XIV Domenica del Tempo Ordinario, anno B
Marco 6,1-6


Odilon Redon, Cristo in silenzio (particolare), 1897 circa, Musée du Petit Palais, Avignone, Francia
Odilon Redon, Cristo in silenzio (particolare), 1897 circa, Musée du Petit Palais, Avignone, Francia

In quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono. Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità. Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.

Lo conoscono eppure non lo riconoscono
Papa Francesco

Il Vangelo che leggiamo nella liturgia di questa domenica (Mc 6,1-6) ci racconta l’incredulità dei compaesani di Gesù. Egli, dopo aver predicato in altri villaggi della Galilea, ripassa da Nazaret, dove era cresciuto con Maria e Giuseppe; e, un sabato, si mette a insegnare nella sinagoga. Molti, ascoltandolo, si domandano: “Da dove gli viene tutta questa sapienza? Ma non è il figlio del falegname e di Maria, cioè dei nostri vicini di casa che conosciamo bene?” (cfr vv. 1-3). Davanti a questa reazione, Gesù afferma una verità che è entrata a far parte anche della sapienza popolare: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua» (v.4). Lo diciamo tante volte.

Soffermiamoci sull’atteggiamento dei compaesani di Gesù. Potremmo dire che essi conoscono Gesù, ma non lo riconoscono. C’è differenza tra conoscere e riconoscere. In effetti, questa differenza ci fa capire che possiamo conoscere varie cose di una persona, farci un’idea, affidarci a quello che ne dicono gli altri, magari ogni tanto incontrarla nel quartiere, ma tutto questo non basta. Si tratta di un conoscere direi ordinario, superficiale, che non riconosce l’unicità di quella persona. È un rischio che corriamo tutti: pensiamo di sapere tanto di una persona, e il peggio è che la etichettiamo e la rinchiudiamo nei nostri pregiudizi. Allo stesso modo, i compaesani di Gesù lo conoscono da trent’anni e pensano di sapere tutto! “Ma questo non è il ragazzo che abbiamo visto crescere, il figlio del falegname e di Maria? Ma da dove gli vengono, queste cose?”. La sfiducia. In realtà, non si sono mai accorti di chi è veramente Gesù. Si fermano all’esteriorità e rifiutano la novità di Gesù.

E qui entriamo proprio nel nocciolo del problema: quando facciamo prevalere la comodità dell’abitudine e la dittatura dei pregiudizi, è difficile aprirsi alla novità e lasciarsi stupire. Noi controlliamo, con l’abitudine, con i pregiudizi. Finisce che spesso dalla vita, dalle esperienze e perfino dalle persone cerchiamo solo conferme alle nostre idee e ai nostri schemi, per non dover mai fare la fatica di cambiare. E questo può succedere anche con Dio, proprio a noi credenti, a noi che pensiamo di conoscere Gesù, di sapere già tanto di Lui e che ci basti ripetere le cose di sempre. E questo non basta, con Dio. Ma senza apertura alla novità e soprattutto – ascoltate bene – apertura alle sorprese di Dio, senza stupore, la fede diventa una litania stanca che lentamente si spegne e diventa un’abitudine, un’abitudine sociale. Ho detto una parola: lo stupore. Cos’è, lo stupore? Lo stupore è proprio quando succede l’incontro con Dio: “Ho incontrato il Signore”. Leggiamo il Vangelo: tante volte, la gente che incontra Gesù e lo riconosce, sente lo stupore. E noi, con l’incontro con Dio, dobbiamo andare su questa via: sentire lo stupore. È come il certificato di garanzia che quell’incontro è vero, non è abitudinario.

