XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B)
Marco 5, 21-43

κυριακη-Ζ-λουκα

In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo.
Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.

Vivere non è sempre facile. Passare all’altra riva del lago può spaventarci. Non sempre abbiamo il coraggio di affrontare le tempeste, non sempre crediamo nelle nostre capacità di superare gli ostacoli e fronteggiare le onde. E allora proviamo ad addormentarci pensando che al risveglio le cose saranno cambiate. Il sonno è talvolta un modo per illuderci, come se fosse possibile evitare la fatica di vivere. Ci sono però anche situazioni che ci travolgono e che non riusciamo più a gestire: la vita passa, scorre, ma non riusciamo ad afferrarla. Magari sono gli altri a dirci cosa fare, mentre noi non riusciamo mai a diventare protagonisti della nostra vita.

Dall’inizio alla fine

Le due figure femminili che ci vengono presentate nel Vangelo di questa domenica rappresentano due storie che si intrecciano, proprio perché hanno a che fare con la fatica di vivere. Due donne accomunate tra l’altro dal numero dodici, che rappresenta un tempo compiuto, un periodo significativo: la fanciulla ha dodici anni, la donna ha perdite di sangue da dodici anni. Sembrano quasi un unico personaggio, segnando l’intero arco della vita, dalla fanciullezza all’età adulta: in ogni momento possiamo smarrire la possibilità di vivere in pienezza la nostra vita.

Riprendersi la vita

L’emorroissa sembra bloccata più per il giudizio degli altri che per la sua situazione fisica. Il sangue è per un ebreo la fonte della vita. Questo sangue, come la vita, scorre e non è possibile fermarlo. È una morte lenta e progressiva. Ma questa condizione la rende impura agli occhi degli altri: è costretta a vivere isolata, perché entrare in contatto con lei, che perde sangue, vuol dire diventare impuri.

Tutti le dicono cosa fare. Qui i medici rappresentano evidentemente coloro che prescrivono ricette per gli altri: fanno diagnosi, mettono etichette, somministrano soluzioni. Eppure il testo ci informa che sono proprio queste prescrizioni che rendono peggiore la sua condizione. Anzi, questi consigli non sono gratuiti, ma hanno un prezzo. E questa donna sta perdendo così tutti i suoi averi, praticamente sta perdendo se stessa, si sta svuotando, perché non decide più della sua vita.

È significativo allora che il momento in cui guarisce è quello in cui strappa la ricetta che gli altri hanno scritto per lei: questa donna guarisce quando, contravvenendo al divieto di rimanere isolata, tocca il mantello di Gesù, anzi il lembo di quel mantello, quasi furtivamente, cercando di non essere vista. Questa donna ha imparato a sua spese a essere discreta, ma ha anche mantenuto la sua fiducia in Dio: sa che Dio può tutto!

Un esempio di padre

Questa storia si intreccia però con quella di una ragazzina, il cui padre ha chiesto aiuto a Gesù. È un padre autentico, perché pur non sapendo interpretare il sonno di sua figlia, non è rimasto lì a lamentarsi o a litigare, ma è uscito per andare a cercare aiuto. Si è fatto voce per sua figlia. È un padre che sa aspettare: solo chi si fida di Dio non si lascia prendere dalla paura che sia troppo tardi.

Rimettersi in piedi

Questa fanciulla può ricordaci tanti ragazzini e adolescenti che fanno fatica a vivere, anzi che a volte rinunciano addirittura a vivere. Si addormentano e sembrano morti. Eppure non lo sono, forse aspettano solo qualcuno che si avvicini e dia loro fiducia. Gesù infatti qui è l’adulto che incoraggia. Prende per mano questa ragazzina, entra in contatto con lei, non resta distante. Dall’emorroissa era stato toccato, ora è lui che tocca questa fanciulla.   

Gesù la invita ad alzarsi: ha dodici anni, non può non camminare. È come se Gesù riconoscesse le sue risorse e le sue forze. È come se le dicesse che crede nelle sue capacità. Può rimettersi in piedi. E infatti la fanciulla si alza e i genitori sono invitati a nutrirla per sostenerla nel suo cammino.

