LA MIA VITA PER IL SUDAN
«Autobiografia» basata sulle Memorie del vescovo missionario
MONS. EDOARDO MASON
Prima parte

Sono nato a Limena, alle porte di Padova, l′8 novembre 1903. Consultando i registri battesimali ho appreso in seguito anche l′ora esatta della mia nascita: le tre del pomeriggio, l′ora della morte di Cristo in croce, quindi l′ora della redenzione, della nostra rinascita.
Al battesimo mi venne imposto il nome di Edoardo. «Come mai questo nome?», chiesi un giorno a mia madre; si trattava infatti di un nome del tutto insolito tra i nostri parenti e perfino nella nostra parrocchia. Mi fu spiegato che, secondo la tradizione, dovevo essere chiamato con il nome del santo festeggiato nel giorno della nascita. L′8 novembre era il giorno seguente alla festa di san Prosdocimo, primo vescovo e protettore di Padova. Purtroppo nel linguaggio comune della nostra gente «prosdocimo» è usato per indicare una persona poco intelligente, cui si guarda con compassione. Non vollero perciò affibbiarmi un nome del genere. Risalendo indietro con i santi del calendario giunsero a Carlo, nome da noi poco usato. Più indietro ancora c′erano tutti i Santi, poi si passava a ottobre, dove ci s′imbatteva presto in san Raffaele arcangelo; ma questo nome era già stato dato a mio fratello. Di interessante c′era poi la festa dei santi Angeli custodi; ma anche il nome di Angelo era già stato imposto a mio fratello nato subito prima di me. Alla fine s′imbatterono in Edoardo, santo re d′Inghilterra, e decisero di chiamarmi così. Da notare che tutti i miei fratelli al battesimo ricevettero un secondo nome; io fui chiamato solo Edoardo, forse perché era stato già difficile trovare questo nome. Io però, al momento della mia professione religiosa, decisi di aggiungermi un secondo nome, quello di Giuseppe, per avere un altro forte intercessore e protettore.
La casa dove nacqui era situata vicino all′argine del fiume Brenta e distava circa un chilometro dalla chiesa parrocchiale di Limena. Un tempo era appartenuta alla famiglia Visco, che doveva essere molto agiata, per non dire ricca. Si trattava infatti di una grande casa, circondata da un boschetto e con un ingresso piuttosto signorile chiuso da un cancello sostenuto da due pilastri. Una stradina la collegava alla statale 47 della Valsugana, e prima di giungere alla casa passava davanti alla fattoria, con il portico, i fienili e il deposito degli attrezzi agricoli. Fu acquistata da mio nonno, quando lasciò la casa madre dei Mason, situata nella parte del paese detta «Limena fuori». Vi si trasferì insieme con i suoi due figli sposati, cioè mio papà e mio zio: due famiglie numerose, perché mio zio aveva dodici figli e nove mio padre (ma uno morì ancora bambino).
Ricordi felici
Ricordo la mia infanzia come un periodo di grande allegria e serenità. Noi ragazzi eravamo una bella compagnia. In particolare con i miei due fratelli e due o tre dei miei cugini formavamo un gruppo unito e forte: tutti ci rispettavano e con noi non dovevano prendersi troppa libertà. Sapevamo prenderci i nostri svaghi e divertimenti, alcune volte non sempre legali, che perciò il nonno, i genitori o i fratelli maggiori non vedevano di buon occhio e dovevano stare attenti che i piccoli non facessero cose pericolose o dannose per l’andamento della casa.
Ricordo le serate d’estate quando giocavamo con tanta allegria sul piccolo prato alberato che stendeva tra le due case, quella d’abitazione e la masseria. In autunno poi ci divertivamo molto quando dovevamo condurre i cavalli al pascolo. In casa avevamo tre cavalli: uno grosso, da tiro, poi una cavalla, piuttosto smilza, da corsa, che era adoperata rare volte, percné era difficile da governare, e infine una cavallina ormai anzianotta, ma docile quanto mai. Quest′ultima veniva usata da tutti e serviva anche per i nostri trasporti; infatti la nostra «timonella» (una specie di calesse) era trainata da lei, sia per andare in città, ai mercati, sia per andare a far visita ai parenti nei paesi vicini. In autunno dunque li conducevamo al pascolo nei campi, portandoci dietro anche un po’ di pranzo al sacco che mangiavamo dopo aver giocato. Fu allora che anch’io imparai a cavalcare, insieme con mio fratello e mio cugino, che era piuttosto piccolo di statura, smilzo e cavalcava molto bene.
