“Chiama innanzi i Dodici e cominciò a inviarli”. I Dodici furono prima chiamati ciascuno singolarmente a seguirlo (cf 1,16-20; 2,14). Poi furono comunitariamente costituiti per “essere con lui” (3,14). Ora sono inviati ai fratelli a due a due.

Ci sono tre livelli di un’identica vocazione, con tre chiamate successive, che segnano rispettivamente il passaggio dalla dispersione alla sequela, dalla sequela alla comunione con lui, dalla comunione con lui alla missione verso tutti.

Questo brano è un “breviario di viaggio”, perché gli inviati non dimentichino di riprodurre il volto di chi li invia. È la carta di identità della Chiesa apostolica, ossia mandata da Gesù – la cui missione fu in povertà, e passò attraverso fallimento, nascondimento, impotenza e piccolezza (cf c. 4).

Chi è mandato ai fratelli riceve il più grande dono del Padre: è pienamente associato al Figlio, partecipe del mistero che annuncia.

Con l’invio dei Dodici, Gesù non è più solo. Comincia ad essere il primo di numerosi fratelli, un chicco che già si è moltiplicato. Questa prima missione ad Israele è già un raccolto che si fa semina per un altro successivo, che sarà sempre più abbondante, fino alla fine dei tempi, quando tutti gli uomini mangeranno il pane del Figlio.

Qui inizia la “sezione dei pani” (6,6b-8,30). Dopo quella sulla Parola e sul battesimo (3,7-5,43), segue la catechesi sull’eucaristia, alla fine della quale Gesù sarà riconosciuto. Egli infatti si rivela come Cristo e Signore proprio in quanto amore che per noi si fa pane e vita.

L’annuncio dell’evangelo è sempre in povertà, perché proclama la croce che ha salvato il mondo. I Dodici, e quelli dopo di loro, devono avere grande cura di vivere i valori del Regno che annunciano: sono quelli che Gesù ha esposto nelle parabole del c. 4, dopo averli vissuti in prima persona. La tentazione più grossa è ritenere che ci siano altri mezzi più adatti al fine.

Più che di ciò che bisogna dire, Gesù si mostra preoccupato di ciò che bisogna essere. Ciò che sei, grida più forte di ciò che dici. È vero che la parola di Dio è efficace di per sé; non è la mia testimonianza a renderla credibile. Tuttavia la mia controtestimonianza ha il potere di renderla incredibile. Nel male ho sempre un potere maggiore che nel bene: non so creare un fiore: so però distruggerlo!

La povertà che Gesù “ordina” non è di tipo stoico. Viene dalla gioia di chi ha scoperto il tesoro (Mt 13,44), e conduce alla vittoria sul peccato del mondo – che consiste nella brama di avere, di potere e di apparire, strumenti mortali escogitati dalla paura della morte.

La sua povertà non è una privazione, ma un valore sommo, anzi la somma dei valori della sua vita. Infatti Dio, essendo amore, è povero. Il suo avere è il suo essere, e il suo essere è essere dell’altro, nel dono di sé del Padre al Figlio e del Figlio al Padre, nell’unico Spirito.

Anche per noi la povertà è la condizione per amare. Infatti finché hai cose, dai cose; quando hai nulla, dai te stesso. Solo allora ami veramente, e puoi condividere. Inoltre ciò che hai, ti divide dall’altro; ciò che dai, ti unisce, e ti fa solidale con lui. Finché non sei povero, ogni cosa che dai è solo esercizio di potere.

La povertà è poi verità: tu non sei ciò che hai, ma ciò che dai; e solo se hai nulla, dai te stesso e sei te stesso. È anche libertà dall’idolo che domina il mondo – il dio mammona che garantisce la soddisfazione di ogni altro desiderio. È inoltre Il volto concreto della fede, che ti fa porre tutta la fiducia in Dio come Padre tuo e Signore di tutto. È infine bisogno di accoglienza. Per essa l’apostolo fa l’esperienza di figlio, che è bisogno di accoglienza, dando all’altro l’opportunità di esercitare in prima persona la misericordia del Padre.

Già nell’AT povertà, piccolezza e impotenza sono i mezzi che Dio sceglie per vincere (cf Sam 2,1-10; Es 3,11; 4, 10; Gdc 7,2). Infatti ha scelto ciò che è stolto e debole per confondere i sapienti e i forti, ciò che è ignobile, disprezzato e nulla, per ridurre al nulla le cose che sono (1Cor 1,27 s). D’altra parte tutti noi conosciamo la grazia del Signore nostro Gesù Cristo, che da ricco che era si fece povero per noi, perché noi diventassimo ricchi per mezzo della sua povertà (2Cor 8,9).

Questa lezione l’avevano appresa bene Pietro e Giovanni, quando compirono il primo miracolo della Chiesa nascente. Fecero camminare lo storpio con le parole: “Non possiedo né argento né oro, ma quello che ho te lo do: nel nome di Gesù Cristo, il Nazareno, cammina” (At 3,6). Se avessero avuto argento e oro, avrebbero fatto un’opera buona, magari un istituto per storpi! Ma la fede può venire solo dall’annuncio fatto in debolezza, perché è libera risposta alla parola di Cristo.

Per vincere lo spaventoso Golia, David dovette liberarsi dell’armatura così bella che il re gli aveva offerto: “Non posso camminare con tutto questo” (1Sam 17,39). Per vincere, Gedeone dovette ridurre il suo potente esercito da 30.000 a 300: erano troppo numerosi perché Dio li facesse vincere (Gdc 7,1 ss)! L’efficacia divina dell’annuncio è inversamente proporzionale all’efficienza dei mezzi umani.

Dobbiamo essere fortemente persuasi che la salvezza viene dalla croce, svuotamento che rivela Dio. Guai se la nostra potenza o sapienza la vanifica (1Cor 1,17). Per questo Paolo si presenta in debolezza, con molto timore e trepidazione, riponendo tutta la sua sapienza in Cristo, e in Cristo crocifisso (1Cor 2,2 s). E dice: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10) – forte della fiducia in Dio, la cui debolezza è più forte degli uomini.

Gesù invia i suoi in povertà, come il Padre ha inviato lui.

I discepoli, attraverso la missione, sono chiamati alla forma più alta di vita cristiana: sono pienamente associati al Figlio, che, conoscendo l’amore del Padre, è spinto verso tutti i fratelli.