Tutti noi attraversiamo situazioni di scoraggiamento, momenti in cui abbiamo paura di vivere o temiamo di non farcela ad affrontare le situazioni difficili e complicate che abbiamo davanti. In Gesù possiamo trovare la forza per riprendere in mano la nostra vita e per rimetterci in piedi, in lui possiamo ritornare a vivere.

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Torna con forza il tema della Vita, nelle tre letture di questa domenica: la vita come progetto iniziale e definivo di Dio (I lettura); la vita che, grazie alla fede, vince la malattia e la morte (Vangelo); e la vita condivisa nella carità (II lettura). Nel Primo Testamento, il credente biblico aveva, in generale, una conoscenza e un rapporto molto nebulosi riguardo alla morte e alla vita ultraterrena. Fanno eccezione alcuni testi prossimi al Nuovo Testamento, come il libro della Sapienza (I lettura), che appare determinato nel darci una delle più belle definizioni di Dio, come “Signore, amante della vita” (11,26). Il testo odierno afferma che “Dio non ha creato la morte… ha creato l’uomo per l’incorruttibilità” (v. 13.23). Le cose della creazione sono buone, sono fatte per esistere, sono portatrici di salvezza, perché provengono dal Dio della vita.

Con il suo progetto di vita, Dio non intendeva esimere le sue creature dalla fine naturale che è retaggio di ogni essere limitato. Purtroppo il piano divino è stato rovinato, sia pure parzialmente: “per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo” (v. 24). Infatti, il peccato, che è la morte spirituale, a cui l’uomo si abbandona liberamente, ha stravolto anche l’ordine naturale e continua ad aggravare nella sofferenza i passi cadenti dell’esistenza umana. Non ha molto senso (sarebbe solo uno sterile rimbalzare di ipotesi teoriche!) domandarsi se la morte naturale ci sarebbe stata senza il peccato di Adamo. È meglio prendere atto della nostra realtà attuale, l’unica che abbiamo.

Dio ha messo in atto per noi la rivincita sulla sofferenza e sulla morte per mezzo della fede, alla quale Gesù invita i personaggi dei due miracoli che l’evangelista Marco racconta con abbondanti dettagli (Vangelo). La donna che perde sangue da dodici anni, dilapidata da medici e cure, ritenuta legalmente impura per contatto con il sangue, ora è del tutto spacciata. Le resta solo la scorciatoia della fede, nascosta e segreta: toccare il lembo del vestito di Gesù. Le basta raggiungerlo, toccarlo, e il miracolo è fatto: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita” (v. 34). Ormai è salva, in pace, sana: è figlia, perché Gesù le ha dato la vita. È il miracolo della fede! La stessa fede alla quale Gesù invita Giàiro, il papà della bambina dodicenne appena morta: “Non temere, soltanto abbi fede!” (v. 36). A Gesù basta prendere la fanciulla per mano e dirle: “alzati!” E lei si alza, cammina e riprende a mangiare (v. 41-42). Nei due interventi miracolosi di Gesù – sulla donna inferma e sulla bambina morta – l’evangelista Marco mette in evidenza la cifra di dodici anni (un tempo lungo e completo), ma insiste soprattutto sul fatto che Gesù si lascia toccare dalla donna legalmente impura per il sangue e tocca la carne morta della bambina. Gesù non ha paura di andare oltre la l’impurità legale, perché Dio è “una mano che ti prende per mano” (E. Ronchi).

San Paolo invita i cristiani di Corinto (II lettura) a scoprire nella fede il valore evangelico della condivisione dei beni a favore di chi è nel bisogno. Nel caso specifico, l’appello paolino è a favore dei poveri nella comunità di Gerusalemme, ma le tre motivazioni teologiche su cui l’apostolo si basa sono valide per ogni tempo e situazione. Anzitutto, l’esempio di Cristo, che ha scelto di farsi povero per noi (v. 9), è un invito ad assumerne i sentimenti di condivisione e di gratuità. Inoltre, Paolo sottolinea il valore dell’uguaglianza (v. 13-14) come esigenza della vera fraternità che si ispira al Vangelo. Infine, alludendo all’esperienza degli israeliti con la manna nel deserto, Paolo mette in guardia i cristiani dalla tentazione di accumulare i beni per sé dimenticando gli altri (v. 15).

