Se il peccatore non sentisse qualcuno che lo ama non avrebbe motivo di pentirsi, continuerebbe nella sua durezza del cuore, senza poter percepire il dolore del male commesso.

di GILBERTO BORGHI
28 maggio 2024
Per gentile concessione di:
www.vinonuovo.it

In effetti non me lo aspettavo. Ho passato in un analizzatore lessicale il testo della bolla di indizione del Giubileo del 2025, dedicato alla speranza, e la lettera di accompagnamento ad essa, scritta da Francesco al card. Fisichella. Su un totale di poco meno di 12 mila parole le dieci più presenti sono: speranza (98 volte), Dio (52), vita (51), Gesù Cristo (45), amore (29), essere (24), fede (24), grazia (22), Chiesa (20). Al contrario, le dieci parole meno presenti sono: pentimento (1), confessione (1), penitenza (1), colpa (1), sofferenza (2), pena (3), giudizio (5), dolore (5), peccato (6), bisogno (6).

Anche solo ad una percezione immediata appare davvero strano. Il giubileo è il tempo in cui la Chiesa invita i fedeli e tutto gli uomini alla riconciliazione con Dio. Tradizionalmente ciò passa dal riconoscere i propri peccati, dal confessarsi, fare penitenza e ottenere il perdono di Dio. Perciò le parole che risultano nel fondo della lista, sarebbero quelle più centrali nell’esperienza concreta del giubileo. E invece, nei due testi principali con cui si annuncia il prossimo giubileo sembra il contrario.

Qualcuno forse pensa che questi due testi hanno voluto driblare le parole oggi difficili, un po’ ostiche alle orecchie dei contemporanei. Io ipotizzo che invece, dietro, ci sia uno schema diverso con cui si pensa l’atto di riconcliazione tra Dio e l’uomo. E quindi sono molto contento dell’accentuazione di questi due testi. Ma non posso esimermi dall’esprimere la domanda che mi sorge dentro: di quelle parole così poco citate che ce ne facciamo? Forse, davvero, è tempo di abbandonarle? O possono continuare ad avere un loro senso anche in questa accentuazione molto più amorevole, vitale e misericordiosa del giubileo, che pervade questi due testi?

Tradizionalmente si sostiene che per poter ottenere il perdono dei peccati, il credente deve essere pentito. E il pentimento, si dice, inizia dal percepire il dolore dei propri peccati che prende corpo nel senso di colpa, che può avere due motivazioni: il dolore detto “perfetto” (contrizione), che nasce dalla percezione di avere offeso Dio, e quello “imperfetto” (attrizione), che invece, sorge dalla paura dei possibili castighi di Dio. In ogni caso il cuore duro del peccatore, sotto il peso del dolore si “sbriciola” e ciò permette a lui di formulare il proposito di non peccare più, che è l’ultimo elemento necessario per ottenere da Dio il perdono, dichiarandolo nella confessione.

Questo modo di “leggere” la riconciliazione, ipotizza uno schema di fondo in cui il rapporto con Dio è di tipo giuridico – gerarchico. Che è anche quello che ha alimentato per secoli l’idea della redenzione come atto di riscatto o di espiazione. Ma dentro a questo schema concettuale il Dio misericordioso che opera in prima persona la riconciliazione, che ci viene a cercare e non aspetta il nostro pentimento, finisce per essere invisibile e non percepibile. E tutto si appoggia su un uomo che è concentrato su di sé, e non su Dio, nel tentativo di realizzare tutti i presupposti necessari per “ottenere” da Dio il perdono.

Molto diverso, sarebbe invece se pensiamo, come la Bibbia suggerisce (ad es. At 9,3-5), che ciò che smuove il peccatore dalla sua durezza del cuore e la “sbriciola” non è tanto la percezione del male operato, ma è sentire che Dio continua ad amarlo. Non è l’angoscia dell’essere colpevoli, ma la bellezza di poter essere ancora amati, nonostante il peccato, e perciò capaci di amore. Per questo proviamo dolore per il male commesso, perché resta possibile essere amati, e in questa “luce” siamo messi in grado di vedere la portata del male commesso. Se il peccatore non sentisse qualcuno che lo ama non avrebbe motivo di pentirsi, non sentirebbe quel male e continuerebbe nella sua durezza del cuore. Noi percepiamo il dolore del male commesso perchè continuiamo a sentire che per noi esiste un amore possibile.

Perciò, nel peccato, non siamo perduti non perché, di nostra iniziativa, possiamo sentire sofferenza per il peccato commesso, ma perché Dio è ancora lì, che non vede l’ora di poterci riabbracciare. Non è l’uomo a tornare a girarsi, di suo, verso Dio, ma è Dio che continua a ripresentarsi davanti allo sguardo dell’uomo anche quando l’uomo non lo vorrebbe vedere. E in questo sguardo di amore, che Dio ci mostra, noi possiamo lasciarci guardare e ritrovare la pace del cuore.

Il perdono in questo senso non è solo la riapertura di una relazione, ma è anche l’essere risanati nell’anima, liberati dalla tremenda sensazione di essere colpevoli e di non poter farci più nulla, passando dal senso di colpa al senso di peccato. E’ tornare a sentire che possiamo amare di nuovo, proprio perché siamo stati amati gratuitamente nel peccato. Perciò dobbiamo pensare che l’unica condizione necessaria e possibile per poter iniziare il cammino del perdono è che noi, a quel perdono, ci crediamo, lo crediamo possibile. Allora Dio può toccarci il cuore e tutto il percorso che va dalla contrizione del cuore, all’accusa dei peccati, alla penitenza si può realizzare sotto l’azione della grazia, come dice il catechismo della Chiesa cattolica (n. 1452-53)

Forse in questa direzione quelle parole (oggi ormai difficili) possono essere recuperate ed essere ancora significative.