Alla fine, perché i compaesani di Gesù non lo riconoscono e non credono in Lui? Perché? Qual è il motivo? Possiamo dire, in poche parole, che non accettano lo scandalo dell’Incarnazione. Non lo conoscono, questo mistero dell’Incarnazione, ma non accettano il mistero. Non lo sanno, ma il motivo è inconsapevole e sentono che è scandaloso che l’immensità di Dio si riveli nella piccolezza della nostra carne, che il Figlio di Dio sia il figlio del falegname, che la divinità si nasconda nell’umanità, che Dio abiti nel volto, nelle parole, nei gesti di un semplice uomo. Ecco lo scandalo: l’incarnazione di Dio, la sua concretezza, la sua “quotidianità”. E Dio si è fatto concreto in un uomo, Gesù di Nazaret, si è fatto compagno di strada, si è fatto uno di noi. “Tu sei uno di noi”: dirlo a Gesù, è una bella preghiera! E perché è uno di noi ci capisce, ci accompagna, ci perdona, ci ama tanto. In realtà, è più comodo un dio astratto, distante, che non si immischia nelle situazioni e che accetta una fede lontana dalla vita, dai problemi, dalla società. Oppure ci piace credere a un dio “dagli effetti speciali”, che fa solo cose eccezionali e dà sempre grandi emozioni. Invece, cari fratelli e sorelle, Dio si è incarnato: Dio è umile, Dio è tenero, Dio è nascosto, si fa vicino a noi abitando la normalità della nostra vita quotidiana. E allora, succede a noi come ai compaesani di Gesù, rischiamo che, quando passa, non lo riconosciamo. Torno a dire quella bella frase di Sant’Agostino: “Ho paura di Dio, del Signore, quando passa”. Ma, Agostino, perché hai paura? “Ho paura di non riconoscerlo. Ho paura del Signore quando passa. Timeo Dominum transeuntem”. Non lo riconosciamo, ci scandalizziamo di Lui. Pensiamo a com’è il nostro cuore rispetto a questa realtà.

Ora, nella preghiera, chiediamo alla Madonna, che ha accolto il mistero di Dio nella quotidianità di Nazaret, di avere occhi e cuore liberi dai pregiudizi e avere occhi aperti allo stupore: “Signore, che ti incontri!”. E quando incontriamo il Signore c’è questo stupore. Lo incontriamo nella normalità: occhi aperti alle sorprese di Dio, alla Sua presenza umile e nascosta nella vita di ogni giorno.

Angelus 4 luglio 2021

Gesù, troppo umano
Enzo Bianchi

Il brano evangelico di questa domenica ci interroga soprattutto sul nostro atteggiamento abituale, quotidiano: atteggiamento che in profondità non spera nulla e dunque non attende nessuno; e soprattutto, atteggiamento che non riesce a immaginare che dal quotidiano, dall’altro che ci è familiare, da colui che conosciamo possa scaturire per noi una parola veramente di Dio. Non abbiamo molta fiducia nell’altro, in particolare se lo conosciamo da vicino, mentre siamo sempre pronti a credere allo “straordinario”, a qualcuno che si imponga. Siamo talmente poco muniti di fede-fiducia, che impediamo che avvengano miracoli perché, anche se questi avvengono, non li vediamo, non li riconosciamo, e dunque questi restano eventi inutili, miracoli che non ottengono il loro fine.

Questo, in profondità, il messaggio del vangelo odierno, una pagina che riguarda la nostra fede, la nostra disponibilità a credere. Gesù era nato da una famiglia ordinaria: un padre artigiano e una madre casalinga come tutte le donne del tempo. La sua era una famiglia con fratelli e sorelle, cioè parenti, cugini, una famiglia numerosa e legata da forti vincoli di sangue, come accadeva in oriente. Da piccolo, come ogni ragazzo ebreo, Gesù ha aiutato il padre nei lavori, ha giocato con Giacomo, Ioses, Giuda, Simone e con le sue sorelle, ha condotto una vita molto quotidiana, senza che nulla lasciasse trasparire la sua vocazione e la sua singolarità. Poi a un certo punto, non sappiamo quando, sono iniziati per lui quelli che Robert Aron ha chiamato “gli anni oscuri di Gesù”, presso le rive del Giordano e del mar Morto, dove vivevano gruppi e comunità di credenti giudei in attesa del giorno di Dio, uomini dediti alla lettura delle sante Scritture e alla preghiera. Gesù a una certa età li raggiunse e qui divenne discepolo di Giovanni il Battista (il quale lo definì “colui che viene dietro a me”: cf. Mc 1,7). Poi sentì come vocazione da Dio quella di essere un predicatore itinerante, iniziando il suo ministero dalla Galilea, la terra in cui era stato allevato (cf. Mc 1,14-15).