Sono indicazioni preziose anche oggi per motivare e sostenere le iniziative di cooperazione missionaria, come pure i grandi progetti e le campagne di sviluppo e di promozione umana a favore degli affamati e di altri gruppi di persone indigenti.

Nelle tre letture di oggi, la fede appare come la risposta capace di generare soluzioni globali a realtà basiche come la salute, la vita, la fraternità… La fede, infatti, è capace di dare consolazione nella sofferenza e speranza anche davanti alla morte; è capace di creare e sostenere una fraternità nuova, una vita di condivisione nella carità. Una vita di fratelli, uguali e solidali, è possibile! È l’utopia del Vangelo? Sia benvenuta, anche se esigente! Rimane sempre come un ideale davanti a noi. È questo – e non può essere un altro – il programma di quanti sono chiamati e optano per essere missionari per la Vita! Come Gesù, come Paolo…

La morte di una bambina e le uniche parole che salvano
Ermes Ronchi

La casa di Giairo è una nave squassata dalla tempesta: la figlia, solo una bambina, dodici anni appena, è morta. E c’era gente che piangeva e gridava. Di fronte alla morte Gesù è coinvolto e si commuove, ma poi gioca al rialzo, rilancia, e dice a Giairo: tu continua ad aver fede. E alla gente: la bambina non è morta, ma dorme. E lo deridevano. Allora Gesù cacciò tutti fuori di casa. Costoro resteranno fuori, con i loro flauti inutili, fuori dal miracolo, con tutto il loro realismo. La morte è evidente, ma l’evidenza della morte è una illusione, perché Dio inonda di vita anche le strade della morte.
Prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui. Gesù non ordina le cose da fare, prende con sé; crea comunità e vicinanza. Prende il padre e la madre, i due che amano di più, ricompone il cerchio degli affetti attorno alla bambina, perché ciò che vince la morte non è la vita, è l’amore.
E mentre si avvia a un corpo a corpo con la morte, è come se dicesse: entriamo insieme nel mistero, in silenzio, cuore a cuore: prende con sé i tre discepoli preferiti, li porta a lezione di vita, alla scuola dei drammi dell’esistenza, vuole che si addossino, anche per un’ora soltanto, il dolore di una famiglia, perché così acquisteranno quella sapienza del vivere che viene dalla ferite vere, la sapienza sulla vita e sulla morte, sull’amore e sul dolore che non avrebbero mai potuto apprendere dai libri: c’è molta più “Presenza”, molto più “cielo” presso un corpo o un’anima nel dolore che presso tutte le teorie dei teologi
Ed entrò dove era la bambina. Una stanzetta interna, un lettino, una sedia, un lume, sette persone in tutto, e il dolore che prende alla gola. Il luogo dove Gesù entra non è solo la stanza interna della casa di Giairo, è la stanza più intima del mondo, la più oscura, quella senza luce: l’esperienza della morte, attraverso la quale devono passare tutti i figli di Dio. Gesù entrerà nella morte perché là va ogni suo amato. Lo farà per essere con noi e come noi, perché noi possiamo essere con lui e come lui. Non spiega il male, entra in esso, lo invade con la sua presenza, dice: Io ci sono.
Talità kum. Bambina alzati. E ci alzerà tutti, tenendoci per mano, trascinandoci in alto, ripetendo i due verbi con cui i Vangeli raccontano la risurrezione di Gesù: alzarsi e svegliarsi. I verbi di ogni nostro mattino, della nostra piccola risurrezione quotidiana. E subito la bambina si alzò e camminava, restituita all’abbraccio dei suoi, a una vita verticale e incamminata.
Su ogni creatura, su ogni fiore, su ogni bambino, ad ogni caduta, scende ancora la benedizione di quelle antiche parole: Talità kum, giovane vita, dico a te, alzati, rivivi, risorgi, riprendi il cammino, torna a dare e a ricevere amore.

