Lectio divina

 X-XII Settimane del Tempo Ordinario
Riflessioni spirituali sul Vangelo di Matteo
– Don Antonio Schena –

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Vangelo di Matteo
INTRODUZIONE

Nella storia del cristianesimo, il Vangelo di Matteo, è stato senz’altro il vangelo più popolare, più letto e commentato e, anche se quello di Marco è considerato il primo in origine cronologico, l’opera di Matteo rimane una presenza capitale all’interno della Chiesa, che la propone spesso nella liturgia e nella catechesi.

Nella composizione dei singoli vangeli, ogni evangelista ha una sua prospettiva, segue un suo progetto, disegna un suo ritratto della figura di Cristo, risponde alle esigenze della comunità cui indirizza il suo racconto. Per Matteo si pensa a destinatari di origine ebraica convertiti al cristianesimo, legati alle loro radici, ma spesso in tensione con gli ambienti da cui provenivano.

Si spiega, così, la ricchezza delle citazioni, delle allusioni e dei rimandi all’Antico Testamento nel vangelo di Matteo. In questa linea si può interpretare il rilievo dato ai primi cinque libri biblici – conosciuti come Pentateuco o Torah – che costituiscono la legge per eccellenza. Gli insegnamenti di Gesù sono raccolti in cinque grandi discorsi: il primo ha come sfondo un monte – ed è perciò chiamato il Discorso della montagna (capitoli 5-7) – e può essere interpretato in riferimento al Sinai: Cristo non è venuto ad abolire la legge di Mosè ma a portarla a pienezza.

Il regno di Dio è il tema centrale della predicazione e dell’azione di Gesù. Nel secondo discorso, detto “missionario” (capitolo 10), il regno è annunziato, accolto e rifiutato. Nel terzo, il discorso in “parabole” (capitolo 13), il regno è descritto nella sua crescita lenta ma inarrestabile nella storia. Nel quarto discorso (capitolo 18) è la Chiesa – un argomento caro a Matteo – che diventa il segno del regno durante il cammino della storia, nell’attesa che esso giunga a pienezza nella salvezza finale (quinto discorso, “escatologico”, capitolo 24).

Questa struttura fondamentale (i 5 discorsi) è preceduta da due blocchi importanti: il vangelo dell’infanzia (cc. 1-2) e la presentazione di Gesù in pubblico: battesimo e tentazioni (cc. 3-4).

Questa è l’opera di Matteo: un grandioso abbozzo della storia di Cristo, della Chiesa e del regno.

  • L’autore – luogo – data di composizione

La tradizione unanime della Chiesa antica[1] attribuisce il primo vangelo a Matteo, chiamato anche Levi, l’apostolo che Gesù chiamò al suo seguito, distogliendolo dalla professione di pubblicano, cioè di esattore delle imposte (9, 9-13). La stessa tradizione, attestata fin dal II secolo, afferma che Matteo scrisse il primo vangelo, forse tra gli anni 40 e 50, in Palestina, per i cristiani convertiti dal giudaismo, in aramaico, la lingua comune in Palestina ai tempi di Gesù, ma di esso non abbiamo traccia. A noi, invece è giunto il testo greco di Matteo, scritto probabilmente nel decennio che va dal 70 all’80 d.C.

Se il Vangelo fu scritto dopo il 70 d.C., ci sono ottime ragioni per pensare che sia stato scritto fuori della Palestina. Numerosi studiosi indicano Antiochia di Siria, una città dove i giudeo-cristiani (cristiani convertiti provenienti dal giudaesimo) e gli etnico-cristiani (i neo-convertiti al cristianesimo) si incontravano e convivevano, e dove le questioni delle relazioni tra la legge e il vangelo erano con ogni probabilità molto scottanti. Il materiale peculiare a Matteo è meglio spiegato se considerato come attinto direttamente a tradizioni palestinesi, il che sarebbe stato possibile nella Siria.

  • Le fonti

Oltre al materiale di Marco e Q, Matteo ne contiene dell’altro suo proprio. Dato che Mc e Q sono fonti scritte, numerosi critici pensano a un terzo documento per il materiale peculiare a Matteo. Non c’è alcuna ragione valida che impedisca di pensare che questo materiale sia consistito in brani sparsi di tradizione orale messi per la prima volta in iscritto da Matteo.

  • Caratteristiche letterarie

E’ convinzione oggi comune che i ricordi di Gesù, cioè le sue parole e i suoi gesti, non siano stati tramandati meccanicamente, ma raccolti, ordinati, elaborati in base alle esigenze della fede delle diverse comunità cristiane: esigenze pastorali, di culto e altro.

