Non è solo un libro, ma una bussola per orientarsi nell’estrema complessità della nostra epoca: Venire alla luce. Riflessioni per un tempo di crisi di Paolo Scquizzato, edito dalla Gabrielli editori, è un piccolo, prezioso dizionario che, dalla “A” di Amicizia alla “V” di Vuoto, passando per Cura, Desiderio, Limite, Perdono, Silenzio e varie altre parole, mira ad accompagnare il processo di crescita ed evoluzione di ogni persona in ricerca, perché possa prendersi cura della propria vita e far fiorire il «vero Sé».

“Venire alla luce”: un libro-bussola in tempi di crisi
Claudia Fanti 18/05/2024
www.adista.it

Secondo volume della neonata collana – da lui diretta – “Il giardino del silenzio”, pensata come luogo in cui incontrare o ritrovare tradizioni spirituali e mistiche antiche e moderne, in cui «il Mistero non è più definito o invocato ma finalmente sperimentato», il libro di Scquizzato è non a caso entrato, il 26 aprile scorso, nella classifica dei 10 libri di contenuto religioso e spirituale più venduti nelle librerie religiose italiane (al nono posto, subito dopo l’assai pubblicizzato libro, di segno diametralmente opposto, di Michel-Yves Bolloré e Olivier Bonnassies, Dio. La scienza, le prove), a dimostrazione di come sia sempre più avvertita l’esigenza di uno spazio in cui «far riposare il cuore» e percepirsi, nel silenzio, «uno nell’Uno».

«Ognuno di noi – scrive l’autore – ha risorse inutilizzate, angoli dell’anima, cantucci e sacche di consapevolezza che se ne stanno addormentate. E possiamo anche morire senza averle scoperte». Ed è proprio per impedire che ciò avvenga che Scquizzato si propone di ripensare alcune delle nostre parole più significative, rendendole luminose e feconde per il nostro tormentato presente, in mezzo alle ombre, alle crisi, alla fatica del vivere, nella consapevolezza che, come recita l’epigrafe del libro, tratta dalla canzone Anthem di Leonard Cohen, «C’è una crepa in ogni cosa, ed è da lì che entra la luce».

E nella consapevolezza, anche, che la vita non può prescindere dal «lavoro esistenziale», da quella necessità che, ricorda l’autore, Dante aveva definito con un neologismo: trasumanare. Cioè «trascendere senza soluzione di continuità la propria umanità, nascere e rinascere, in quel continuo lavorio interiore che è il farsi vivi, consapevoli che se vi si disattende si sciupa anche ciò che si è acquisito». Perché, in fin dei conti, «siamo venuti al mondo ma non ancora alla luce. Nati a metà necessitiamo di portarci a compimento».

E a questo compito tutt’altro che facile, a questo «lento lavorio sull’ego e i nostri attaccamenti», possono contribuire anche le parole, anch’esse legate all’«energia divina che ci muove e ci abita», ma spesso ridotte «a chiacchiere vuote in quanto non più radicate nel grembo fecondo e fecondante che è il silenzio»: le parole, evidenzia Scquizzato, «sono performative: oltre a dire, creano», o distruggono, non sono mai neutre e indifferenti. E questo libro, si spiega nell’introduzione, «desidera essere un semplice strumento per abitare le parole, frequentare i mondi che queste squadernano, contribuendo così al nostro compito esistenziale: venire alla luce di noi stessi».

Di seguito, per gentile concessione della casa editrice, riportiamo le riflessioni relative al Limite e al Vuoto (il libro potrà essere acquistato anche presso Adista, scrivendo ad abbonamenti@adista.it; telefonando allo 06/6868692; o attraverso il nostro sito internet, http://www.adista.it).