E quando ormai Gesù ha un gruppo di discepoli che vivono con lui (cf. Mc 3,13-19), nella sua predicazione di villaggio in villaggio, in giorno di sabato entra nella sinagoga di Nazaret, “la sua patria”. Torna dopo molto tempo trascorso altrove, e gli abitanti del villaggio lo ricordano come “figlio di” e “fratello di”. Al momento della lettura del brano della Torah (parashah) e dei profeti (haftarah), Gesù, essendo un uomo ebreo, come ogni altro ebreo di più di dodici anni, dopo essere diventato bar mitzwah, figlio del comandamento, ha la possibilità di salire sull’ambone e di prendere la parola. Non è un sacerdote, non è un rabbi ufficialmente riconosciuto – “ordinato”, diremmo noi – ma esercita questo diritto di leggere le Scritture e tenere l’omelia.

A differenza di Luca (cf. Lc 4,16-30), Marco non specifica né i testi biblici proclamati né il contenuto del commento di Gesù, ma mette in evidenza la reazione dell’assemblea liturgica che lo ha ascoltato. D’altronde la sua fama lo ha preceduto: torna a Nazaret come un “maestro” dai tratti profetici, capace di operare guarigioni, azioni miracolose con le sue mani. La prima reazione è di stupore e ammirazione: è un bravo predicatore, ha autorevolezza, la sua parola colpisce e appare ricca di sapienza. Ma di fronte a tale incontestabile verità ecco emergere un pensiero: lo conosciamo come uno di noi, la sua famiglia è qui, i suoi fratelli e le sue sorelle hanno nomi precisi. Dunque che cosa pretende, che cosa vuole? Perché dovrebbe essere “altro”? Sì, Gesù era un uomo come gli altri, si presentava senza tratti straordinari, appariva fragile come ogni essere umano. Così quotidiano, così dimesso, senza qualcosa che nelle sue vesti proclamasse la sua gloria e la sua funzione, senza un “cerimoniale” fatto di persone che lo accompagnassero e lo rendessero solenne nell’apparire tra gli altri.

No, troppo umano! Ma se non c’è in lui nulla di “straordinario”, come poterlo accogliere? Con ogni probabilità, Gesù non aveva neppure una parola seducente, non si atteggiava in modo da essere ammirato o venerato. Era troppo umano, e per questo “si scandalizzavano di lui” (eskandalízonto en autô), cioè sentivano proprio in quello che vedevano, in quella sua umanità così quotidiana, un ostacolo a mettere fiducia in lui e nella sua parola. Dunque quel ritorno al villaggio natale è stato un fallimento. Gesù lo comprende e osa proclamarlo ad alta voce: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Sì, questo è avvenuto: proprio chi pretendeva di conoscerlo, in quanto concittadino, vicino o parente, giunge a disprezzarlo. Marco aveva già annotato che all’inizio della sua predicazione i suoi familiari erano venuti per prenderlo e portarlo via, dicendo che egli era pazzo, fuori di sé (éxo: cf. Mc 3,21); ma ora è tutta la gente a emettere questo giudizio negativo su di lui: il suo atteggiamento è troppo umano, poco sacrale, poco rituale!

