1. Io sono la porta
(cf. don Andrea Santoro, Stralci dal diario 1977-78).
“Io sono la porta delle pecore:
attraverso me possono entrare e uscire
e trovare il nutrimento che dà la vita” (Gv 10).
La Porta: allora è possibile entrare e uscire, è possibile tentare di entrare e tentare di uscire. La porta significa un passaggio… Ma se c’è una porta è segno che bisogna lasciare ciò che è di casa, [e] si può trovare qualcosa che può diventare di casa. La porta significa che tutto è casa ma devi varcare una soglia perché questo avvenga.
La porta verso il mondo, la porta verso Dio: si può rimanere prigionieri del mondo e si può rimanere prigionieri di Dio. Si può tirare la porta verso Dio o verso il mondo, dimenticando di varcarla.
Anche Dio ha varcato le porte del Verbo creando il mondo ed entrando poi in esso, facendo anche del mondo la sua casa, la sua carne, la sua sposa. E il Verbo ha varcato la soglia del mondo per congiungersi al Padre: Gesù è la soglia di comunicazione, di passaggio, è l’ingresso al mondo e l’ingresso a Dio.
Chi non varca una soglia è chiuso in una stanza e vi rimane prigioniero. Dio non è prigioniero di se stesso: ha una porta e vi esce, e da essa fa entrare. Il mondo è prigioniero di se stesso finché non apre una porta per uscire e andare a Dio e lasciare entrare Dio.
Dio abita nell’uomo e l’uomo abita in Dio. Ma lasciare se stesso per Dio è una croce, è un morire, un darsi totalmente, un farsi servo, amico, sposo. E lasciare il “mondo” (nella sua logica, nel suo essere stanza chiusa) per entrare in Dio, per Gesù è un morire, un essere cacciato, un essere non capito: Gesù è la porta, ma proprio per questo è la morte, è la croce… proprio per questo è un vivere, un entrare nella vita. Varcare una soglia è morire: questo morire è un vivere…
Gesù è la porta: egli è la comunicazione con Dio, egli è la comunicazione tra un essere umano e l’altro, tra l’uomo e la natura. Se Gesù è la porta l’incomunicabilità è vinta. C’è una breccia aperta verso l’altro e dall’altro verso me. Siamo familiari l’uno all’altro: c’è una casa oltre me, un fratello, un focolare, una stanza amica, un parente, uno che posso riconoscere, perché ha gli stessi miei connotati, abiti, immagine; avanti a me e dietro a me e a fianco di me la porta aperta: è il Cristo.
Anche peccare è possibile, anche allontanarsi, anche fuggire, tradire: la porta me lo permette, non si ribella, non mi toglie questa libertà. E posso tornare, la porta non mi toglie quest’altra libertà e gioia.
Esser porta: che gli altri attraverso me possano entrare e uscire, senza arrestarli, bloccarli, fermarli a me. Essere una comunicazione, una soglia di comunione, essere una croce, accollarmi la croce di questa comunione, di questo ritrovarsi degli altri, di questo ritrovarsi di Dio e del mondo. Essere disposto a sperimentare per me la strettezza di una porta da passare, una che dà vita e porta alla vita, essere disposto a sperimentare la strettezza di essere porta, di far passare, di mettere in comunione, portando alla vita. Lasciarsi aprire e chiudere, lasciarsi usare continuamente come una porta.
La vita è varcare di continuo una soglia, mille soglie, infinite soglie, o morire di inedia, chiusi in un carcere. La vita è la possibilità certa di entrare e di uscire perché Cristo è il punto di passaggio, di legame, di congiungimento, è la saldatura, la Pasqua.
