Condivido il testo della Lectio, tenuta a Modena il 26 ottobre 2023, in apertura del Festival della migrazione, sul tema “Liberi di partire, liberi di restare, liberi di raccontare“
Per gentile concessione dell’autore
Prof. Luigi Alici
https://luigialici.blogspot.com
1. Quale libertà
Ci sono tanti modi di morire, quanti sono i modi di vivere. La morte racconta la vita, chiude un cerchio, interrompe un percorso, senza tuttavia riuscire a conferirle senso compiuto. C’è sempre un incompiuto nello spartito dell’esistenza, che nasce da un dislivello incolmabile fra l’orizzonte infinito della libertà e il perimetro finito dell’esistere. Senza libertà, sulla vita umana si spegnerebbe la luce; nel silenzio della parola, il mistero della persona si ridurrebbe a un’altalena biologica prevedibile e ottusa. D’altro canto, è impensabile una libertà disincarnata, svincolata dal peso della finitezza, dalla opacità del vedere e dalla fragilità del volere. Sognare una libertà senza fatiche e senza rischi significa smettere di essere uomini e donne, fragili e preziosi.
Provando a metterci in ascolto del mistero della libertà, possiamo dare nomi diversi all’incompiuto dell’esistere, oltre la contrapposizione ideologica fra libertà e uguaglianza che ha attraversato l’epoca moderna, radicalizzandosi in opposti estremismi, per i quali si sono letteralmente versati fiumi di sangue. Da un lato, l’accento sulla libertà come presidio di autonomia da condizionamenti esterni ha ispirato la grande tradizione del liberalismo, che ha inteso proteggere la sovranità intangibile dell’individuo, ricavandone il tema della dignità e dei diritti, ma ha anche incoraggiando una competizione strisciante tra ricchi e poveri, tra privato e pubblico, tra Stato e mercato, che ha lasciato l’individuo solo dinanzi alla crescita incontrollata di poteri non democratici. Da un altro lato, invece, in nome del primato dell’uguaglianza si vorrebbe conferire un respiro universalista al valore della giustizia sociale, anche per combattere alla radice le disuguaglianze, demistificando ogni tentativo di mascherarle come una insuperabile barriera naturale, a costo di favorire pericolose derive collettiviste.
Mettere la libertà contro l’uguaglianza, e viceversa, è stato un grave errore che ha intossicato l’etica pubblica, alimentando una polarizzazione ingiustificata: da un lato, la libertà si è trasformata in un possesso esclusivo, che ha potenziato un individualismo ostile, trasformando lo spazio pubblico in una prateria abitata da predatori insaziabili; da un altro lato, l’uguaglianza ha legittimato, più o meno volontariamente, una forma non meno equivoca e intollerante di odio delle differenze, fino a considerare la libertà individuale uno dei nemici dichiarati della convivenza.
Se invece proviamo a riportare lo sguardo sull’incompiuto della libertà che accompagna l’avventura umana, ci sembrerà meno difficile andare oltre questa contrapposizione ideologica. C’è una incompiutezza fisiologica che pesa sulla vita umana e limita dall’interno l’esercizio della libertà: sia di ordine involontario, in quanto discende dalla costituzione somatica o da un contesto sociale che non si è scelto; sia di ordine volontario, in quanto espressione di scelte esistenziali più o meno sbagliate. Ma c’è anche una incompiutezza tragica, patita ingiustamente, immeritata e non voluta, che pesa come un macigno sulla piena fioritura umana, alla quale ogni essere umano ha diritto in quanto persona.
La tradizione liberale ha elaborato, su questo punto, grazie anche a Berlin, la distinzione tra libertà positiva, o “libertà di”, e libertà negativa, o “libertà da”: la prima scaturirebbe da un diritto connaturato all’autonomia soggettiva, che riconduce, sin dalla prima modernità, all’idea di un individuo autorizzato a soddisfare bisogni e massimizzare interessi da un originario diritto di proprietà su se stesso e sul proprio corpo, conferitogli dalla natura umana. Tale diritto non accetta vincoli morali eteronomi ed è disposto a riconoscere un organismo artificiale come lo Stato, solo come risultato di una cessione limitata di quote di autonomia individuale in cambio di sicurezza.