Limite 

Il termine “limite” deriva da due differenti sostantivi latini, limes (limitis) e limen (liminis). Il primo indicava la linea, il sentiero sul terreno che segnava la divisione, il confine di due campi, due territori, due domini. In termini militari era la strada presidiata dai soldati, la strada fortificata; pertanto un’accezione negativa di confine, di barriera invalicabile. D’altro canto, la parola limen significa “soglia”, nella duplice accezione di “varco”, “apertura” oppure qualcosa che impedisce di proseguire oltre, qualcosa di costrittivo, angusto, soffocante, castrante.

Erano detti limites anche i grossi massi che gli antichi romani posavano a margine del loro territorio, pietre che non potevano essere rimosse perché ritenute sotto protezione di divinità, chiamate Limite o Termine. Il limite è dunque qualcosa di sacro, luogo dove abita una presenza divina, perciò qualcosa di fecondo, di vivo. 

Quindi il concetto di limite si espande fino a comprendere anche quello di possibilità. C’è una possibilità: non oltre il limite, ma nel limite stesso. 

La questione non è dover sempre superare il limite per fare esperienza del nuovo, ma sapere che in quel preciso limite si possono esperire nuove possibilità. Abitando il limite, e non necessariamente scavalcandolo, si sperimentano forze, energie nuove. Accogliendo – ma assolutamente non accettando – il proprio limite, si fa esperienza di qualcosa di nuovo in noi. 

Il domenicano brasiliano, scrittore e teologo Carlo Alberto Libânio Christo (1944), più noto come Frei Betto, nel suo saggio Dai sotterranei della storia ha scritto: «L’uomo scopre sé stesso solo quando è collocato di fronte ai propri limiti». 

Etty Hillesum (1914-1943) scrive nel suo diario: «L’attività passiva del soffrire rettamente implica sopportazione ed accettazione di ciò che non può mutare e grazie a questo si liberano nuove forze» (Diario 17.3.1941). Nel vivere in maniera consapevole e attiva la situazione di limite, senza poter fuggire o rifugiarsi in luoghi consolatori, si sperimenteranno nuove forze, energie magari ritenute prima del tutto sconosciute. 

Riportiamo un’esperienza. Siamo nel 1975. Il grande pianista statunitense Keith Jarrett (1945) deve tenere un concerto all’Opera di Colonia. C’è sold out: i 1400 posti del teatro sono stati tutti venduti. Il concerto fa parte di un tour cominciato due anni prima. Giunto al teatro poche ore prima del concerto per provare il piano, Jarrett constatò che non vi era lo strumento pattuito. Jarrett suona solo su un Bösendorfer 290 Imperial da 97 tasti; i comuni pianoforti ne hanno 88. Jarrett ha bisogno di spaziare sia verso i bassi che verso gli alti con tutta libertà. Il pianoforte è sì un Bösendorfer ma non con quella estensione e soprattutto è incredibilmente scordato e ha un pedale rotto. Jarrett ha 29 anni ed è già molto famoso in tutto il mondo; non può permettersi di sbagliare un concerto nel suo primo grande tour europeo. Lascia il teatro indispettito. Ha deciso di non esibirsi. Va a cena. L’organizzatrice del concerto è una giovanissima donna di 19 anni. Quel concerto era l’occasione della sua vita. Supplica Jarrett di tenere il concerto, promettendo di farlo accordare; recuperare il pianoforte pattuito è impossibile. 
Ma il musicista è convinto. Non suonerà. La ragazza in pianto e disperata gli dice: fallo per me. Alla fine, Jarrett accetta. Lo strumento è accordato, ma molto al di sotto delle esigenze del pianista. Le ottave più basse e quelle più alte – oltre a non avere le ottave estese come desiderava – non erano accordate perfettamente. 
Alle 23.30 Keith Jarrett sale sul palco e succede l’incredibile. Per un’ora il pianista americano improvvisa musica. Usa esclusivamente la parte centrale e limitata della tastiera. Proprio perché sa che il pianoforte non è adatto, ci mette un’energia e un’intensità che i suoi fan non hanno mai visto e che non vedranno mai più. 
Jarrett ha accettato di muoversi nel limite impostogli dalle circostanze ed è nato un capolavoro. The Köln concert è considerato oggi il più famoso album jazz mai pubblicato, con 3 milioni e mezzo di copie vendute. 