Un altro spasso per noi, era l’uso della fionda. Ci serviva per prendere qualche uccello e per divertirci a tirare di qua o di là. Scoprimmo che alla base dei parafulmini posti sui tetti delle nostre due case c′era un bello strato di piombo: l′ideale per ricavarne delle pallottoline per le nostre fionde. Cominciammo quindi a staccarne dei pezzetti e andammo avanti per un po′, finché qualcuno, salito per riparare alcune tegole, si accorse del danno da noi fatto. Immaginarsi le ire, le sgridate, le minacce… Allora per i nostri lanci dovemmo accontentarci dei sassi che allora, ben levigati e tondi, non mancavano sulle nostre strade. Usavamo la fionda anche per tenere a bada la piccola mandria di porci cui dovevamo badare, perché qualche animale non sconfinasse o recasse danno alle colture. Un giorno uno di noi colpì un maiale prorpio sopra una zampa. L′animale cominciò a zoppicare, la ferita si infettò e il veterinario disse che bisognava abbatterlo. Insieme uccisero anche un cavallo comprato apposta; mescolarono le carni e ne fecero ottimi salami. Così il danno praticamente non ci fu, con buona pace di colui che aveva tirato quel colpo di fionda.
Una mamma dolce e severa
Tra i ricordi della mia infanzia ha un posto particolare quello della mamma. Era molto buona e attenta, e si prendeva molta cura di me. Però era anche molto energica e a volte severa. In particolare in caso di litigi con i cugini e le cugine non prendeva mai le mie difese. Esigeva anzi che si facesse subito la pace e si tornasse tutti d′accordo. Era molto stimata sia dalla zia che dai vicini proprio per questo suo fare equanime, per il senso di giustizia, per come sapeva guidare i piccoli, con bontà e insieme con polso fermo.
Ricordo in particolare un episodio. Un pomeriggio litigai di brutto con le mie cugine. Mamma mi rimproverò fortemente; io scappai via e me ne andai per i campi. Era il tempo della mietitura, e sul terreno c′erano ancora i covoni. Decisi di fermarmi in mezzo a quei fasci, poco lontano da casa con l′idea di rimanerci anche fino a sera. All′ora di cena non mi presentai e la mia buona mamma uscì di casa e cominciò a chiamarmi a destra e a sinistra. Io sentivo, ma rimanevo là nascosto. Gli altri mangiarono e dopo cena mamma uscì di nuovo a chiamarmi. Allora mi decisi a lasciare il mio nascondiglio; adagio adagio mi inoltrai e i mi presentai. Al vedermi mi trattò con molta dolcezza e amorevolezza, pur usando parole di rimprovero; però non vi era il minimo accenno a castigo o ad altro, anzi mi prese per una mano, mi condusse dentro e mi diede da mangiare quello che lei aveva messo da parte per me. Allora compresi com′è il cuore della mamma.
Alcune birichinate
Ricordo anche altre birichinate o «canagliate». Per esempio quella del pane fresco. Questo per noi era una rarità e quindi ne eravamo golosi. Mia zia ne comprava abbastanza perché durasse alcuni giorni. Quando tornava con la spesa non entrava in casa direttamente con il sacchetto del pane fresco, perché noi l′avremmo tormentata per magiarne subito finché era fresco. Notammo che passava prima dalla cantina/dispensa dietro casa, dove riponeva il prezioso sacchetto. Scoperto il nascondiglio, ogni volta uno di noi, al ritorno della zia con il pane fresco, provvedeva a sottrarne un pezzo o due, a seconda della nostra fame o voglia. Poi ce ne andavamo fuori a giocare sbocconcellando quella golosità. Naturalmente la zia si accorgeva che mancava qualche pezzo di pane; ma nessuno di noi avrebbe mai rotto il patto di solidarietà (o meglio di omertà…).