Secondo questo modello, che intende la libertà essenzialmente come una forma di autonomia, allo Stato compete la funzione puramente strumentale di creare le condizioni per il libero esercizio della massima libertà individuale consentita dalla vita di relazione; un approccio che la tradizione illuministica ha nobilitato in senso universalistico, innalzando un cielo di diritti individuali al di sopra di ogni differenza di razza, di cultura, di religione. Anche i fautori del primato dell’uguaglianza, d’altro canto, ritengono inseparabili “libertà da” e “libertà di”; tuttavia non sono disposti ad accettare una libertà positiva che possa esercitarsi in un regime di insindacabile autonomia individualistica, perché proprio la sfera privata sarebbe all’origine delle disuguaglianze più profonde.
Fa uno strano effetto oggi ricordare l’energica rivendicazione della “libertà di” come un originario dato di natura, in nome del quale è non solo legittimo ma doveroso esigere dal potere politico interventi drastici nella rimozione di tutti gli ostacoli che ne mortificano dall’esterno l’esercizio concreto. Fa uno strano effetto, perché lo stretto collegamento fra le due libertà, negativa e positiva, fatto valere per i cittadini garantiti delle società occidentali, non viene affatto invocato per i non cittadini in fuga da contesti di guerra, di violenza, di disoccupazione, di miseria generalizzata, di assenza di futuro, per cui alla fine cade persino ogni distinzione tra migranti economici e richiedenti asilo. Per questo, la rivendicazione di una libertà positiva sempre più ostaggio di futilità consumistiche (francamente difficili da ascrivere alla nobile lista dei diritti civili) stride clamorosamente con la sospensione della stessa libertà per altri esseri umani, dove invece il paniere delle opzioni libere è drammaticamente circoscritto ai bisogni più elementari e vitali di mera sussistenza.
2. Prigionieri della paura
In modo più o meno consapevole, dietro l’avversione spietata nei confronti dei migranti, al netto di legittime preoccupazioni di integrazione e sostenibilità, si sta forse giocando una partita più radicale: mentre a parole si invoca la tutela della propria identità culturale, nei fatti l’occidente sembra invece sul punto di rinunciare alla migliore eredità di quella tradizione. Il valore più alto di tale cultura nasceva infatti da una sapiente fusione, nonostante asprezze ideologiche a volte più apparenti che reali, fra una cultura illuministica dei diritti e della tolleranza e il messaggio cristiano dell’amore e della fraternità. La rinuncia a tale eredità non si manifesta unicamente attraverso forme di sconfessione esplicita; può essere anche sottoposta a una erosione strisciante, inutilmente mascherata da reiterate dichiarazioni di principio, sempre più vuote e retoriche.
Come ha scritto Charles Taylor, la nostra cultura occidentale ha ereditato dalla modernità principi alti in tema di diritti, di giustizia, di benevolenza; tuttavia «i principi elevati richiedono fonti forti», dipendono cioè da un’idea di bene a cui oggi non siamo più in grado di innalzarci, essendo ormai prigionieri dentro di volubili sensibilità individuali. Dinanzi a questa pretesa contraddittoria dobbiamo chiederci conclude Taylor, «se non stiamo vivendo al di sopra delle nostre risorse morali». Ecco il dilemma delle moderne società occidentali, sedotte e abbandonate dalla cultura decostruzionista dei “post-“, fatta di una lunga lista di aggettivi sostantivati (postmoderno, postumano, postmetafisico, postmorale, postsecolare, postdemocratico, postindustriale…): mentre si afferma che una difesa indiscriminata dai fenomeni migratori sarebbe necessaria per la salvaguardia della propria identità culturale, di fatto proprio questo sistema di autodifesa sconfessa il profilo più alto di quella cultura.
Equiparare l’essere liberi “dai” migranti all’essere liberi dall’ignoranza o dalla fame, spostando nel paniere della libertà negativa addirittura la libertà di altre persone, significa snaturare il senso stesso della libertà di tutti. Se l’individuo comincia a chiedere alla politica di bonificare spazi sempre più estesi della “libertà da”, fino ad includervi la libertà dall’altro, dallo straniero, dal diverso, allora inevitabilmente, proprio stando all’originario paradigma liberale, una deriva totalitaria finisce per restringere lo stesso perimetro della “libertà di”, che a questo punto rischia di ridursi per tutti. Todorov lo ha detto con parole inequivocabili: «La paura dei barbari è ciò che rischia di renderci barbari»; in questo modo, «il male che ci faremo sarà maggiore di quello che temiamo di subire». I veri barbari, infatti, che si comportano come se gli altri non fossero umani, «sono quelli che negano la piena umanità degli altri». Possiamo dirlo anche con le parole di un grande poeta come Tagore: «Chi non vede il fratello nella notte, nella notte non può vedere se stesso».
