LA LETTERA DI GIACOMO

Si tratta di una piccola lettera di soli cinque capitoli che tuttavia riserva riflessioni di grande profondità morale e teologica, in modo particolare sul tema della ricchezza e dei poveri.

Una raccolta degli insegnamenti di Giacomo, fratello del Signore, per la santità cristiana

Il testo si presenta come uno scritto di “Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo” (Gc 1,1), tuttavia è difficile dire di quale Giacomo si parli. A differenza di Paolo che nelle sue lettere più volte rivendica la propria autorità apostolica, l’autore della lettera di Giacomo non scrive mai espressamente di essere apostolo. Se effettivamente lo scritto fosse di uno degli apostoli è difficile spiegare perché l’autore non si presenti come tale.

Nel Nuovo Testamento sono rammentati diversi personaggi dal nome Giacomo: Giacomo figlio di Zebedeo, uno dei Dodici apostoli (Mc 3,17); Giacomo figlio di Alfeo, anch’esso uno dei Dodici (Mc 3,18); Giacomo detto “il minore”, “fratello di Gesù” (Mc 6,3; 15,40); Giacomo, padre di Giuda l’apostolo, non l’iscariota (Lc 6,16). L’ultimo è una figura ignota nel cristianesimo delle origini e pertanto si può escludere dalla lista dei possibili autori di questo scritto, così come Giacomo figlio di Zebedeo che fu ucciso nel 44 d. C. da Erode Agrippa (At 12,2). Probabilmente non si tratta nemmeno di Giacomo di Alfeo perché nella lettera l’autore evita di chiamarsi apostolo.

L’ipotesi più probabile è che l’autore dello scritto sia Giacomo “il fratello del Signore” che fu capo della Chiesa di Gerusalemme al tempo del primo concilio di Gerusalemme (At 15; Gal 2,9), rappresentante un cristianesimo ancora fortemente legato alla religiosità ebraica, come si riscontra nella lettera stessa di Giacomo.

Alcuni elementi tuttavia rendono dubbia l’attribuzione della lettera direttamente a Giacomo: la lettera è scritta in un buon greco, talvolta sembra in dialogo con pensieri della filosofia ellenistica e in particolare stoica, è inoltre ricca di vocaboli greci rari e talvolta unici nel Nuovo Testamento; infine la sua autenticità e canonicità, cioè la sua autorità di regola per la fede per tutta la chiesa, orientale ed occidentale, fu riconosciuta solo intorno alla metà del IV sec. d.C. (cfr. Eusebio di Cesarea); infine nel testo non si dice nulla di Gesù.

Questi motivi hanno indotto molti studiosi a ritenere la lettera una raccolta di insegnamenti attribuiti a Giacomo, fratello del Signore, che fu messa per iscritto subito dopo la sua morte per lapidazione, voluta dal sommo sacerdote del tempio di Gerusalemme, Anan, nel 62 d.C. Per questo è possibile che la lettera fu scritta poco dopo la morte di Giacomo intorno agli anni 63-64, per conservare il suo insegnamento e trasmetterlo alle chiese; questa ipotesi spiegherebbe perché lo scritto, a parte il saluto iniziale (Gc 1,1) non sembra avere niente dello stile epistolare, mancando sia di un’occasione specifica che dei saluti finali.

Questo spiegherebbe anche il carattere della lettera che, in modo non organico, affronta una serie di temi di varia natura: la santità come frutto di una condotta morale giusta, più che legata alla santità rituale, l’invito all’umiltà, all’ascolto e alla pratica della Parola di Dio, l’invito alla saggezza, le esortazioni ai ricchi e alla moderazione; gli insegnamenti sulla lingua e sulle chiacchiere, sul fare differenze e sul giudicare in modo misericordioso e giusto; l’invettiva contro l’ingiustizia e l’oppressione dei poveri, l’esortazione alla preghiera.

La lettera di Giacomo non presenta riflessioni teologiche di particolare rilevanza, eppure la forza della sua argomentazione e soprattutto la vivida potenza di alcune sue immagini la rendono uno scritto fecondo e importante per la formazione dei cristiani di ogni epoca.