Toccare ed essere toccati da Gesù
Enzo Bianchi

Che cos’è l’impurità? Quando una persona è impura, cioè indegna di stare con gli altri e con Dio? Quando una persona è “segnata” da una situazione malefica? E potremmo continuare a porre domande simili o parallele, perché da sempre questi interrogativi emergono nei nostri cuori nelle differenti situazioni della nostra vita. E le risposte che noi esseri umani abbiamo dato, e magari ancora diamo, non sempre riflettono la volontà del Creatore, i sentimenti di Dio. Purtroppo le vie religiose tracciate dall’umanità spesso riflettono non il pensiero di Dio, ma sono piuttosto il frutto di sentimenti umani per i quali si sono trovate giustificazioni fonte di alienazione o di separazione tra gli umani.

In questi percorsi, il sangue, segno della vita negli animali e negli umani, ha attirato fortemente l’attenzione su di sé. Ognuno di noi è nato nel sangue che fluisce dall’utero della madre e ognuno di noi muore quando il suo sangue non scorre più. Ecco dunque, al riguardo, la Legge e le leggi: il sangue che esce da una donna nel mestruo o alla nascita di un figlio la rende impura, così come ognuno quando muore entra nella condizione di impurità, perché preda della corruzione del proprio corpo. Il sangue rende impuri, rende indegni, e questa per una donna è una schiavitù impostale dalla sua condizione secondo la Legge, dunque – dicono gli uomini religiosi – da Dio. La donna impura per il mestruo o per la gravidanza non toccherà cose sante, non entrerà nel tempio (nel Santo) e per purificarsi dovrà offrire un sacrificio; anche chi toccherà una donna impura sarà reso impuro (cf. Lv 12,1-8; 15,19-30), impuro come un lebbroso e chi lo tocca, impuro come un morto e chi lo tocca. Di qui ecco barriere, muri, separazioni innalzati tra persona e persona, ecco l’imposizione dell’esclusione e dell’emarginazione. Certo, “a fin di bene”, per evitare il contagio, per instaurare un regime di immunitas: ma al prezzo della creazione di uno steccato e dell’indegnità-impurità posta come sigillo su alcune persone! Anche le misure di precauzione finiscono per diventare una condanna…

Ma Gesù è venuto proprio per far cadere queste barriere: egli sapeva che non è possibile che il sangue di un animale offerto in sacrificio possa togliere il peccato e rendere puri, mentre il sangue di una donna versato per il naturale ciclo mestruale o il corpo di un morto di cui occorre avere cura possano generare impurità, indegnità di stare con gli altri e davanti a Dio. Per questo i vangeli mettono in evidenza che Gesù non solo curava e guariva i malati, gli impuri, come i lebbrosi o come le donne colpite da emorragia, ma li toccava e da essi si faceva toccare. Gesù abolisce ogni sorta di sacro, poiché egli non era “sacro” come i sacerdoti, essendo un ebreo laico, non di stirpe sacerdotale, e poiché vedeva nelle leggi della sacralità una contraddizione alla carità, alla relazione così vitale per noi umani. Amare l’altro vale più dell’offerta a Dio di un sacrificio (cf. Mc 12,33; 1Sam 15,22), essere misericordiosi è vivere il precetto, il comandamento dato dal “Dio misericordioso (rachum) e compassionevole (channun)” (Es 34,6). In Gesù c’era la presenza di Dio, dunque lui era “il Santo di Dio” (Mc 1,24; Lc 4,34; Gv 6,69), ma egli non temeva di contrarre l’impurità; al contrario, egli proclamava e mostrava che la santità di Dio santifica anziché rendere impuri, consuma e brucia il peccato e l’impurità, perché è una santità che è misericordia (cf. Os 11,9: “Io sono Dio e non uomo; sono il Santo in mezzo a te e non verrò da te nella mia ira”).