Sul piano politico, una sorta di singolare eterogenesi dei fini si insinua in questa degradazione del paradigma liberale, che si estremizza sul piano economico in senso liberistico e sul piano antropologico in senso libertario, alimentando lo slittamento da un’istanza securitaria verso una spirale autoritaria; è questa una deriva tipica del biopotere, ben descritta da Foucault: per dar vita a una nuova forma di governo occorre «introdurre un di più di libertà mediante un di più di controllo e di intervento». La logica emergenziale non solo non aiuta a leggere correttamente il fenomeno migratorio, ma rischia di mettere a segno un vero e proprio autogol nel campo stesso della società dei garantiti.
Non a caso, in settori sempre più ampi del mondo occidentale, culturalmente, tecnologicamente e politicamente avanzato, si assiste a un ritorno della paura. Secondo Escobar, oggi la paura «si manifesta nell’immaginario diffuso come il rischio incombente che il mondo perda la sua forma, che l’Est venga a Ovest, che il Sud salga a Nord». Se, per un verso, paure antiche sembrano in qualche modo messe sotto controllo, per altro verso, in concomitanza con una rivalsa delle appartenenze etniche e localistiche, una nuova paura nasce come percezione angosciosa dei confini: «alla categoria del nemico, che come tale è straniero, si sostituisce quella degli stranieri, che come tali sono nemici». Una paura diffusa, indistinta, disancorata, offende lo statuto della razionalità occidentale e porta acqua al mulino della modernità liquida: «“Paura” è il nome che diamo alla nostra incertezza: è la nostra ignoranza della minaccia, o di ciò che c’è da fare – che possiamo o non possiamo fare – per arrestarne il cammino o, se questo è in nostro potere, almeno per affrontarla».
Tuttavia, nonostante questo carattere pervasivo della paura postmoderna, che non conosce confini e non rispetta muri, le persone si scontrano, non s’incontrano nella paura. Lo abbiamo visto durante le fasi più drammatiche della pandemia, quando la paura del Covid e, al contrario, la paura dei vaccini hanno suscitato due fazioni contrarie, opponendo i no-vax, alfieri della libertà, agli alfieri dell’uguaglianza, più attenti a preservare la salute come parte integrante del bene comune. A un livello diverso, e ancor più drammatico, anche negli occhi sbarrati di chi approda fortunosamente a Lampedusa si può cogliere una paura elementare e insieme nobilissima – la paura di perdere in un unico naufragio la vita e la dignità; eppure la società borghese dei garantiti non è disposta a riconoscerla all’altezza delle proprie paure. Aveva ragione Gilson: «In mancanza di un amore comune, ci si accontenta di una paura comune».
Il tribalismo è il nuovo approdo di questa paura borghese, che maschera dietro il tentativo di nobilitare l’etnocentrismo una verità molto più prosaica: l’universalismo illuminista della libertà non conviene più. Secondo Sennett, nasce da qui il “tramonto dell’uomo pubblico”, all’origine di quella «ideologia intimista» che è «il tratto distintivo di una società incivile». Il venir meno della capacità di collaborare, intesa come «uno scambio in cui i partecipanti traggono vantaggio dall’essere insieme», coincide quindi con l’affermarsi del tribalismo, che «abbina la solidarietà per l’altro simile a me con l’aggressività contro il diverso da me». Una voglia di regressioni tribaliste analizzata, tra gli altri, anche da Walzer e Boltanski, è ribadita anche da Bauman, secondo il quale «la rabbia degli esclusi e dei reietti è un filone incredibilmente ricco da cui si può attingere senza sosta per rifornirsi di capitale politico».
Nessuno avrebbe immaginato che la globalizzazione, mentre per un verso dissimula la marcia trionfale di poteri invisibili, per altro verso avrebbe scatenato le peggiori pulsioni tribaliste, alla ricerca di solidarietà corte e strumentali, entro recinti privati sentiti come una tana, da cui lanciare anatemi populisti contro il monopolio delle élite. Nell’eclisse di un mondo comune, che la politica dovrebbe proteggere, ponendolo sotto il segno del bene comune, diventiamo tutti stranieri, reclusi in un arcipelago di tribù autoreferenzali. Mille dialetti senza una koiné, grumi di egoismi regressivi in una società scucita. Il mito dell’autonomia assoluta come premessa di una solitudine assoluta.