Gesù allora si mette a curare i malati là presenti, e ne guarisce anche qualcuno, ma è come se non avesse operato miracoli, perché il miracolo avviene quando il testimone passa dall’incredulità alla fede. Qui invece sono restati tutti increduli, per questo Marco sentenzia: “non poteva compiere nessun miracolo” (dýnamis). Gesù è ridotto all’impotenza, non può agire con potenza, non può neanche fare il bene, perché non c’è fede in lui da parte dei presenti. Che torto aveva Gesù? Rispetto a quei “suoi”, camminava troppo avanti agli altri, teneva un passo troppo veloce, vedeva troppo lontano, aveva la parrhesía, il coraggio di dire ciò che gli altri non dicevano, osava pensare ciò che gli altri non pensavano, e tutto questo restando umano, troppo umano.

Ecco ciò che attende chiunque abbia ricevuto un dono da Dio, anche solo una briciola di profezia: diventa insopportabile, e comunque è meglio non fargli fiducia… Gesù “si stupisce della loro mancanza di fede (apistía)”, e tuttavia non demorde: continua la sua missione andando altrove, sempre predicando e operando il bene. Ma senza ricevere fede-fiducia, Gesù non riesce né a convertire né a guarire.

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Lo scandalo vincente del profeta
Romeo Ballan mccj

“Io ti mando a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me… sono figli testardi e dal cuore indurito… sono una genìa di ribelli” (Ez 2,3-5). Con un linguaggio che oggi sarebbe considerato esagerato e offensivo, il Signore ha inviato il giovane Ezechiele (I lettura) a essere profeta tra gli Israeliti (VI sec. av. C.) deportati in schiavitù a Babilonia. Il linguaggio duro indica la difficile missione di essere profeta. Era difficile allora; lo è stato per Gesù (Vangelo) e per Paolo (II lettura). Essere profeta di Dio, portatore del Vangelo di Gesù, è stata sempre una missione ardua in ogni epoca e latitudine. Senza il prurito di cercarsi aureole di eroismo, la storia offre prove copiose di tali difficoltà. Le tre letture di questa domenica invitano a riflettere sulla vocazione e la missione del ‘profeta’, cioè degli uomini e delle donne che ci parlano in nome di Dio. Con una domanda che interpella ciascuna/o di noi: perché il cuore umano spesso si chiude a Dio, non ascolta la Sua Parola, non vive secondo il Vangelo? Oggi Gesù ci chiede di accoglierlo e di seguirlo. Perché Lui ci offre la vita e la vera felicità!

Il profeta autentico non è mai un auto-candidato, ma un chiamato da Dio, che lo manda. Spesso la chiamata di Dio avviene a tappe, che aiutano a comprendere il senso e la portata di una vocazione. Così è avvenuto per Abramo, Mosè, Gesù stesso, i Dodici apostoli, Paolo e tanti altri. Per Ezechiele la chiamata ha almeno tre momenti: in primo luogo, la visione del “carro del Signore” in una scenografia ricca d’immagini di non facile comprensione (Ez 1). Segue la chiamata vera e propria, espressa in termini diretti (I lettura): è Dio che interviene e abita nel profeta (v. 2); questi si alza in piedi, ascolta la voce di Dio che lo manda (v. 3.4) a quei “figli testardi e dal cuore indurito” (v. 4). Ma il profeta – è il terzo momento della vocazione – non deve aver paura, non deve lasciarsi impressionare dalle facce di quella genìa di ribelli, che sono come cardi, spine, scorpioni… (v. 6-7). Egli si presenta a loro, forte della Parola che ha mangiato: il rotolo della Parola diventa per la sua bocca dolce come il miele. Il profeta avrà una “faccia tosta”: non dirà parole sue, ma solo quelle che avrà ascoltate dal Signore e che avrà accolte nel suo cuore. In questo modo egli sarà sentinella fedele e coraggiosa nel trasmettere i messaggi di Dio. Ascoltino o non ascoltino. (Ez 3).

Nella Bibbia per 365 volte risuona questo saluto di Dio a diverse persone: «Non aver paura!» È quasi il “buongiorno” che Dio ci ripete a ogni alba. Lo ripete a tutti, anche in questo periodo così arduo (cfr. G. Ravasi).