Per questo Gesù lasciava che i malati lo toccassero, avessero contatto con il suo corpo (cf. Mc 6,56; Mt 14,36), per questo egli toccava i malati: tocca il lebbroso per guarirlo (cf. Mc 1,41 e par.), tocca gli orecchi e la lingua del sordomuto per aprirli (cf. Mc 7,33), tocca gli occhi del cieco per ridargli la vista (cf. Mc 8,23.25), tocca i bambini e impone le mani su di loro (cf. Mc 10,13.16 e par.), tocca il morto per risuscitarlo (cf. Lc 7,14); e a sua volta si lascia toccare dai malati, da una prostituta, dai discepoli, dalle folle… Toccare, questa esperienza di comunicazione, di con-tatto, di corpo a corpo, azione sempre reciproca (si tocca e si è toccati, inscindibilmente!), questo comunicare la propria alterità e sentire l’altrui alterità… Toccare è il senso fondamentale, il primo a manifestarsi in ciascuno di noi, ed è anche il senso che più ci coinvolge e ci fa sperimentare l’intimità dell’altro. Toccare è sempre vicinanza, reciprocità, relazione, è sempre un vibrare dell’intero corpo al contatto con il corpo dell’altro.

Le due azioni di Gesù riportare da Marco nel brano evangelico di questa domenica sono unite tra loro proprio dal toccare: Gesù è toccato da una donna emorroissa e tocca il cadavere di una bambina. Due azioni vietate dalla Legge, eppure qui messe in rilievo come azioni di liberazione e di carità. Questo toccare non è un’azione magica, bensì eminentemente umana, umanissima: “Io tocco, dunque sono con te!”. Mentre Gesù passa con la forza della sua santità in mezzo alla gente, una donna malata di emorragia vaginale pensa di poter essere guarita toccando anche solo il suo mantello, il tallit, lo scialle della preghiera. Ciò avviene puntualmente, e allora la donna, impaurita e tremante, nella convinzione di aver fatto un gesto vietato dalla Legge, un atto che rende impuro Gesù, una volta scoperta scoperta confessa “il peccato” da lei commesso. Ma Gesù, che con il suo sguardo la cerca tra la folla, udita la confessione le dice con tenerezza e compassione: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Egli si comporta così non per infrangere la Legge, ma perché risale alla volontà di Dio, senza fermarsi alla precettistica umana. E se Dio era sceso per liberare il suo popolo in Egitto, terra impura, abitata da gente impura, anche Gesù sente di poter stare tra impuri e di poterli incontrare, dando loro la liberazione. Per questo egli ha sentito uscire da sé “un’energia” (dýnamis) quando la donna l’ha toccato, perché la sua santità passava in quella donna impura.

Subito dopo Gesù viene condotto nella casa del capo della sinagoga Giairo, dove giace la sua figlioletta di dodici anni appena morta. Portando con sé solo Pietro, Giacomo e Giovanni, appena entrato in casa sente strepito, lamenti e grida per quella morte; allora, cacciati tutti dalla stanza, in quel silenzio prende la mano della bambina e le dice in aramaico: “Talità kum”, “Ragazza, io ti dico: Alzati!”. Anche qui la santità di Gesù vince l’impurità del cadavere, vince la possibile corruzione e comunica alla bambina una forza che è resurrezione, possibilità di rimettersi in piedi e di riprendere vita. Nella sua attenzione umanissima, poi, Gesù ordina che a quella bambina sia dato da mangiare, quasi che lei stessa abbia faticato per rispondere alla santità di Gesù, il quale le comunica quell’energia divina di cui è portatore.

  • Toccare l’altro è un movimento di compassione;
  • toccare l’altro è desiderare con lui;
  • toccare l’altro è parlargli silenziosamente con il proprio corpo, con la propria mano;
  • toccare l’altro è dirgli: “Io sono qui per te”;
  • toccare l’altro è dirgli: “Ti voglio bene”;
  • toccare l’altro è comunicargli ciò che io sono e accettare ciò che lui è;
  • toccare l’altro è un atto di riverenza, di riconoscimento, di venerazione.