Tutto questo avvenne prima che i diversi evangelisti fissassero i ricordi nei loro scritti, orientandoli e scegliendoli in modo da mettere in luce – a loro volta – il proprio particolare punto di vista: un conto è la prospettiva teologica di Matteo, un conto quella di Marco, un conto quella di Luca. Possiamo dire che i ricordi che risalgono a Gesù, furono tramandati obbedendo a una duplice finalità: alla memoria di Gesù, a cui restano sempre fedeli, e alla propria contemporaneità, a cui si rivolgono. Storia e fede, dunque, ricordo e teologia, i due aspetti sono indissolubilmente uniti.

Perciò nel Vangelo noi sentiamo la voce di Gesù, la voce della Tradizione (la predicazione orale degli Apostoli) che l’evangelista ha messo per iscritto, attualizzando a sua volta il messaggio e infine la voce della Chiesa che lo ha predicato.

Ma   per una lettura attenta dei Vangeli, bisogna tenere presente alcune regole:

– Per leggere un brano evangelico è indispensabile ricostruire il sottofondo veterotestamentario, esplicito e implicito, a cui esso fa riferimento. Tale ricostruzione serve per cogliere, da una parte, la continuità di Gesù e, dall’altra, la sua insopprimibile novità. Questo è particolarmente importante per il Vangelo di Matteo.

– Occorre inoltre – ed è la seconda regola –   studiare il singolo brano alla luce di tutto il contesto evangelico e, dove è possibile, fare il confronto con i testi paralleli degli altri evangelisti. Il confronto è indispensabile per una lettura che voglia essere in grado di avvertire gli interessi particolari di un evangelista, le sue sottolineature, le sue preoccupazioni, il suo disegno teologico e il modo con cui svolge il discorso, la sua originalità nel predicare il mistero di Gesù.

– In terzo luogo, occorre collocare il brano nella vita di Gesù e nella vita della successiva comunità. Abbiamo detto, infatti, che le parole di Gesù vissero nella Chiesa, continuamente predicate, rilette e approfondite in base ai bisogni e ai problemi pastorali delle diverse comunità.

– Infine, occorre leggere il testo alla luce della nostra vita attuale, così da ripetere, a partire dai nostri problemi e delle nostre situazioni, quello che le comunità di allora hanno fatto a partire dai loro problemi e dalle loro situazioni.

  • Caratteristiche dottrinali

Matteo è molto interessato alla dottrina di Gesù. I discorsi sono più numerosi e più ampi degli altri Vangeli. La stessa disposizione della materia sembra seguire un ordine didattico, che fa perno a cinque grandi discorsi: quello della montagna, quello missionario, il discorso in parabole, quello ecclesiale e quello escatologico. In questo il Vangelo di Matteo si diversifica molto da quello di Marco, il quale riferisce pochi discorsi e preferisce i fatti.

Ma nonostante questo innegabile interesse per la dottrina di Gesù, Matteo non vuole assolutamente ridurre il Vangelo a una dottrina. Egli è ben consapevole che il Vangelo è innanzitutto una persona e una storia. Ecco perché, dietro la struttura letteraria che fa perno sui cinque discorsi, è visibile la storia di Gesù, identica al racconto di Marco: dalla Galilea alla Giudea, dal battesimo nel Giordano alla passione/risurrezione. Matteo unisce sapientemente racconto e catechesi, storia e dottrina: la dottrina nasce dalla storia di Gesù, la illustra e la commenta.

Dire che la catechesi di Matteo spiega una storia, significa affermare che il suo Vangelo è in primo luogo cristologico. L’unico protagonista è Gesù, e il primo intento dell’evangelista è di mostrarci il significato salvifico della sua persona e della sua parola. Gesù è il Maestro, il nuovo Mosè superiore all’antico, il profeta portatore della parola di Dio ultima e definitiva. In tal modo il giudaesimo è invitato a superarsi perché la parola ultima non è quella di Mosè, né la tradizione dei padri, ma la parola di Gesù.

Ma il Vangelo di Matteo è anche sensibile alla Chiesa e Matteo è l’unico evangelista che mette in bocca a Gesù la parola “ecclesia” (16,18 e 18,17). Ma soprattutto è ecclesiale perché i temi che tratta sono scelti in base alle esigenze della comunità.

Un primo importante problema è la continuità con l’Antico Testamento. Continuità che sembrava messa in questione dal rifiuto che il popolo giudaico ha opposto a Gesù. Matteo si preoccupa continuamente di mostrare che la storia di Gesù e della sua comunità è in armonia con le Scritture, ecco perché l’evangelista cita con frequenza l’Antico Testamento.

Siamo in una comunità giudeo-cristiana degli anni 80, circondata da un giudaesimo che, avendo perso la propria consistenza politica dopo la catastrofe dell’anno 70, si stringe intorno alla Legge e a una rinnovata fedeltà ai principi e alla prassi giudaica. L’evangelista si preoccupa di indicare l’originalità cristiana e le caratteristiche della giustizia evangelica. Ecco perché Matteo sviluppa il suo Vangelo attraverso un continuo dibattito/confronto con la dottrina degli scribi e dei farisei.