Racconto un altro atto da «briganti», come si dice dalle nostre parti, dovuto sempre alla coscienza della forza del nostro gruppo. Uno dei nostri compagni, che abitava poco lontano da casa nostra, un giorno si azzardò a percuotere un mio cugino procurandogli una leggera escoriazione in testa. Decidemmo subito di vendicare questo affronto. Escogitammo un piano semplice: costringere il «nemico» a passare sulla strada statale, vicino alla nostra casa e lì attaccarlo senza che avesse modo di radunare compagni e amici, con il rischio di una vera battaglia campale. Un giorno tornando da scuola, fu dunque persuaso a prendere la strada che passava davanti a casa nostra. Là gli andammo incontro e cominciammo il pestaggio: pugni., calci, botte varie, ma senza causare danni gravi. I due amici che lo accompagnavano se la diedero subito a gambe, e così noi fummo liberi di infierire, finchè il poverino non implorò pietà e misericordia. Noi, commossi o st:anchi, lo lasciammo andare, ma con l′avvertimento che si guardasse bene dal compiere altri gesti di inimicizia.
La nostra casa, come dicevo, sorgeva presso l′argine del Brenta. Questo fiume allora era molto bello, specialmente d’estate con piccole spiagge di stupende sabbie asciutte e l’acqua che scorreva limpida e offriva bei posti per pescare sia con l’amo sia anche con le mani come facevamo noi, aiutandoci magari con qualche fiocina improvvisata, per sorprendere i pesci che durante il giorno si riposavano all’ombra e al fresco delle pietre.
Una volta notammo che sulla riva opposta alcuni ragazzi di Saletto venivano a fare il bagno proprio dirimpetto alla spiaggetta di sabbia che noi consideravamo nostro dominio; pensammo allora di far loro un bello scherzo. Un giorno aspettammo che, lasciati i loro vestiti sulla riva, in costume adamitico si inoltrassero nell’acqua per predere il bagno e divertirsi. Noi, nascosti dietro i cespugli, con le tasche e anche il seno pieni di sassi raccolti sulla strada, appena quelli si erano immersi nei loro giochi, uscimmo fuori di corsa e dal limitare della spiaggetta di sabbia, incominciammo una vera grandinata di sassi. Quei malcapitati si precipitarono fuori dall’acqua e andarono a nascordersi dietro i cespugli, senza curarsi di indossare i loro vestiti. Noi ci appostammo dove avevamo le nostre batterie, in attesa che quelli si decidessero a uscire dai cespugli per andare a prendersi i vestiti. Ma appena uno di loro metteva fuori il naso, veniva fatto oggetto di una gragnola di sassi ed era costretto a scappare di nuovo indietro. E così si andò avanti finché non ci accorgemmo che era ormai ora di andare a non so quali lezioni. Decidemmo di abbandonare il campo e lasciarli liberi di vestirsi e andare per i fatti loro. Noi ci avviammo verso la scuola, dove arrivammo tardi e fummo giustamente puniti dalla maestra; ma ci guardammo bene dal dare spiegazioni sul motivo del nostro ritardo.
Concludo il racconto delle nostre monellerie con un ultimo episodio, anche se non ricordo esattamente quando avvenne, se quando ero ancora alle elementari o dopo che ero già alunno esterno del seminario di Padova.
Un ricco possidente di Limena, che abitava in una villa con annessa una grossa fattoria, dirimpetto alla chiesa di Limena, aveva dato inizio a una grande coltivazione di peschi, con piante acquistate nel Veronese dove tale coltura intensiva era già diffusa. Dopo qualche anno, quel signore con suo pescheto poteva guadagnare molti soldi, vendendo le sue pesche nei mercati di Limena, di Padova e dei paesi vicini. Quando noi ragazzi, andano in paese per piccole commissioni o per altri motivi, passavamo vicino al grande frutteto, il profumo di quelle pesche ci metteva l’acquolina in bocca a noi ragazzi. Cosí pensammo di di pesche senza spendere soldi. D’accordo con la mia banda (tre cugini, due fratelli e due nostri vicini di casa) elaborammo un piano per entrare nel frutteto senza incappare nel guardiano. Ci dividemmo in due gruppi. Il primo, di soli due ragazzi, dove compiere un′incursione a scopo diversivo in un angolo del frutteto. Il guardiano, una volta scopertili, li avrebbe inseguiti; nel frattempo l′altro gruppo, sei ragazzi, sarebbe entrato nell′angolo opposto del frutteto e avrebbe avuto tutto il tempo per fare man bassa di pesche, riempiendo tasche, camicie o magliette e qualche borsa.