San Paolo è un modello di profeta, scelto dal Signore per una missione di primo annuncio del Vangelo ai pagani. Una missione che egli ha realizzato con determinazione, generosità, ampiezza di orizzonti geografici e culturali, in mezzo a prove di ogni genere, come racconta nei testi che precedono il brano di oggi (II lettura). È stata una missione coraggiosa, vissuta al tempo stesso nell’umiltà e nella debolezza, con una spina nella carne (v. 7). Ha pregato insistentemente per esserne liberato, ma alla fine ha compreso che la grazia del Signore era in lui (v. 8-9). E ancor più, Paolo scopre che la missione è più forte e più vera quando si realizza nella debolezza: negli oltraggi, difficoltà, persecuzioni, angosce sofferte per Cristo (v. 10). Perché in tal modo appare chiaramente che vocazione e missione sono opera di Dio e non invenzioni umane. L’esperienza storica dei missionari e delle Chiese da loro fondate e sostenute danno prova di questo paradosso, sul quale solo il mistero di Cristo getta un po’ di luce.

Sembrerebbe logico che almeno la missione profetica del Figlio di Dio in carne umana fosse chiara per tutti, accettata senza rifiuti né contestazioni. Invece, proprio nella sua patria, dove si conoscono tutti, tra i suoi, Gesù fu incompreso (Vangelo) e più tardi, nella città santa di Gerusalemme fu eliminato in un complotto ordito dai suoi avversari religiosi e politici. A Nazaret la gente, stupita (v. 2), oscilla da un pregiudizio all’altro, tra varie interpretazioni: si pone ben cinque domande circa l’identità di Gesù (v. 2-3), passando dalla sorpresa allo scandalo, alla gelosia, fino al rifiuto di quel concittadino che appare troppo divino (sapienza, prodigi…), ma al tempo stesso troppo umano (falegname, uno come loro, di famiglia ben conosciuta…). “Ed era per loro motivo di scandalo”. Che cosa li scandalizza? L’umanità, la familiarità di un Dio che abbandona il tempio ed entra nell’ordinarietà di ogni casa, diventando il “God domestic” (Giuliana di Norwich, sec. XIII), il Dio di casa. Gesù, rabbi senza titoli e con i calli alle mani, si è messo a raccontare Dio con parabole che sanno di casa, di terra, di orto, dove un germoglio, un grano di senape, un fico a primavera diventano personaggi di una rivelazione. Scandalizza l’umiltà di Dio. Non può essere questo il nostro Dio. Dov’è la gloria e lo splendore dell’Altissimo?

Gesù al rifiuto dei suoi compaesani si stupisce, ma non desiste. La sua risposta non è né rancore, né condanna, tanto meno depressione, ma una meraviglia che rivela come Dio ha un cuore di luce: “Non vi poté operare nessun prodigio”. Ma subito si corregge: “Solo impose le mani a pochi malati e li guarì”. Data l’incredulità di molti, Gesù, a malincuore, è obbligato a limitarsi: compie solo poche guarigioni (v. 5).

Nonostante la chiusura e l’incomprensione di quegli abitanti, Gesù risponde con un triplice segno: 1. Compie alcuni miracoli; 2. percorre i villaggi d’intorno, si commuove al vedere la gente, insegna loro molte cose (v. 6 e 34); 3. chiama i Dodici e li manda a due a due tra la gente, dando anche a loro “potere sugli spiriti immondi” (v. 7). Anche i Dodici, venuto il tempo della loro missione piena sulle strade del mondo, vivranno le stesse esperienze del loro Maestro: incontreranno riconoscimenti e accettazioni, ma più spesso incomprensioni e persecuzioni, sospetti e disprezzo, assieme a malattie, fragilità e difetti personali.