3. Fraternità, liberi insieme
Come tutti i grandi ideali della modernità, anche il binomio di “libertà di” e “libertà da” si è come mummificato, diventando irriconoscibile. Nel conflitto tra appelli libertari e giustizia sociale è venuto meno un termine medio, capace di oltrepassare la logica bipolare attorno alla quale nella modernità si sono consumati conflitti interminabili: soggetto e oggetto, individualismo e collettivismo, illuminismo e romanticismo, biocentrismo e tecnoscienza… Ne Le due fonti della morale della religione Henri Bergson coglie la radice del problema, riconoscendo che la democrazia, nella sua essenza intimamente evangelica, «proclama la libertà, richiede l’uguaglianza e riconcilia queste due sorelle nemiche, ricordando loro di essere sorelle, mettendo al di sopra di tutto la fraternità». È questo, com’è noto, il tema dell’enciclica Fratelli tutti, dove fra l’altro papa Francesco esprime un concetto identico: «La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza» (n. 103).
Oggi più che mai compete proprio alla fraternità il compito di riconciliare le due “sorelle nemiche”, e può farlo solo ripensando la dialettica tra “libertà di” e “libertà da” nel contesto di un’altra dialettica, tra “libertà per” e “libertà con”. Sarà il caso di riaffermare che se la libertà è una medaglia, una faccia si chiama autonomia, l’altra faccia si chiama responsabilità. E come per ogni medaglia, la circonferenza di una faccia non può mai crescere a scapito dell’altra. L’autonomia non sta senza la responsabilità. Come anche Jonas ci ha insegnato, chi può scegliere deve rispondere. E la responsabilità, prima ancora che una dimensione giuridica, evoca una vita all’altezza della dignità personale e della vocazione che le corrisponde.
Se la libertà mobilita i popoli, scuote i progetti politici, intensifica il desiderio di riscatto e la sete di futuro, fino a gremire improbabili carrette del mare di uomini e donne, giovani, ragazzi e bambini con un carico di bisogni umiliati e di sogni più grandi di loro, è perché essa raggiunge la radice più profonda e inestirpabile dell’umano, dischiudendo orizzonti di ulteriorità dinanzi alla precarietà dell’esistere.
Quella libertà che è impossibile riprodurre in laboratorio e di cui l’intelligenza artificiale cerca invano di catturare l’algoritmo, appartiene, come la vita, che essa nobilita e innalza, all’orizzonte di un dono che non è il prodotto finale ma la condizione originaria delle nostre scelte. Libertà come munus: dono e compito, orizzonte che ci precede e appello che ci impegna. Riconoscerci in cammino verso una meta che è già originariamente nostra. “Libertà per” è la libertà che alza la testa oltre l’orizzontalità di un consumismo alienante; che guarda lontano, che domanda una vita all’altezza della nostra comune umanità. Insomma, una libertà che sprigiona un inconfondibile profumo di trascendenza.
Senza la verticalità della “libertà per”, che si assume la responsabilità dei fini, si possono combattere solo torbide battaglie di retroguardia a difesa dell’autonomia individuale: in tempi di pandemia e di guerra, si può reclamare contro il lockdown la libertà dell’apericena o pretendere un impossibile agnosticismo internazionale che non turbi il nostro tenore di vita. Nell’ottica di una “libertà per”, invece, si può guardare più lontano, fino a riconoscere che la libertà più alta è quella che abbraccia tutti, senza riserve e senza muri, figlia di una fraternità autentica solo se universale.
Ecco allora, al suo fianco, anche la “libertà con”, in cui la responsabilità diventa corresponsabilità totale e incondizionata, che domanda un impegno condiviso, nel segno del bene che accomuna. Non si può essere “liberi per”, senza essere liberi insieme. La nostra libertà non può restare indifferente alle differenze, che è in un certo senso la formula chimica del relativismo, ma deve al contrario trovare forme partecipate ed efficaci di articolazione delle differenze, in modo da graduare lo spazio dell’essere insieme secondo i livelli crescenti della tolleranza, del rispetto e della vera e propria condivisione, articolando di volta in volta in corrispondenti mediazioni normative il punto d’incontro fra forme relazionali e codificazione giuridica.