La non rassegnazione della fede
Antonio Savone

Questione di vita o di morte. Questo era quello che si erano ritrovati a vivere, loro malgrado, Giairo e la donna da anni segnata da una malattia che menomava la sua femminilità. Qualcosa stava inghiottendo la loro vita e per questo, ingaggiando una vera e propria lotta contro la paura e la vergogna, scelgono di venire allo scoperto e decidono di consegnare la loro storia di morte a Gesù.

Purtroppo c’è sempre chi vorrebbe sollecitarti ad essere consapevole che c’è una soglia che non può essere varcata: Perché disturbi ancora il Maestro? Rassegnati, lascia stare. C’è sempre chi non riesce a fronteggiare le situazioni se non nello strepito e nel pianto lamentoso, incapace com’è di cogliere il senso di quello che sta per accadere proprio grazie a chi h avuto la forza di osare di più e di non ripiegare. C’è sempre chi con facilità passa dal pianto alla derisione irridendo quanto non rientra nelle proprie categorie di pensiero. Giairo e l’emorroissa, oltre a dover far fronte alla loro disperazione, devono misurarsi anche con chi finisce per essere solo di impedimento. La loro tenacia, dopo aver vinto la paura e la vergogna, ha la meglio anche sulle resistenze altrui.

Giairo e l’emorroissa, due non rassegnati, due che non si piegano alla ineluttabilità degli eventi, due che non accettano che i loro progetti e i loro legami debbano andare in frantumi, due la cui esistenza si snoda nel canale di quella fede che osa l’impossibile persino di fronte all’evidenza, quando non c’è più nulla da fare, due che non si lasciano morire. Se solo avessimo un po’ della loro determinazione e della loro tenacia che non ha paura di disturbare!

È la loro fede che prima intravede e poi ottiene l’impossibile, una fede nata dalla disperazione, una fede che non teme di infrangere regole e consuetudini.

Udito parlare di Gesù…

La fede nasce dall’ascolto. Questa donna che neppure la medicina è stata in grado di curare, non si è rassegnata a vivere così come la legge d’Israele obbligava. Anzi protesta, si ribella: ne è un segno proprio quell’avanzare tra la folla, toccando quindi diverse persone che venivano a contatto con lei. E se anche non dispone più di un soldo, non le è ancora venuta meno la riserva di speranza.

Apparentemente la sua è una fede ingenua, ma in realtà, la sua è una vera e propria protesta religiosa: non si rassegna a vivere condannata e segregata, come un cadavere ambulante, solo perché così prescrive un antico codice regolato da uomini. Di fatto, col suo avanzare in mezzo alla folla contagia tutti con la sua impurità ma nessuno se ne rende conto. L’unico ad accorgersene sarà Gesù allorquando si sentirà toccare il mantello.

Figlia, la tua fede ti ha salvata.

L’esclusa è ora al centro ed è chiamata figlia. Gesù le dà un nome – figlia – proprio là dove una folla anonima glielo aveva cancellato.

La donna si era messa alla ricerca di Gesù e lui non aveva fatto altro che restituirle il potere e la fiducia che esistevano in lei. Non era più schiava della sua malattia, non era condannata a vivere fuori dal cerchio sociale. La fede l’ha trasformata: la fiducia è ciò che salva e dà dignità alla persona. Gesù lo attesta chiaramente, mandando in frantumi proprio i rituali sacralizzanti e dunque emarginanti dell’antica legge del puro-impuro.

Non è stato il gesto di toccargli la veste a provocare il miracolo ma quel qualcosa che lei aveva dentro e che l’aveva messa in cammino fino a osare il gesto di intrufolarsi tra la folla e avvicinarsi a Gesù. Gesù la mette a parte di una indicazione molto importante: lei se ne sarebbe andata convinta unicamente della potenza che usciva da quel rabbi e invece doveva essere avvertita della potenza che c’era in lei e delle sue reali possibilità.

La tua fede…: quella che per la religione era soltanto una trasgressione da punire, per Gesù è fede che salva. Ecco perché Gesù manda in frantumi i rituali dell’antica legge. Non la manda dal sacerdote come era prescritto dal Levitico. Le dice di andare in pace: cioè può vivere allo scoperto, liberamente, senza bisogno di sottomettersi al controllo dei sacerdoti del tempio.