Dopo un po′ il guardiano, allontanati i primi due ladruncoli, si accorse che il grosso del furto stava avvenendo dall′altra parte. Corse subito verso di noi urlando e minacciandoci. Naturalmente ce la demmo subito a gambe. Non ricordo di aver mai corso cosí forte in vita mia, infatti riuscii a spiccare un salto tale che da una sponda del fossato atterrai dall’altra parte, sempre tenendomi ben stretto in seno la refurtiva. Il guardiano intanto ci aveva quasi raggiunto, ma, vedendo che non riusciva ad acchiapparci, scagliò il suo bastone nodoso contro di me, per fortuna senza centrarmi. Riuscimmo così a metterci tutti in salvo; e felici e contenti arrivammo a casa a gustare le nostre poco meritate pesche.
Prima comunione
Ho un caro ricordo del tempo della mia prima comunione. La preparazione catechetica fu impartita privatamente da due brave ragazze, una delle quali poi si fece suora, mentre l’altra continuò la sua vita di famiglia nelle opere parrocchiali, nell’Azione Cattolica, nella San Vincenzo e così via. Ma ricordo quel tempo anche perché in quel periodo godevo di poca buona salute. Non rammento di preciso di quali malanni soffrissi, ma so che avevo sovente mal di testa o altri disturbi. Perciò i giorni prima della comunione, furono alquanto mesti e anche i tristi a causa di questi disturbi. Ma ricordo ugualmente la bellezza di quel giorneo e in particolare l′entusiasmo con cui siamo stati preparati da quelle due giovani, che ci istruivano con molta devozione ed amore, e anche il fervore del nostro arciprete, don Francecso Rossi. Costui divenne poi arcivescovo di Cagliari e in seguito di Ferrara. Mi piace sottolineare una singolare coincidenza: don Rossi mi battezzò a Limena, come arciprete, poi, come arcivescovo di Cagliari, mi conferì la cresima e infine, da arcivescovo di Ferrara, mi ordinò sacerdote nel 1926; e tutto questo sempre nella chiesa parrocchiale del mio paese.
Le scuole elementari
A quei tempi le scuole nei comuni minori si limitavano alle prime tre classi delle elementrari. Per proseguire gli studi si doveva trovare il modo di ottenere la cosiddetta «maturità elementare», cioè superare la quarta classe elementare. Questa classe io la feci privatamente alla scuola di don Giuseppe Faccioli, che allora era curato a Sant’Andrea di Campodarsego. Lì un mio cugino, Leonzio Bano, aveva radunato un bel gruppo di ragazzi sia di Sant’Andrea che dei paesi vicini, che frequentavano la scuola di don Giuseppe. Io abitavo a Campodarsego presso i miei zii materni, appunto i Bano, e ogni giorno dovevo compiere tre chilometri a piedi per andare fino alla frazione di Sant’Andrea dov′era la scuola; dopo mezzogiorno facevo ritorno a Campodarsego. Queste camminate quotidiane furono un esercizio provvidenziale, di cui ringrazio il Signore, quasi una preparazione alla mia vita missionaria in Africa, alle lunghe marce che avrei dovuto fare durante i miei safari o viaggi apostolici specialmente nel Bahr el Ghazal.
Di quegli anni di scuola ricordo un fatto particolare relativo alla guerra per la conquista della Libia. Forse stimolati dalle notizie che arrivavano, anche noi ragazzi ci dividemmo i due gruppi: i libici o beduini da una parte, gli italiani dall′altra. Ci davamo battaglia dapprima con le mani e con i pugni; poi ad un certo punto ci venne in mente di usare dei pezzi di legno come coltellacci o sciabole con cui affrontarci in combattimento. Questo, considerata la foga con cui ci affrontavano, poteva costituire un serio pericolo, per cui il maestro intervenne decisamente a proibire queste «armi» pericolose.
Terminata la quarta elementare, mi iscrissi come esterno al seminario diocesano di Padova, che frequentai per ben tre anni, cioè per la durata delle prime tre classi del ginnasio (come allora si chiamava).