Né mancano, infine, i problemi interni alla stessa comunità cristiana. Molte sono le situazioni che necessitano di chiarezza: come concepire la missione in mezzo ai pagani e come condurla? Come risolvere, alla luce delle esigenze di Gesù, alcuni casi della vita, quali il matrimonio, le ricchezze, l’autorità? Che posizione prendere di fronte alle divisioni che affiorano nella stessa comunità, di fronte ai peccati che continuano a riprodursi e agli scandali? Sono alcuni interrogativi molto concreti che Matteo non passa in alcun modo sotto silenzio. Anche per questo il suo Vangelo ci risulta particolarmente vivo e attuale.

Il discorso della Montagna (5, 1-7,29)

Le beatitudini (5, 1-12)

Le beatitudini sono il cuore del messaggio di Gesù, per capirle bisogna lasciar parlare il testo. Innanzitutto Gesù sale sulla montagna e pronuncia il discorso circondato dai dodici e dalle folle: si tratta di una folla venuta da ogni dove, persino dalla Decapoli e da oltre il Giordano. Il discorso, quindi, non è rivolto solo ai dodici o al popolo giudaico, ma a tutti.

Certo le beatitudini rimandano a Gesù. Ma quale significato egli vi attribuì? Pensiamo di riassumere il suo pensiero in tre affermazioni.

– Le beatitudini sono una proclamazione messianica, un annuncio che il Regno di Dio è arrivato. I profeti hanno descritto il tempo messianico come il tempo dei poveri, degli affamati, dei perseguitati, degli inutili. Gesù proclama che questo tempo è arrivato. Per i profeti le beatitudini erano al futuro, una speranza. Per Gesù sono al presente: oggi i poveri sono beati.

– C’è un secondo aspetto: con le beatitudini Gesù non solo proclama che il tempo messianico è arrivato, ma proclama che il Regno è arrivato per tutti, che di fronte all’amore di Dio non ci sono i vicini e i lontani, non ci sono emarginati: anzi, coloro che noi abbiamo emarginato sono i primi.

– Infine va detto che Gesù non solo proclamò le beatitudini, ma le ha vissute. Ecco perché la proclamazione delle beatitudini, è preceduta da un’annotazione generale che riassume l’attività di Gesù (4, 23-24): lo circondavano ammalati di ogni genere, sofferenti, indemoniati, epilettici. Ha cercato i poveri e li ha amati, preferiti. Egli fu povero, sofferente, affamato: eppure amato da Dio.

Sta qui il paradosso delle beatitudini: la vita di Cristo dimostra che i poveri sono beati, perché essi sono al centro del regno e perché – contrariamente alle valutazioni comuni – sono essi, i poveri, i crocifissi, che costituiscono la storia della salvezza.

Esaminiamo ore le singole beatitudini.

Beati i poveri. La differenza tra il “povero” di Luca e il “povero nello spirito” di Matteo non cambia nella sostanza. Matteo non intende certamente riferirsi a coloro che, benché ricchi, sono spiritualmente staccati dalle loro ricchezze. Molto probabilmente la frase echeggia Is 61,1 (v. Lc 4,18). Entrambi le beatitudini (di Mt e Lc) designano la classe povera che costituiva la grande maggioranza della popolazione del mondo ellenistico. Il “povero in spirito” di Matteo pone l’accento più che sulla mancanza letterale di ricchezze, sulla bassa condizione dei poveri: la loro povertà non permetteva l’arroganza tipica delle persone ricche, ma imponeva loro un rispetto servile. Sono questi “poveri nello spirito” che ora sono “beati”.

Beati gli afflitti. Riecheggia in questa beatitudine la situazione descritta in Is 61,1. La beatitudine si riferisce a coloro che non hanno alcuna gioia in questo mondo, e in questo senso essa sarebbe molto vicina e simile alla prima e terza beatitudine. Si intendono qui molto probabilmente coloro che piangono per i mali d’Israele dovuti ai suoi peccati. La loro consolazione consisterà nell’esperienza della salvezza messianica.

Beati i miti. Questi fanno parte della stessa classe dei “poveri in spirito”, che non sono in grado di essere aggressivi. L’ideale della mitezza è descritto in termini concreti in 5, 39-42: “Se uno ti percuote la guancia destra…”. I miti possederanno la terra escatologica d’Israele, recuperata mediante le opere salvifiche di Dio. La frase riecheggia le promesse della terra fatte ai patriarchi dell’A.T.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia. La “giustizia” di cui bisogna aver fame e sete è un termine assai pregnante. In Mt essa designa la condizione di buoni rapporti con Dio, ottenuti con la sottomissione alla sua volontà. Nel giudaismo farisaico si pensava che questa condizione venisse garantita mediante l’osservanza minuziosa della legge secondo i modelli farisaici. Gesù afferma con insistenza che i suoi discepoli devono sforzarsi di attuare qualcosa di più perfetto: “Se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e farisei …” (Mt 5,20).