Sono le alterne vicende della vita di ogni missionario, chiamato a seguire i passi di Gesù, che aveva predetto: “Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi; se hanno osservato la mia parola…” (Gv 15,20). E sempre con la certezza di Paolo: la potenza di Cristo e del suo piano di salvezza “si manifesta pienamente nella debolezza” (2Cor 12,9). Attraverso la fragilità degli strumenti umani, appare più chiaramente che la forza della missione e per la missione viene da Dio. È questo lo scandalo del profeta; è lo scandalo vincente della croce.

Il Dio rifiutato si fa ancora guarigione, anche di pochi, anche di uno solo. L’innamorato respinto continua ad amare, anche senza ritorno. Di noi Dio non è stanco: è solo stupito. E allora manda ancora profeti, uomini/donne che ci parlano di Dio. Accogliamo il loro messaggio di conversione, apriamo il cuore; fidiamoci di Dio: Egli solo ha parole di verità, di salvezza. Di vita!

Lo «scandalo» di un Dio che entra nella mia casa
Ermes Ronchi

Il Vangelo di oggi è chiuso tra due parentesi di stupore: inizia con la sorpresa della gente di Nazaret: Da dove gli viene tutta questa sapienza e questi prodigi?. E termina con la meraviglia di Gesù: E si meravigliava della loro incredulità. Né la sapienza né i miracoli fanno nascere la fede; è vero il contrario, è la fede che fa fiorire miracoli.

La gente passa in fretta dalla fascinazione alla diffidenza e al rifiuto. Da dove gli vengono queste cose? Non da Nazaret. Non da qui. In questa domanda «Da dove?» è nascosto il punto da cui ha origine l’Incarnazione: con il Verbo entra nel mondo un amore da altrove, “alieno”, qualcosa che la terra da sola non può darsi, viene uno che profuma di cielo. Quel mix di sapienza e potenza che Gesù trasmette, non basta alla gente di Nazaret per aprirsi allo spirito di profezia, quasi che il principio di realtà («Lo conosco, conosco la sua famiglia, so come lavora») lo avesse oscurato.

Ma l’uomo non è il suo lavoro, nessuno coincide con i problemi della sua famiglia: il nostro segreto è oltre noi, abbiamo radici di cielo. Gesù cresce nella bottega di un artigiano, le sue mani diventano forti a forza di stringere manici, il suo naso fiuta le colle, la resina, sa riconoscere il tipo di legno. Ma, noi pensiamo, Dio per rivelarsi dovrebbe scegliere altri mezzi, più alti.

Invece lo Spirito di profezia viene nel quotidiano, scende nella mia casa e nella casa del mio vicino, entra là dove la vita celebra la sua mite e solenne liturgia, la trasfigura da dentro. Fede vera è vedere l’istante che si apre sull’eterno e l’eterno che si insinua nell’istante.

Dice il Vangelo: Ed era per loro motivo di scandalo. Scandalizza l’umanità di Gesù, la prossimità di Dio. Eppure è proprio questa la buona notizia del Vangelo, stupore della fede e scandalo di Nazaret: Dio ha un volto d’uomo, il Logos la forma di un corpo. Non lo cercherai nelle altezze del cielo, ma lo vedrai inginocchiato a terra, ai tuoi piedi, una brocca in mano e un asciugamano ai fianchi.

La reazione di Gesù al rifiuto dei compaesani non si esprime con una reazione dura, con recriminazioni o condanne; come non si esalta per i successi, così Gesù non si deprime mai per un fallimento, «ma si meravigliava» con lo stupore di un cuore fanciullo. A conclusione del brano, Marco annota: Non vi poté operare nessun prodigio; ma subito si corregge: Solo impose le mani a pochi malati e li guarì. Il Dio rifiutato si fa ancora guarigione, anche di pochi, anche di uno solo. L’amante respinto continua ad amare anche pochi, anche uno solo. L’amore non è stanco: è solo stupito. Così è il nostro Dio: non nutre mai rancori, lui profuma di vita.