L’amicizia, l’amore, la fraternità e la solidarietà: per i discepoli di Gesù significa aiutarsi a varcare certe porte, attraversare insieme il Cristo e attraverso il Cristo addentrarsi, avanzare, spingersi in là, oltrepassare. Non esiste amicizia se non è sostenersi nello sforzo di passare oltre, farsi coraggio nel mettere un piede al di là di certe soglie, di mille soglie, raggiungere insieme nuove stanze, nuovi mondi, nuove mete sostenendo insieme lo sforzo del terrore della morte insita nel gettarsi oltre una porta. L’amicizia significa sentirsi comunicanti e legati da vincoli, attraverso questa porta: il punto di passaggio dall’uno all’altro non è se stessi, [le] proprie forze, capacità, talenti, attrattiva etc. ma il Cristo. Da sé soli non si può comunicare, andare all’altro e far venire: occorre una porta: ed è Cristo.
Fare a meno di questa porta significa comunicare attraverso i muri. Illudendosi di non averli e solo quando si scopre la porta allora si nota la differenza”.
Fonte Colombo, 13 Ottobre 1977
2. Le pecore lo riconoscono
(cf. don Andrea Santoro, Stralci dal diario 1977-78).
“Il buon pastore entra per la porta, non da un’altra parte. Entra da dove ci s’incontra, da dove può essere riconosciuto, visto in faccia, accolto o respinto. Non entra a forza, di nascosto, non aggira, non “si introduce” non “si infiltra”: entra, va diritto alla persona, allo scopo. Stabilisce un collegamento diretto e immediato senza sotterfugi, sottintesi, tattiche, strategie diplomatiche. Entra per la porta rivolgendosi direttamente, chiamando e parlando.
Dio non entra attraverso la paura, la minaccia, approfittando di debolezze e crisi, non si infila approfittando di un cedimento, d’uno smarrimento, d’una qualunque apertura o fessura. Dio entra per la porta d’ingresso, faccia a faccia, magari improvvisamente, inaspettato, fuori orario, ma per la porta. Non entra per la feritoia della politica, dello sport, dell’ascendente, ma per la porta del rispetto, dell’amore, dell’appello uomo a uomo, Dio a uomo, padre a figlio, amico ad amico.
E poi questo pastore entra “dentro”, nell’ovile delle pecore, nella loro casa, le chiama “nome a nome” una per una, perché le conosce, le invita a uscire, le aspetta tutte, e poi si mette avanti a loro, le precede e le guida, le conduce.
Le pecore lo riconoscono, da tutte le cose dette prima (entra per la porta, avanza nell’ovile, le chiama per nome, le invita a uscire, verso la vita) e gli vanno dietro, vedono che non è un estraneo, perché gli estranei li fuggono.
Dio è sceso dal cielo, si è incarnato nel Figlio, è entrato per la porta, faccia a faccia, s’è addentrato nell’ovile, ha guardato le sue pecore, s’è fatto guardare e scrutare, le ha conosciute da vicino e le ha chiamate per nome: solo così non è un estraneo, ed è possibile riconoscerlo e andargli dietro. Dio ha dovuto liberarsi della sua estraneità, da straniero s’è fatto familiare. L’unico modo era la via che ha scelto, l’atteggiamento rappresentato nel pastore.
Il mercenario è colui che vive delle pecore, sulle pecore, il pastore è colui che dà la vita alle pecore, per le pecore, dà se stesso, non le cura per se stesso, non se ne fa una riserva, o un vanto, o un potere, o un popolo osannante e plaudente, non si fa ammirare, non dà spettacolo di sé: gli stanno a cuore le pecore.
Non cerca la sua gloria ma cerca la gloria del Padre, la sua felicità, la sua esaltazione, e viene a comunicare gloria alle sue pecore.
Per sé non cerca nulla: ama soltanto e non capito, si lascia buttare fuori dell’ovile, non pretende di essere pastore per forza. Dalla porta è entrato, dalla porta esce. E guardandolo così, cacciato, ucciso, rifiutato, lo si capisce davvero che è pastore, si è rapiti dal suo amore e davvero gli si dà credito, ci si lascia convincere e gli si crede. Lui solo è pastore.