Beati i misericordiosi. La misericordia è una caratteristica di Dio; Dio è fedele nonostante le infedeltà degli uomini. L’ ideale della misericordia o compassione ricorre spesso in tutti i vangeli. La beatitudine è illustrata dalla parabola del servitore spietato (Mt 18, 23-35). Le due opere di misericordia maggiormente sottolineate in Mt sono l’elemosina e il perdono. La ricompensa della misericordia è di ricevere misericordia.

Beati i puri di cuore. La purezza di cuore è contrapposta alla purezza levitica esteriore ottenuta mediante l’abluzione rituale: è questo un punto di numerose diatribe tra Gesù e i farisei. Ciò che si intende per “purezza di cuore” è spiegato in Mt 5, 13-20 (“Voi siete il sale della terra… La luce del mondo… Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone…). La ricompensa della purezza di cuore è di vedere Dio. Ciò non significa ciò che in teologia è chiamato la “visione beatifica”, ma l’ammissione alla presenza di Dio (v. Mt 18,10: “Guardatevi dal disprezzare uno solo di questi piccoli, perché vi dico che i loro angeli nel cielo vedono sempre la faccia del Padre mio”).

Beati gli operatori di pace . Questa parola ebraica “i pacificatori” significa “coloro che compongono i dissidi”. La riconciliazione è un compito spesse volte raccomandato nei vangeli: Mt 5,23-26 “Se presenti la tua offerta all’altare… và prima a riconciliarti”. La ricompensa è di essere chiamati figli di Dio. E’ questo un titolo attribuito a Israele nell’A.T.; coloro che compongono dissidi sono israeliti autentici.

Beati i perseguitati per la giustizia. La persecuzione subita per amore della giustizia è la persecuzione che viene accettata allo scopo di mantenere i buoni rapporti con Dio mediante la sottomissione alla sua volontà (v. commento a 5,6). In questo ampliamento (5,11-12) della beatitudine Gesù viene identificato con la giustizia. Egli sostituisce la legge quale unico mezzo sicuro per mantenersi in buoni rapporti con Dio. Tale rapporto causerà certamente la persecuzione (descritta in termini dell’esperienza della Chiesa primitiva), ma la ricompensa supererà ogni ricompensa precedente. La Chiesa succede ai profeti che furono perseguitati dal loro stesso popolo. La persecuzione a cui si allude qui è molto probabile l’offensiva scatenata dai giudei contro la comunità cristiana.

In conclusione è difficile per noi valutare il carattere paradossale delle beatitudini. Esse iniziano una rivoluzione morale che non ha ancora raggiunto la sua pienezza. Esse capovolgono tutti i valori convenzionali del mondo giudaico e romano-ellenistico e dichiarano beati coloro che non partecipano di quei valori. Vengono qui ripudiati non soltanto i valori esterni della ricchezza e della condizione sociale ma anche quei valori personali che sono ottenuti e difesi mediante l’auto-affermazione e la lotta. Le affermazioni generali delle beatitudini sono ampliati con esempi concreti del discorso.

Il sale della terra e la luce del mondo (5, 13-16)

La funzione dei discepoli è illustrata dalle metafore casalinghe del sale in quanto condimento e dell’unica lampada che illuminava la casa di una sola stanza del contadino palestinese. Nella spiegazione, le due immagini (5,16) vengono riferite alle “opere buone” dei discepoli. Vivendo secondo l’insegnamento di Gesù, gli uomini manifesteranno la bontà del “loro padre che è nei cieli”. Questo probabilmente è il senso originale delle immagini. Nel testo di Mt la metafora è ampliata con la possibilità della perdita del sapore del sale e dell’occultamento della lampada sotto il moggio; chi non attuerà l’ideale di vita dei vangeli sarà ripudiato. La similitudine analoga della città posta sul monte, che non è spiegata, sembra sia un detto sapienziale popolare intrufolatosi nel contesto.

Nella cornice del discorso questi detti servono da introduzione al lungo brano successivo, in esso i discepoli vengono istruiti sul modo in cui essi possono diventare il sale della terra e la luce del mondo, e viene loro spiegato quali sono le opere buone attraverso le quali Dio è glorificato.