Nel seminario di Padova
Io non avevo ancora deciso nulla su futuro della mia vocazione; i miei mi iscrissero alla scuola del seminario diocesano perché potessi proseguire i miei studi. Si pose subito il problema se farmi frequentare da esterno oppure abitando a Padova «a pensione». Questa seconda soluzione, certo più comoda per me, comportava però dei grossi costi che la mia famiglia, agiata ma non certo ricca, non poteva permettersi. Fu dunque deciso che avrei frequentato le lezioni andando su e giù dal paese. Si trattava di una distanza di otto chilometri, che io non ero certo in grado di percorrere a piedi due volte al giorno. Restavano due soluzioni: o andare e tornare in bicicletta, ma anche con il ridotto traffico veicolare di allora i rischi per un ragazzo erano sempre molti. Oppure servirsi del trenino della linea Padova-Piazzola che passava anche per Limena.
Ma i problemi non erano finiti. Infatti la nostra casa si trovava a metà strada fra le stazioni di Limena nord e di Altichiero, più vicina a Padova. Per raggiungere questa fermata doveva comunque percorrere due chilometri; altrettanti dovevo farne per raggiungere il seminario dalla stazione di Padova. Duqnue quattro chilometri, che con il ritorno diventavano otto. Per cui il mio allenamento di camminatore continuò per tre anni, assicurandomi quella grande capacità di marcia che, come detto, mi sarebbe stata utilissima nella mia attività missionaria.
A proposito del trenino ricordo due piccoli episodi. Una mattina giunsi in ritardo alla stazione, quando il treno stava già partendo. La corsa seguente sarebbe stata troppo tardi. Decisi allora di avviarmi a piedi verso Padova. Camminai tanto svelto che giunsi sulla soglia della classe proprio mentre il professore, facendo l′appello, stava pronunciando il mio nome. Risposi con un «presente!» così squillante che tutti i miei compagni scoppiarono a ridere, anche perché si erano accorti che prima non c′ero.
L’altro episodio che riguarda sempre il treno fu un po′ una sfida con me stesso. Un giorno mentre tornavo a casa, arrivato alla stazione di Alticchiero, dove il treno si fermava circa due minuti anche per scaricare delle merci, decisi di incamminarmi subito a passo svelto per vedere se arrivavo davanti casa prima io o il treno. Camminai talmente in fretta che arrivai all’inizio della stradetta che portava a casa mia proprio mentre il treno stava passando per proseguire verso Limena nord. Quando i miei mi videro arrivare e contemporaneamente scorsero passare il treno, tutti meravigliati mi chiesero: «Come hai fatto ad arrivare cosí presto, se il treno é passato appena adesso?». Io spiegai loro che avevo preso una velocità tale che se non somigliava a quella del treno poco ci mancava. Fu una bella soddisfazione per il mio amor proprio; anche se a ben pensarci quel trenino viaggiava veramente a una velocità molto bassa…
I primi tempi nella scuola in seminario furono piuttosto duri. Io, povero contadinello arrivato da un paesetto fuori città, nel primo trimestre ebbi una pagella disastrosa: una sfilza di 4 e 5, forse solo un 6 o un 7. Tant’è vero che un mio fratello più grande, che a quel tempo era studente di teologia nel seminario di Padova, quando lesse i risultati, mi rimproverò fortemente.
Ma non mi persi d′animo; mi misi anzi d′impegno e già nel secondo trimestre migliorai molto. Al terzo trimestre ebbi solo un 5 o un 6 meno; tutte le altre note erano superiori. Anzi devo dire che andando avanti, in seconda e terza ginnasio, riuscii a collocarmi nei primi posti: su 44 compagni di classe, ricordo che agli esami finali di terza ginnasio io riuscii quarto; quall’anno ottenni anche la «menzione onorevole», che era la terza qualifica di profitto scolastico dopo il primo e il secondo premio.
