] In che senso la comunicazione simbolica è veicolo privilegiato dell’esperienza religiosa e perciò dovrebbe essere un modo a noi familiare per comunicare nella fede)?
Perché il linguaggio simbolico è sommamente rispettoso della “differenza” e della “distanza”. Esso non ci mette in presa diretta con un mondo di oggetti. A differenza del trattamento “scientifico” della realtà, che è appunto volto a comprendere il suo oggetto, il linguaggio simbolico non è totalmente ostensivo, dimostrativo di un mondo di oggetti, di utensili perfettamente dominati dalla nostra intelligenza. Così il linguaggio simbolico ci impedisce di stabilire con la realtà e soprattutto con la realtà di Dio un rapporto di pieno e adeguato possesso, un rapporto di dominio come avviene invece con il linguaggio delle scienze. Il linguaggio simbolico ci impedisce di stabilire, con colui al quale ci rivolgiamo, un rapporto di tipo oggettivo, come un qualcosa da afferrare e da possedere. Pur comunicandosi, Dio non sta nell’ambito delle evidenze immediate. Il credente che si rivolge a lui e parla di lui con il linguaggio dei simboli, pur riconoscendolo e ravvisandolo in tutto, avverte l’impossibilità di dire di lui come si dice di tutte le altre cose. Non senza ragione la religiosità veterotestamentaria non consentiva la diretta nominazione di Dio.
Scopriamo così che il linguaggio simbolico, mentre dice di Dio, al tempo stesso lo nasconde, impedendo che la sua trascendenza finisca prigioniera dei nostri concetti. Possiamo parlare di una comunicazione che rispetta l’alterità, la trascendenza di Dio. Contro la tentazione di mettere le mani su Dio possedendolo magicamente, quasi riducendolo al talismano di cui disponiamo, il linguaggio simbolico, mentre ci aiuta a dire Dio, ne custodisce la trascenza. Forse la pagina più suggestiva che ci aiuta a cogliere questa singolare comunicazione del mistero di Dio è nel libro dell’Esodo. All’accorata preghiera di Mosè perché Dio riveli la sua gloria, il suo volto, non è data una risposta esaustiva. Dio sarà visibile solo di spalle; il suo volto non potrà essere contemplato faccia a faccia (cf Es 33, 18-23).
Ritroviamo la stessa logica nelle manifestazioni del Risorto ai suoi discepoli e a Maria Maddalena: un rivelarsi che custodisce l’incognito, un darsi che subito si sottrae alla presa della nostra conoscenza (cf Gv 20, 11-29). Nell’incerta luce del tramonto a Emmaus lo sconosciuto si rivela attraverso un segno –lo spezzare del pane–e si sottrae allo sguardo (cf Lc 24, 13-35); l’apparente povertà del simbolo custodisce la ricchezza della rivelazione.
Varietà nella comunicazione verbale della fede
[76] Il linguaggio non è dunque un codice che si possa esprimere a piacere con formule matematiche, ma è un mezzo d’espressione quanto mai modulato e variato, che conta molto sugli aspetti vibratori della parola e della frase, sulle ricchezze allusive dell’immagine, sulla forza coinvolgente dell’evocazione, sulla scossa prodotta dall’interiezione ecc. Per questo il parlare della fede deve sempre nascere da una certa pienezza emotiva (presente in noi per la grazia dello Spirito santo anche nei momenti di personale aridità), e deve usare, come faceva Gesù, del simbolo della parabola, del racconto, dell’esempio, dell’accenno personale, dell’appello, dell’ammonizione e anche dell’appassionata perorazione. Non dobbiamo certo sottovalutare l’argomentazione e la concettualità (la “fatica del concetto” rimane sempre necessaria per “pensare la fede”), ma dobbiamo ricordare che la trasmissione quotidiana della fede si realizza in molte modalità differenti che si compenetrano e si aiutano mutuamente.
Non mi dilungo su questo tema che appartiene agli specialisti. Vorrei però terminare ricordando che le civiltà occidentali, che hanno inventato i nuovi strumenti della comunicazione di massa, sono anche quelle radicate nella Bibbia. Esse hanno il compito di far risaltare come la moltiplicazione degli strumenti che trasmettono informazioni e messaggi riproducendo, più che nel passato, il carattere visivo e uditivo, vibratorio e modulatorio, emotivo e sensitivo dei messaggi stessi, non solo non si oppone alla trasmissione del messaggio di Dio contenuto nella Bibbia, ma ne mette in luce la ricchezza e la varietà espressiva.
+ CARLO MARIA CARD. MARTINI
Arcivescovo di Milano
Milano 11 agosto 1990
Nel primo centenario
della morte del Card John Henry Newman