La legge e il vangelo (5, 17-48)

Molto probabilmente il Vangelo di Matteo fu scritto verso gli anni 80 in una comunità giudeo-cristiana. E’ il tempo in cui il giudaismo, persa ogni consistenza politica e territoriale a causa della guerra dell’anno 70, serra le fila in un rinnovato attaccamento alla Legge, che godeva di una sacralità e di un valore salvifico nel giudaismo farisaico. La Legge era considerata la somma di ogni saggezza – umana e divina – la rivelazione di Dio stesso, una guida completa e sicura di condotta che garantiva i buoni rapporti con Dio e per la maggior parte dei Giudei la legge era implicitamente la rivelazione definitiva di Dio. La sinagoga espelle gli eretici e fissa i confini della propria ortodossia. Questo pone degli interrogativi alla comunità di Matteo, la quale, come abbiamo detto, è per lo più formata da cristiani provenienti dal giudaismo che vive ai confini della Palestina. Uno degli interrogativi è questo: in che cosa consiste l’originalità cristiana nei confronti della rinnovata ortodossia giudaica? A questo punto comprendiamo bene perché Matteo sviluppa il suo Vangelo attraverso un continuo dibattito-confronto con la giustizia degli scribi e farisei. E’ in questa prospettiva che il discorso della montagna deve essere letto. Esso vuole chiarire, da una parte, l’originalità della giustizia cristiana, cioè la differenza tra il cristiano e il giudeo; dall’altra, vuole mostrare la piena conformità del messaggio di Cristo alle Scritture. La conclusione a cui Matteo giunge può sembrare paradossale: il vero giudeo è colui che si fa cristiano.

Il discorso della montagna è preceduto dalle beatitudini, che noi sappiamo essere non soltanto un ideale da vivere, ma ancor prima una proclamazione che il regno di Dio è arrivato. Ritroviamo così uno schema comune a tutti i discorsi morali del NT: prima il Vangelo e poi la legge, prima il dono di Dio e poi la risposta dell’uomo. Se non tenessimo presente questo aspetto essenziale, rischieremmo di fraintendere il discorso di Matteo: correremmo il rischio di ridurlo a una nuova casistica e a un nuovo elenco di leggi che è necessario osservare per essere giusti di fronte a Dio.

Due elementi possono far da guida alla nostra lettura.

– Primo: scorgiamo all’inizio del discorso due atteggiamenti in apparenza contrastanti; da una parte, la pretesa di essere in continuità con la legge antica: “Non crediate che io sia venuto per abolire la legge o i profeti: non sono venuto per abolire ma per portare a compimento (5,17). Dall’altra, un chiaro e ripetuto atteggiamento di rottura. “Avete udito ciò che fu detto agli antichi… ma io vi dico…” (5,21ss.). La nostra lettura non può eludere questo contrasto, deve invece comprenderlo e risolverlo.

– Secondo: il v. 20 (“Se la vostra giustizia non sarà superiore a quella degli scribi e farisei, non entrerete nel regno dei cieli”) può essere considerato in titolo dell’intero discorso, e offre un comodo criterio per individuarne le parti. Il versetto citato lascia intravedere tre giustizie: la giustizia degli scribi, dei farisei e dei discepoli. Matteo contrappone, in una prima parte, il pensiero di Gesù alla giustizia degli scribi (le cui antitesi sono contenute in 5, 21-48), nella seconda parte, l’opposizione di Gesù alle pratiche dei farisei (elemosina, preghiere e digiuno: 6, 1-18); infine, la terza parte, la giustizia “superiore” del discepolo (6,19-7,27).

Parlando di giustizia superiore Matteo non intende una superiorità nella quantità (più digiuno, più preghiera e più elemosina), ma una superiorità nella qualità. E per giustizia Matteo non intende ciò che noi comunemente intendiamo (e cioè la parità tra il dare e l’avere nei rapporti fra gli uomini), ma, più semplicemente, la volontà di Dio.

Matteo ci pone di fronte a una serie di antitesi (5, 21-48), che toccano diversi punti della legge, scelti evidentemente tra i molti possibili. Non è una scelta fatta a caso: tre riguardano il comportamento verso il prossimo (e tutti e tre mettono in luce la carità); due il comportamento sessuale e il matrimonio; uno il giuramento.

Matteo non vuole indicarci delle leggi precise da mutare, quanto piuttosto un modo diverso di leggere la Scrittura e di scoprirne la volontà di Dio: diciamo un modo diverso di elaborare la morale.

Occorre una corretta visione di Dio e del suo disegno di salvezza, un modo corretto di leggere le Scritture. Sta qui la contrapposizione fra Gesù e gli scribi. Come i profeti che l’hanno preceduto, anche Gesù si è sforzato di recuperare il centro della volontà di Dio, e cioè il primato della carità. Tutto deve essere letto alla luce di questo centro, e tutto deve essere valutato in base ad esso. In questo senso l’affermazione più importante la troviamo al v. 48: “Siate perfetti come il Padre vostro celeste”. Non è una perfezione qualsiasi, ma la perfezione della carità e del perdono: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori”. Ecco una prima ragione per cui si può chiamare “superiore” la giustizia del discepolo: la riduzione dei precetti a un centro semplice e chiaro e, nel contempo, ricco di movimento.