La tua fede…: una fede non fatta di proclami ma di gesti, non di parole ma del linguaggio di mani che toccano. Fin dove arriva la mia fede? E come si esprime?

“Continua solo ad avere fede”. Mi pare sia questo il vero miracolo.

Proprio là dove c’è una impotenza confessata, c’è altresì una fede ostinata, quella fede capace di sperare contro ogni speranza: Continua solo ad avere fede!

Continua solo ad aver fede! Gesù sembra dire che non basta il gesto che può nascere dalla disperazione: occorre una fede capace di attraversare le notti della vita. È necessaria una relazione con Dio che superi la fase dell’epidermico, il momento della necessità e si misuri con la durata, con il tempo.

Continua solo ad aver fede! Non lasciar perdere quando tutto sembra finito perché volontà di Dio è che tu abbia la vita.

La fede che è capace di trattare con Gesù solo gli affari possibili, non è fede ma timidezza, galateo (“non disturbare..”). La vera fede è quella capace di combinare con lui gli affari impossibili, gli unici che a lui interessino.

Inviato da acasadicornelio

Gesù ci prende per mano e ci dice «alzati»
Ermes Ronchi

Gesù cammina verso una casa dove una bambina di 12 anni è morta, cammina accanto al dolore del padre. Ed ecco una donna che aveva molto sofferto, ma così tenace che non vuole saperne di arrendersi, si avvicina a Gesù e sceglie come strumento di guarigione un gesto commovente: un tocco della mano. L’emoroissa, la donna impura, condannata a non essere toccata da nessuno – mai una carezza, mai un abbraccio – decide di toccare; scardina la regola con il gesto più tenero e umano: un tocco, una carezza, un dire: ci sono anch’io! L’esclusa scavalca la legge perché crede in una forza più grande della legge.

Gesù approva il gesto trasgressivo della donna e le rivolge parole bellissime, parole per ognuno di noi, dolce terapia del vivere: “Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male”. Le dona non solo guarigione fisica, ma anche salvezza e pace e la tenerezza di sentirsi figlia amata, lei, l’esclusa.

Giunsero alla casa del capo della sinagoga e c’era gente che piangeva e gridava forte. Entrato, disse loro: “Perché piangete? Non è morta questa bambina, ma dorme”.. Dorme. Verbo entrato nella fede e nel linguaggio comune: infatti la parola cimitero deriva dal verbo greco che designa il dormire. Cimitero è la casa dei dormienti, è la casa di Giairo, dove i figli e le figlie di Dio non sono morti, ma dormono, in attesa della mano che li rialzerà.

Lo deridono, allora, con la stessa derisione con cui dicono anche a noi: tu credi nella vita dopo la morte? Sei un illuso: “finito io, finito tutto”. E Gesù a ripetere: “tu abbi fede”, lascia che la Parola della fede riprenda a mormorare in cuore, che salga alle labbra con un’ostinazione da innamorati: Dio è il Dio dei vivi e non dei morti.

Gesù cacciati fuori tutti, prende con sé il padre e la madre, ricompone il cerchio vitale degli affetti, il cerchio dell’amore che dà la vita. Poi prende per mano la piccola bambina, perché bisogna toccare la disperazione delle persone per poterle rialzare.

Chi è Gesù? una mano che ti prende per mano. Bellissima immagine: la sua mano nella mia mano, concretamente, dolcemente, si intreccia con la mia vita, il suo respiro nel mio, le sue forze con le mie forze.

E le disse: “Talità kum. Bambina alzati”. Lui può aiutarla, sostenerla, ma è lei, è solo lei che può risollevarsi: alzati. E lei si alza e si mette a camminare.

Su ciascuno di noi qualunque sia la porzione di dolore che portiamo dentro, qualunque sia la nostra porzione di morte, su ciascuno il Signore fa scendere la benedizione di quelle antiche parole: Talità kum. Giovane vita alzati, risorgi, riprendi la fede, la lotta, la scoperta, la vita, torna a ricevere e a restituire amore.

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