Il mistero di Gesù è questo: Dio che da straniero si fa vicino, entrando in mezzo al gregge, venendo a vivere in mezzo ad esso. Solo così poteva essere il loro Dio e non uno straniero potente da temere e adorare. L’estraneità ha certi connotati, la familiarità ne ha altri, chiari ed esigenti: in Gesù Dio li ha assunti. Sono connotati che sono presenti in Dio stesso, nel mistero del logos (Parola: il Padre chiama per nome il Figlio, pronunciando il suo nome, l’unica Parola del linguaggio di Dio), nel mistero del Figlio unigenito, amato. Il Figlio è l’ovile del Padre.
Il Figlio depositario di questo amore, ne è l’immagine, la manifestazione, l’emissario, l’inviato: compie la volontà del Padre, che è quella di chiamare per nome, entrare per ogni porta, introdursi in ogni ovile, dare la vita non chiederla. Nel Figlio-pastore si manifesta la gloria del Padre, la sua potente vitalità interiore.
Nel pastore crocifisso si specchia perfettamente il Padre: depositario e trasmettitore perfetto dell’amore, “come il Padre ha amato me, io ho amato voi” “come il Padre conosce me, io conosco le mie pecore” “come io e il Padre siano una cosa sola”.
Allora è tutto chiaro: Gesù va da Lazzaro (capitolo 11), nell’ovile della morte e della puzza (la tomba) e lo chiama per nome, e Lazzaro lo riconosce, varca la porta e va dal suo pastore e lo segue: è il trionfo della vita.
E Gesù chiamerà per nome “Maria” nel giardino, dopo la resurrezione, e Maria lo “riconoscerà”. Gesù chiamò per nome gli apostoli, entrò nell’ovile delle prostitute, dei ladri, ma entrò sempre per la porta, nell’ovile dei pubblicani, dei romani, dei farisei, di tutti. Fece uscire, attendendoli fuori, gli zoppi, i ciechi, i lebbrosi, i peccatori dall’ovile delle loro cecità, del loro peccato, della loro perdizione.
Egli dirà: andate, pascete nel mio nome. Pascere, nel nome di Cristo, cioè come Cristo, con l’autorità, il cuore e l’animo di Cristo.
Fuggire quando viene il lupo, cioè la crisi, l’abbattimento, il dubbio, la difficoltà, la persecuzione o qualunque altra cosa. Mai: il buon pastore non lo fa, è sposato con le sue pecore, è legato ad esse, è familiare non più straniero, il loro nome è impresso sul suo cuore, sulle sue mani.
E le pecore di fuori, di un altro ovile. Pure quelle… Tutto il mondo è un ovile, non ci sono steccati, ovunque egli è mandato, dalle pecore smarrite, dalle pecore del piano o del monte, della città, della campagna.
Signore mettimi dentro tutte queste cose: che io ti scopra Pastore, che io abbia il tuo animo di pastore. Pecora di un tale pastore, mandato alle altre pecore a immagine di questo pastore.
“Bisogna rinascere un’altra volta”: certo. Si riceve un nome quando si nasce, anzi si nasce perché qualcuno ha pensato a noi, ci ha chiamati alla esistenza. E si rinasce quando si riceve un altro nome, quando si viene chiamati un’altra volta, si riconosce questo nuovo nome, se ne sente il bisogno, e ci si muove verso chi ci chiama. “Non sai da dove viene questo nome, da dove soffia questo alito di vita che ti chiama, ma pure c’è, tu lo senti, e senti che tutto si ridesta in te”. Ma bisogna che sia innalzato il Pastore, e allora tu percepisci che davvero ti chiama, che pronuncia il tuo nome non come un mercenario, un compratore, uno che ha bisogno di seguaci, ma come uno che ti ama senza volerti catturare, e amandoti, come il Padre lo ama, come il Padre ha chiesto di fare, disposto a lasciarsi cacciare piuttosto che a introdursi e ad averti con la forza.
Maria: fosti chiamata anche tu per nome all’annunciazione e lasciasti entrare nel tuo ovile il pastore, che in te nacque e da te ci è stato dato. Tu sei la porta che si è spalancata per accoglierlo e si è aperta per consegnarlo a noi.
Insegnami a credere, a essere pecora di questo pastore, a diventare maestro di fede, porta e pastore per le altre pecore”.
Santuario di Greccio, 18 ottobre 1978