Discutendo il caso di divorzio (v. 31) Gesù cita un testo di Dt (24,1), ma, sebbene consapevole che il Dt sia parola di Dio, egli lo giudica secondario rispetto a un passo di Genesi (1,27; 2,24). C’è dunque testo e testo: alcuni testi sono più importanti e altri meno. I primi rivelano l’intenzione profonda e originaria di Dio, i secondi pagano un tributo alla durezza di cuore degli uomini. Con questo Gesù offre agli scribi una lezione di metodo: per cogliere la volontà di Dio occorre essere capaci di una lettura globale della Scrittura: una lettura che sappia distinguere fra la logica di fondo e le sue espressioni parziali e provvisorie. Questa è la seconda ragione per cui la giustizia del discepolo può essere superiore.

Siamo ora in grado di risolvere l’antinomia fra continuità e rottura rilevata all’inizio. Il messaggio di Gesù è in continuità con l’AT, ne recupera il centro e la tensione. Non introduce nella legge novità prese in prestito altrove e non fa correzioni in base a una logica estranea alla Scrittura: ne recupera, invece, l’intenzione di fondo e porta questa a compimento. Continuità, dunque, ma tale continuità è anche novità che esige conversione, perché critica nei confronti degli schemi precedenti nei quali si finisce sempre con l’accomodarsi.

Giustizia vera e falsa (6, 1-18)

Matteo continua a sviluppare il tema della giustizia del discepolo superiore alla giustizia degli scribi e farisei (5,20). Dopo aver criticato la giustizia degli scribi, l’evangelista critica ora la giustizia dei farisei.

Matteo elenca le tre pratiche classiche dei farisei: l’elemosina, la preghiera e il digiuno. Gesù non le rifiuta, ma vuole che siano compiute con spirito diverso. E’ proprio questo spirito che distingue il discepolo dal fariseo. Quali sono le caratteristiche più importanti di queste tre pratiche?

Anzitutto, è già significativo che vengono raggruppate insieme: il culto deve prolungarsi nella carità, e la penitenza deve essere un privarsi di qualcosa a beneficio di altri. In secondo luogo, è richiamata ripetutamente la necessità della retta intenzione. Bisogna cercare la ricompensa di Dio, non quella degli uomini: bisogna agire nel segreto, senza dare spettacolo.

La giustizia cristiana esige che le opere buone vengano compiute senza tenerne la contabilità. La vera giustizia esige che la destra non sappia ciò che fa la sinistra. Gesù in sostanza non rifiuta né l’elemosina né il digiuno né la preghiera, ma vuole che tutto ciò sia compiuto con spirito di gratuità.

La testimonianza non deve confondersi con la teatralità. I discepoli hanno la faccia normale e gioiosa, perché il distacco che la sequela esige non è un peso, ma una gioia: non è una perdita, ma il centuplo.

Quanto detto finora non è sufficiente a descrivere l’originalità cristiana. Matteo colloca in questa sezione il “Padre nostro”.

Luca riporta le parole di Gesù in un contesto in cui si vuole insegnare la preghiera a gente che non sa nulla di preghiera: scrive il suo vangelo per una comunità che proviene dal paganesimo. Matteo invece riporta il testo in una sezione che ha lo scopo di correggere le deviazioni dei credenti già abituati a pregare: egli scrive per una comunità che proviene dal giudaismo. Il problema di Matteo dunque non è se pregare ma come pregare. Nella preghiera non sono le parole che contano, neppure quando si tratta delle parole di Cristo. La preghiera è unicamente espressione di dipendenza, di povertà, e le parole non hanno mai un senso magico come invece pensano i pagani (6, 7-8).

“Padre”: è il nome con cui Gesù si rivolge costantemente a Dio, ed esprime la sua filiazione. Il discepolo ha il diritto di pregare come Cristo, in qualità di figlio. Sta in questo nuovo rapporto l’originalità cristiana, ma a differenza di Luca, Matteo non si accontenta di questo. Egli aggiunge al nome Padre l’aggettivo “nostro”, esplicitando in tal modo l’aspetto comunitario. E aggiunge “che sei nei cieli”, richiamando in tal modo la trascendenza e la signoria di Dio. La preoccupazione dell’evangelista è chiara: ricordare non solo la paternità di Dio, ma anche la sua trascendenza: Dio è vicino e lontano, come noi e diverso da noi, Padre e Signore. Ogni autentico rapporto religioso tiene conto di ambedue questi elementi.