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Dio, forte nella nostra debolezza
Alvise Bellinato

È particolarmente suggestivo il tema che viene affrontato dalle letture di questa Domenica. Apparentemente sembra una contraddizione: Dio, il potente, è capace di manifestarsi nell’uomo anche attraverso la sua debolezza.

Nella prima lettura abbiamo ascoltato come il profeta Ezechiele viene mandato agli israeliti per proclamare la parola di Dio. Dio, però, fin dall’inizio, gli preannuncia che la sua parola non verrà accolta. Gli israeliti riserveranno al profeta lo stesso trattamento che hanno riservato al Signore: la non accoglienza della parola. Alla base di questa situazione di non accoglienza della parola di Dio c’è un atteggiamento di ribellione e di “sclerocardia” (indurimento del cuore). Il popolo è composto infatti da “figli testardi e dal cuore indurito”. Contro la testardaggine e l’irrigidimento nemmeno Dio può far nulla.

Verrebbe da domandarsi che senso abbia l’esercizio della funzione profetica, quando già si sa che la parola non verrà accolta. Ha un significato annunziare la volontà di Dio quando si sa già, in anticipo, che essa non verrà accettata? Non è questo un vano esercizio, una perdita di tempo? Il libro del profeta Ezechiele ci dice che anche nel rifiuto della verità, che è logica conseguenza del bene più prezioso che Dio ha donato all’uomo – la libertà – si manifesta un importante elemento della funzione profetica: essere testimoni di Dio.

Il profeta non annuncia la parola di Dio per “vincere” o per “avere ragione”. Il profeta è chiamato a svolgere la sua funzione nella libertà interiore, senza cercare il consenso e l’approvazione, senza puntare alla popolarità e all’accoglienza. La sua funzione è portare un messaggio che non è suo: è di Dio. Ci penserà Dio a realizzarlo. Dio rispetta la libertà dell’uomo, sa che l’uomo può rifiutare di accogliere il suo messaggio, ma lo comunica – attraverso i profeti – ugualmente, con la speranza che un giorno, dopo aver sperimentato le conseguenze della durezza di cuore e della ribellione, gli uomini, ripensando alle sue parole, possano ravvedersi.

Si rileva qui una funzione importante della profezia: il popolo conoscerà che un profeta è in mezzo a loro non tanto perché il profeta sarà potente, rispettato, accolto, ma – al contrario – perché sarà sconfitto e “perdente”. Ciò che conta, agli occhi di Dio, è lo svolgimento della propria vocazione. Dio è capace di conferire al profeta la sua identità, e di far sì che essa venga riconosciuta dal popolo, anche attraverso l’esperienza della debolezza e dell’umano fallimento.

Questa parola ci ricorda come sia importante, per i cristiani, essere testimoni della parola di Dio anche in contesti in cui difficilmente la testimonianza sarà accolta. L’esito della testimonianza non dipende da noi. Siamo servi inutili: quando abbiamo fatto ciò che ci è stato domandato, lasciamo che sia Dio a dare compimento e forza al suo progetto.

Una tematica simile è affrontata nella seconda lettura. Paolo si lamenta per una “spina nella carne” che lo tormenta e dalla quale vorrebbe essere liberato. Non sappiamo esattamente di cosa si tratti: certamente era qualcosa che lo disturbava e gli rendeva difficile la missione profetica. Per ben tre volte – ci dice – ha pregato il Signore che lo liberasse da questa spina. Ma egli si è sentito rispondere dal Signore qualcosa di veramente sorprendente: “La mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza”.

Vengono in mente quelle pagine della Bibbia in cui Dio parla in questo modo: “Non vorrei che tu pensassi che grazie alla tua bravura hai vinto la battaglia (oppure: hai ottenuto il successo, ecc.)”. Per evitare che Israele monti in superbia e attribuisca a se stesso il merito di certe imprese, spesso Dio chiede qualcosa di strano: chiede di diminuire il numero di soldati in battaglia, di fare cose incomprensibili (umanamente prive di logica), affinché appaia chiaro che l’opera è di Dio e non dell’uomo.