Frequentai la scuola del seminario negli anni 1915, ′16 e ′17, hli anni cioè della prima guerra mondiale. Le lezioni qualche volta furono disturbate dalle incursioni aeree austriache. In particolare ricordo un episodio piuttosto buffo. Quando si avvicinava un′incursione aerea il cannone del forte San Benedetto sparava un forte colpo in segno di l′allarme. In seminario il vicerettore faceva suonare tutti i campanelli elettrici e noi si correva verso i rifugi. Una mattina si sentì un forte rimbombo e subito dopo squillarono i campanelli. Il professore che stava facendo lezione di latino fu il primo a scappare e a raggiungere la porta che si trovava sul lato oppoto dell cattedra. Ma qui si presentò il vicerettore dicendoci di tornare ai nostri posti, perché si trattava di un falso allarme. Che cos′era successo? Alcuni operai stava lavorando in cantina per sistemare delle grosse botti, colpendo a colpi di martello le doghe per verificarne lo stato. Qualche loro colpo più robusto rintronò così forte che venne scambiato per il rimbombo del cannone dell′allarme. Svelato l′equivoco, anche il professore di latino tornò «coraggiosamente» al suo posto.
Vocazione missionaria
Ricordando come nacque la mia vocazione religiosa missionaria mi vengono in mente tre circostanze che mi furono di stimolo per tale scelta.. Riandando indietro nella mia vita passata, trovo che gli incentivi siano stati tre:
La prima ispirazione mi venne dalla lettura di un libro. Durante le vacanze della quarta elementare mi trovavo dai miei zii a Campodarsego, che ho già ricordato.Ogni giorno, mentre mi riposavo all’ombra del vigneto di mio zio, Nicola Bano, leggevo e meditavo alcuni libri. In particolare leggendo un giorno Il giovane provveduto, di san Giovanni Bosco rimasi colpito da una considerazione sulle verità eterne e sulla necessità di mettere al sicuro la nostra salvezza eterna. Allora mi dissi: «Bisogna dunque mettersi al sicuro, perché si tratta della parte essenziale della nostra vita. La cosa migliore sarà quella di dedicarmi al lavoro del Signore, consacrandomi a Lui nella vita religiosa sacerdotale». Da quella meditazione questo pensiero non mi abbandonó piú. Anche in seguito, nelle mie preghiere, nelle mie riflessioni, e quando si trattava di che cosa avrei fatto in futuro, tornava sempre questa ispirazione di abbracciare la via piú sicura, che era quella di consacrarmi al servizio del Signore.
Un secondo aiuto o impulso verso la vita missionaria mi venne ancora dalla lettura di altri libri. Mia cugina Erminia era abbonata ad una biblioteca di Padova Io andando in città, ogni quindici giorni dovevo passare dalla biblioteca per riportare i libri letti e prenderne di nuovi. Mia cugina mi indicava alcuni libri da leggere, in particolare racconti e romanzi di vita missionaria pubblicati dai salesiani, oppure riguardanti i Padri Oblati delle missioni del Nord del Canada, tra gli eschimesi, ecc. Desiderando cosí di fare il missionario, pensavo piuttosto all’America che all′Africa, perché quella era più lontana dall’Italia, invece mi pareva che l’Africa fosse a due passi, subito al di là del Mediterraneo.
Una terza ispirazione la ebbi da un sacerdote, oblato diocesano, che noi ci eravamo scelti come confessore e ogni tanto andavamo a trovarlo per farci raccontare le sue esperienze di missione in Brasile. Si chiamava don Pietro Nosadini; era un tipo allegro ed entusiasta e parlava con grande fervore e passione. Incoraggiava noi ragazzi ad abbracciare la via della missione, soprattutto nel Brasile e nell’America latina, descrivendoci le difficoltà e la miseria di quelle povere popolazioni, spesso prive di sacerdote e oppresse da una classe dirigente massonica e anticlericale. Quel sacerdote, non so perché, prese a benvolermi e a volte mi chiamava «mio piccolo Monsignore», perché, diceva, «se tu diventi missionario, ti faranno sicuramente vescovo». Un caso o una premonizione?…
Voglio ricordare infine che, mentre frequentavo il ginnasio inferiore a Padova, quel mio cugino Leonzio Bano che ho già ricordato era entrato come «apostolico», cioè come alunno o aspirante, nel seminario minore dei comboniani a Brescia. In questa sua scelta fu aiutato e incoraggiato dal sacerdote don Giuseppe Faccioli, che era stato mio maestro di quarta elementare a Sant′Andrea di Campodarsego.
CONTINUA