“Sia santificato il tuo nome”: il verbo è al passivo, secondo l’uso ebraico ciò significa che il protagonista è Dio, non l’uomo. L’espressione “santificare il nome” deve essere intesa alla luce dell’AT, in particolare di Ez 36, 22-29. Non indica riconoscimento generico di Dio, né tanto meno una lode fatta di culto e di parole, ma un permettere a Dio di svelare, nella storia della salvezza e nella comunità, il suo volto (“Sia svelato il tuo nome, il tuo volto). In sostanza, il discepolo prega perché la comunità diventi un segno trasparente della presenza liberante di Dio.

“Venga il tuo regno”: per capire questa invocazione bisogna rifarsi a tutta la predicazione di Gesù, incentrata appunto sull’annuncio del Regno. Il Regno ha una presenza oggi, ma ha, nello stesso tempo, un compimento alla fine: questo è molto chiaro nella predicazione di Gesù e nell’attesa delle prime comunità. Ma l’uso del verbo aoristo (“venga”) sta a indicare che qui si ha di mira il suo stadio ultimo, escatologico (1 Cor 15,28). La venuta del Regno comprende la vittoria definitiva sul male, sulla divisione, sul disordine e sulla morte. Il discepolo chiede e aspetta tutto questo. Bisogna però ricordare che la preghiera implica contemporaneamente un’assunzione di responsabilità: il discepolo attende il Regno come un dono e insieme chiede il coraggio di costruirlo.

“Sia fatta la tua volontà”: questa invocazione non fa che interiorizzare le prime due, sottolineando maggiormente il loro aspetto morale. Si tenga presente che per “volontà di Dio” non si intende semplicemente il complesso dei comandamenti, ma piuttosto il “disegno di salvezza” che deve realizzarsi nella storia. E’ importante la precisazione “come in cielo così in terra”, cioè bisogna anticipare qui in terra la vita del nuovo mondo.

“Dacci oggi il nostro pane quotidiano”. La richiesta del pane è la più umile, ma sta al centro, e questo ne indica l’importanza. Il pane è nostro, è frutto del nostro lavoro, eppure è anche nel contempo dono di Dio. C’è un senso di comunione: si prega per il pane comune. E c’è, soprattutto, un senso di sobrietà: si chiede per oggi il pane sufficiente, nulla più.

“Rimetti a noi i nostri debiti”. Il Regno è anzitutto l’avvento della misericordia. Il termine debito non è il più indicato per spiegare il peccato, dal momento che – come traspare dalla parabola del figlio prodigo – il peccato è soprattutto un tradimento dell’amore di Dio, un sottrarsi alla presenza del Padre, una sfiducia nei suoi confronti. Potrebbe sembrare, a prima vista, che il nostro perdono fraterno condizioni il perdono di Dio. In realtà è il contrario. Si legga la parabola di Mt 18, 23-35: il contrasto fra i due quadri della parabola intende mostrare quanto sia degno di condanna il servo che non perdona dal momento che egli fu per primo perdonato.

“Non ci indurre in tentazione”. Il pensiero corre spontaneamente alle piccole e svariate tentazioni quotidiane. Però la tentazione del discepolo non è tutta lì: è più profonda. E’ simile alla tentazione di Cristo (4, 1-11): è la sfiducia e lo scoraggiamento di fronte a un Dio che appare troppe volte imprevedibile. La vita del Cristo fu un continuo confronto con Satana. Il discepolo chiede di far propria la vittoria del Maestro. Anziché tradurre “liberaci dal male” è forse meglio tradurre “liberaci dal maligno”.

La preghiera si apre con il Padre e termina con il maligno, l’avversario. L’uomo è conteso, sollecitato da una parte e dall’altra. Nessun pessimismo però, il discepolo sa che Cristo ha già vinto Satana.

Nella sezione precedente (in polemica con gli scribi) Matteo aveva messo in luce la carità. Ora (in polemica con i farisei) mette in luce una sua concreta manifestazione: il perdono.

Detti (6, 19-34)

L’ultima parte del discorso della montagna (6,19-7,29) non è costruita come le due parti precedenti, in contrapposizione alla giustizia di scribi e alle pratiche dei farisei. Qui si limita a radunare, senza un ordine preciso, alcune parole del Signore importanti per la vita cristiana. Non c’è un ordine preciso, però ci sono alcune insistenze, e queste danno unità alla pericope.

Matteo sembra concentrarsi su un interrogativo: come deve comportarsi il discepolo nei confronti dei beni del mondo? La risposta di Gesù è quanto mai lucida e attuale: il discepolo non deve cadere nella tentazione dell’affanno, dell’ansia, come se tutto dipendesse da sé stesso: “Non vi affannate per la vostra vita”. Al discepolo è richiesta la fiducia nell’amore del Padre. Questo non sottrae all’impegno, ma lo rende più sereno. L’ansia è l’atteggiamento dei pagani (“di tutto ciò si preoccupano i pagani”). Lavorare, ma non affannosamente: il cristiano è un uomo libero dall’angoscia del domani. Per essere veramente sereno il discepolo deve sapere che i beni del Regno sono al primo posto (“cercate anzitutto il Regno e la sua giustizia”). Ciò significa, ad esempio, che il benessere che andiamo cercando e nel quale poniamo fiducia deve essere “un benessere globale”: deve comprendere tutte le dimensioni dell’uomo e la ragione ultima del nostro vero benessere è Dio e il suo amore.