Anche l’apostolo fa questa esperienza “per non montare in superbia a causa della grandezza delle rivelazioni”. Affinché Paolo non possa pensare che le conversioni suscitate dalla sua predicazione siano frutto della sua eloquenza o della sua capacità comunicativa, Dio gli pone una spina nella carne. In questo modo si realizza ciò che Dio vuole: appare chiaro che l’opera è di Dio e non dell’uomo.

Esiste un legame sottile tra l’esperienza di Ezechiele che, attraverso la sconfitta umana, viene riconosciuto come profeta del Signore, e Paolo, che attraverso l’esperienza del limite, diventa strumento della potenza di Dio. Entrambi sono solo mezzi e, in quanto tali, possono anche fare l’esperienza dell’inadeguatezza e della sconfitta. Paradossalmente, proprio grazie a questa inadeguatezza, saranno riconosciuti come strumenti di un messaggio che non è loro, ma di Dio.

Anche per noi cristiani vale questa regola: la testimonianza che dobbiamo portare al mondo non è nostra. Siamo solo portatori della Parola di un Altro. Dobbiamo farlo con coerenza e carità, facendo del nostro meglio perché questa Parola venga accolta, ma dobbiamo sempre lasciare l’esito a Dio, affinché la sua volontà sia fatta. Così agendo, potremo forse giungere anche noi a riconoscere: “Quando sono debole, è allora che sono forte”, che equivale a dire: quando sono solo uno strumento, Dio può passare in me.

Infine, il Vangelo recupera ancora l’argomento trattato dalle altre due letture. Gesù stesso, il figlio di Dio, fa l’esperienza di Ezechiele e Paolo. Nel suo caso il limite non è costituito da una aperta ribellione del popolo o da un problema o una limitatezza della sua persona, ma dal fatto di trovarsi nella sua patria, tra la sua gente. La gente lo conosce e commenta: “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria?”.

È molto forte l’annotazione presente nel Vangelo odierno: “E si scandalizzavano di lui”. La parola “scandalo” deriva dal greco e significa “inciampo”. L’inciampo – umanamente parlando – per Ezechiele era stato il trovarsi in mezzo a una genia di ribelli, a gente dal cuore indurito. L’inciampo, per Paolo, era stato il constatare la propria limitatezza umana. L’inciampo, per Gesù, è il trovarsi in mezzo a persone che non riescono ad immaginare che proprio lui, il concittadino carpentiere, possa essere il figlio di Dio.

Questo atteggiamento del popolo genera l’incredulità, la scarsa disponibilità ad accogliere il dono presente nella persona Gesù. Contro questa incredulità nemmeno Gesù può intervenire: “E non potè operare nessun prodigio”. L’incredulità dell’uomo ha il potere straordinario di annullare l’onnipotenza di Dio. Come Ezechiele si era arreso davanti alla ribellione di Israele, come Paolo si arrende al proprio limite, così Gesù si ferma davanti all’incredulità.

La libertà, che si manifesti in opposizione, limite o mancanza di fede, è una caratteristica dell’uomo, creato a immagine di Dio. A volte non è proprio usata bene e non vale la pena chiamarla libertà, ma è sempre la capacità delle persone di fare le proprie scelte, anche in opposizione al piano di Dio.

Nell’atteggiamento di Gesù, rifiutato dal suo popolo, possiamo vedere quello di tanti cristiani, che sperimentano la difficoltà a testimoniare la loro identità, proprio all’interno della famiglia o nell’ambiente dove sono ben conosciuti. Anche Gesù ha conosciuto questo limite.

In conclusione, la liturgia odierna ci invita a compiere un atto di umiltà profondo. “Siamo servi inutili, abbiamo fatto solamente ciò che ci è stato chiesto”. Quando ci siamo sforzati di vivere in conformità al Vangelo, lasciamo l’esito nelle mani di Dio.

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