Altre storie possono esprimere bene il significato dell’esperienza del limite. Per esempio, quella dell’attore Nicholas James Vujicic. Primogenito di una famiglia serba cristiana, Nick Vujicic è nato a Melbourne in Australia nel 1982 con una rara malattia genetica: la tetramelia. Ciò significa che è privo di arti, braccia e gambe, eccetto i suoi piccoli piedi, uno dei quali ha tre dita. Inizialmente, i suoi genitori rimasero sconvolti per le sue condizioni. Nick ha imparato a scrivere usando le due dita del suo “piede” sinistro, e un dispositivo speciale che si aggancia al suo grande alluce. Ha anche imparato a usare un computer e a scrivere usando il metodo “punta tacco” (come fa vedere durante i suoi discorsi), a lanciare palle da tennis, rispondere al telefono, radersi e versarsi un bicchiere d’acqua (mostra anche questo nei suoi discorsi). Ha cominciato a viaggiare come uno speaker motivazionale, concentrandosi sull’argomento dei giovani di oggi. Ha tenuto discorsi anche in molte aziende, in quanto il suo scopo era quello di diventare uno speaker ispiratore internazionale. Viaggia regolarmente per parlare a congregazioni cristiane, scuole, imprese. Fino a oggi ha parlato a più di due milioni di persone, in dodici Paesi di cinque continenti. 

Straordinario poi il cortometraggio Il circo della farfalla del 2009 per la regia di Joshua Weigel: si racconta la storia di un circo particolare, dove chi vi lavora vive una vera e propria metamorfosi. È un mondo nel quale ognuno, nella sua diversità, ha un posto. Dove tutti vengono incoraggiati a scoprire le proprie potenzialità e si aiuta chi ancora non ha avuto il coraggio o la capacità di trovarle. Dove non ci sono primi posti e ultimi. Dove non esistono raccomandazioni. Dove le persone non si sentono sminuite perché viene detto loro che non ce la faranno mai. Un mondo dove le persone non devono vergognarsi di mostrare le proprie fragilità. Dove i propri sogni non devono essere nascosti. I lavoratori rimangono sempre loro, ma il direttore li trasforma aiutandoli a scoprire tutte le loro potenzialità. Li fa sbocciare. Non li cambia ma li aiuta a trasformarsi. Ciascuno con i suoi limiti, ma proprio grazie a queste persone straordinarie, bellissime. 
«Se solo tu potessi vedere la bellezza che può nascere dalle ceneri, se tu potessi vedere ciò che di meraviglioso c’è in te. Più grande è la lotta e più glorioso sarà il trionfo! Non è importante dove sei ora, è importante dove stai guardando». 

La Chiesa dovrebbe essere proprio un “Circo della farfalla”. Una comunità educante, che aiuta le persone a trasformarsi in donne e uomini capaci di volare, in virtù della bellezza, delle potenzialità che portano dentro di sé. 
La Chiesa è la realtà, madre, che deve fornire ali di farfalla a chi si è sempre ritenuto un verme. La storia ci dice che spesso è stata l’istituzione matrigna a tarpare le ali. 

Ciò che per troppo tempo è stato insegnato e trasmesso è il dovere di angelicarsi. Diventare angeli. No. Viviamo nel limite, ma possiamo trasformarci attraverso quello che siamo e non malgrado ciò che siamo. Abitiamo il limite. 

Il giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz (1947) nel suo libro Il filo infinito scrive: «La felicità sta nel perimetro». A ciascuno di noi il compito di abitare il limite, stare dentro il nostro perimetro, ma non come tomba mortifera, ma come luogo di possibilità per poter spiccare il volo.