Contro un cristianesimo di sole parole

Leggendo la lettera si capisce che essa presuppone una comunità cristiana dove ci sono prove, sofferenze, difficoltà, differenze tra ricchi e povere, ingiustizia e oppressione verso i poveri. Insomma, una comunità di cristiani “normali”, cioè di persone che come noi devono affrontare la vita quotidiana dove i problemi, le tentazioni, le difficoltà mettono alla prova la fede e rivelano la forza o la debolezza della nostra adesione a Cristo.

Lo scritto si propone di aiutare i credenti a diventare “perfetti”, cioè a maturare una fede sempre più autentica, una fede capace di cambiare i propri stili di vita secondo il vangelo.

I destinatari della lettera sono tutti quei cristiani che, sebbene vogliano bene a Gesù, non sempre riescono a vivere come Lui, per questo Giacomo da una parte rivela alcune delle contraddizioni più eclatanti e comuni della vita dei cristiani, dall’altra indica loro il cammino dell’ascolto della Parola, della invocazione della Sapienza, e soprattutto li esorta a vivere la vita con fiducia, sapendo che tutto può diventare motivo di gioia se vissuto con fede, non perché sia gioioso in se, ma perché può diventare l’occasione che fa maturare l’amore che salva e che redime, se l’accettiamo con docilità e umiltà.

In questo senso la lettera mantiene tutta la sua attualità e forza anche per i cristiani del nostro tempo sempre più costretti a confrontarsi con un mondo e un modo di pensare contrari al vangelo da cui spesso anche i cristiani stessi sono condizionati.

Per questo Giacomo esorta, indica, sprona i credenti a maturare un cristianesimo fatto di ascolto e di pratica che faccia maturare quella “parola di verità” (Gc 1,18) ricevuta nel vangelo e presente nella coscienza di ogni uomo (Gc 1,21), che sola può renderci “beati” se la pratichiamo, permettendogli di manifestare tutto il suo potere salvifico. Perché questo è la pratica della Parola, ciò che permette alla potenza di Dio di manifestarsi nel suo Spirito e renderci religiosi, felici, in definitiva più simili a quell’immagine di Dio che Egli ha impresso nei nostri cuori (Gc 1,23) e che spesso offuschiamo con il peccato e la mediocrità.

Cristiani come la povera vedova

Il sussidio si apre con l’episodio biblico della povera vedova che getta due spiccioli nel tempio e che Gesù loda come esempio di vera religiosità (Mc 12,41-44), quella vera religiosità di cui parla Giacomo nella sua lettera a più riprese (Gc 1,26). L’esempio della povera vedova chiarisce quello che per Giacomo sono i cristiani, come una vedova, cosciente di dipendere da Dio, datore di doni (Gc 1,16), non attaccata ai suoi averi, ma capace di condividere, non avara ne avida, ma generosa e gratuita, non incattivita o impaurita dalla povertà e dalla precarietà, ma fiduciosa e umile.

Quello che Giacomo cerca di dire ai credenti per aiutarli ad essere secondo la volontà di Dio è realizzato da questa povera vedova che con il dono di quei due spiccioli ha dato tutto quello che aveva, tutta la sua vita. Perché in definitiva, non è il tanto o il poco che si dà, che ci fa conformi alla volontà di Dio, ma il dare noi stessi, il rendersi disponibili alla sua volontà.

Questo chiede libertà da noi stessi e dal nostro egoismo, libertà dai legami creati dalle ricchezze, materiali e spirituali, che riteniamo nostre, capacità di conoscenza e dominio di sé, esercizio nel condividere e condividersi, fiducia nel lasciarci guidare da colui che tutto sa e tutto può.

Quella povera vedova è una delle immagini più bella della chiesa e del credente. Quella vedova siamo chiamati a diventare, aiutati dalla lettera di Giacomo e dall’insegnamento del Signore perché anche noi possiamo raccogliere un frutto di misericordia è compassione (Gc 5,12) quando Egli verrà incontro a noi.

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