Dunque, Matteo non invita solo alla serenità, ma anche a orientarsi diversamente nella vita: non più certi beni al primo posto, ma altri. Finché certi beni (i nostri idoli) rappresentano i valori supremi, l’ansia è inevitabile. Il mondo inganna e seduce: ci convince che solo nel possesso c’è sicurezza e gioia. E così ci rende schiavi, disposti a servirlo, e ci spoglia della nostra vera umanità, e ci ruba lo spazio della libertà. Sta in questa stoltezza l’origine dell’ansia, nella convinzione cioè che questi beni, siano gli unici importanti e che l’uomo trovi la sicurezza nell’accumulare sempre di più per se stesso.

E’ una stoltezza che rende ciechi (6,22-23): l’ansia di possedere disorienta e appesantisce il cuore, e soprattutto delude. Matteo parla di beni che vengono distrutti dalle tarme e dalla ruggine, e che i ladri rubano. E alla luce di tutto questo possiamo ora comprendere tutta la profonda verità dell’affermazione: “Non potete servire a due padroni: a Dio e al denaro”. L’attaccamento al denaro è idolatria: l’uomo, cioè, non sentendosi sicuro all’ombra della promessa di Dio, pone la propria sicurezza nel denaro, illudendosi poi di avere la fede perché offre al Signore le briciole delle proprie ingiuste ricchezze. Ma questo peccato di idolatria non è soltanto contro Dio, ma ancor prima è contro l’uomo: è affanno, divisione e schiavitù.

Le parole di Gesù non si limitano a invitare alla serenità, e neppure si accontentano di disincantare l’uomo, liberandolo dal fascino illusorio del possesso, ma indicano la vera via della liberazione: “Ammassate tesori in cielo, dove né tignola né ruggine distruggono e dove i ladri non rubano”. L’importante è capire che i tesori nel cielo, non sono i “meriti”, ma la carità. E’ appunto questo di cui ci parla Matteo: “Tutto quello che volete gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro”.

 Detti non concatenati (7, 1-27)

Iniziando il Discorso della Montagna, dicevamo che Matteo, di fronte agli scribi e farisei e di fronte al giudaismo che andava delineando la propria ortodossia, si pone un interrogativo: qual è l’originalità cristiana? Il discorso ci ha già offerto molteplici spunti, tutti importanti come risposta all’interrogativo. Ma non dimentichiamo che c’è un filo conduttore, costante, la regola d’oro, che è la carità: “Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro. Questa infatti è la Legge e i profeti” (7,12). Quest’affermazione che riassume tutta l’ultima parte del discorso, era già presente, in termini ancor più radicali all’inizio: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (5,44). L’amore è l’unica cosa che non delude, è profonda saggezza: come la saggezza dell’uomo che costruisce la casa sulla roccia. L’amore è l’originalità cristiana.

Il discorso prosegue servendosi di cinque paragoni, uno più interessante dell’altro: la pagliuzza e la trave, le perle ai porci, il pesce e la serpe, la porta stretta, l’albero e i frutti.

Sono paragoni staccati, radunati qui tutti insieme dall’evangelista, perché, in un modo o nell’altro, illustrano il tema del comportamento del vero discepolo.
Avviandosi alla conclusione del discorso, Matteo sviluppa una contrapposizione a diversi livelli.
Non c’è vera fede senza impegno morale. La preghiera e l’azione, l’ascolto e la pratica sono ugualmente importanti.

L’evangelista termina il discorso osservando che le folle restavano stupite di fronte alle parole di Gesù, (7, 28-29) perché egli insegnava con autorità, e non come gli scribi. L’autorità degli scribi era basata sulla tradizione: lo scriba era preoccupato di ripetere fedelmente l’insegnamento tradizionale e di mostrare che il suo stesso commento scaturiva dalla tradizione ed era in armonia con essa. Gesù, invece, non insegnava come uno scriba ma come un profeta: Gesù ha un mandato dal Padre di insegnare, un mandato che gli scribi non hanno. Egli manifesta chiaramente questo mandato, e la gente ne è stupita.
Il discorso della Montagna non è un codice completo di etica cristiana. Ci sono, infatti, nel Nuovo Testamento numerose direttive di morale cristiana che non si trovano in questo  discorso. In effetti non esiste alcun brano del NT che contenga un codice completo e sistematico di condotta. La rivoluzione morale cristiana consiste in un ri-orientamento dei valori.