Anche la libertà di raccontare, infine, così come quella di partire o di restare, acquista il suo senso più alto in questo orizzonte di corresponsabilità partecipe. La riscoperta di pratiche narrative nella cultura odierna ha assunto dimensioni sempre più allargate (dallo storytelling nel mondo dell’impresa alla letteratura, all’etica e alla medicina narrativa…), manifestando insieme potenzialità e pericoli. La narrazione può certamente offrire spazi di rifigurazione, interpretazione e rappresentazione del vissuto condiviso, decisivi per la rigenerazione di prassi partecipative e democratiche, ma può anche prestarsi ad abusi subdoli e particolarmente insidiosi, che non riguardano solo un potenziamento del singolarismo narcisista, ma anche vere e proprie strategie ideologiche di mancanza di trasparenza, distorsione, manipolazione del consenso. Per questo, nemmeno la libertà di raccontare può reclamare per sé una sorta di franchigia morale, snaturando la trama narrativa, che in se stessa implica la sapienza di una tessitura di senso inclusiva e liberante, fino a ridurla a un armamentario identitario e militante, fabbricato per potenziare le paure e sdoganare i peggiori egoismi.
Dal messaggio cristiano e dalla comunità ecclesiale che lo custodisce e lo annuncia può venire un contributo originale per riconoscere ed esercitare buone pratiche narrative, in uno spirito di fraternità che papa Francesco ha sintetizzato in quattro verbi; “accogliere, proteggere, promuovere e integrare” (FT, 129). Lo spazio aperto di una fratellanza universale, così intesa e praticata, non è omologante se è capace di generare una società come un poliedro, in cui «le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda, benché ciò comporti discussioni e diffidenze» (FT, 215). Innalzare in questo modo l’asticella del bene comune, per essere liberi insieme, cambia di segno alla convivenza; senza autorizzare facili scorciatoie alla soluzione di problemi complessi, la narrazione cristiana della fraternità aiuta a ricercare insieme le condizioni sociali e politiche, culturali e spirituali per poterli affrontare.
Come ha scritto di recente il cardinale De Kesel, non dobbiamo dimenticare che «il Cristianesimo è una religione di origine straniera», diventata la religione culturale della società occidentale solo per una serie di circostanze storiche. La fine di tale monopolio comporta di per sé la fine non del Cristianesimo in quanto tale, ma solo di una sua forma storicamente datata. La Chiesa deve dunque reimparare ad abitare questo tempo, accettando di integrarsi senza che alcun conformismo acritico, secondo una condizione singolarmente analoga a quella di un migrante: «non gli si può chiedere di abbandonare la propria identità e la propria tradizione, non si pretende l’assimilazione completa, ma è suo dovere integrarsi nella società che lo accoglie. È lì che deve vivere e costruire la città con gli altri cittadini, insieme».
Anche Ricoeur, in un testo intenso e poco conosciuto di molti anni fa, riflettendo sulla natura post-cristiana dell’età moderna è arrivato a una conclusione drastica: «Forse i cristiani saranno tra breve i soli ad attribuire un senso all’umano perché, ancora una volta, non si salva l’umano dal disumano se non radicandolo in alto». Assumendo questo compito, come accade sempre nel miracolo della buona reciprocità, la Chiesa che va incontro ai migranti può addirittura essere aiutata a incontrare in modo nuovo anche se stessa. Ancora Ricoeur: «Così come la chiesa battezza dei bambini che non ha messo al mondo, essa battezza anche delle civiltà che promuovono valori appartenenti a un altro piano dell’esistenza umana e della creazione rispetto al disegno di salvezza».
Un incontro non scontato né indolore, rispetto al quale Mounier ha scritto, senza peli sulla lingua: «Troppi cristiani, in effetti, emigrano all’interno del proprio mondo. Vi sono troppe tende alle finestre delle loro case e a quelle della loro vita, troppe palpebre abbassate su sguardi che non sanno sopportare il peso delle cose». Per la comunità cristiana che annuncia, testimonia e pratica questo orizzonte di fraternità universale in cui sia possibile essere liberi insieme, si aprono nuovi spazi di incontro e di evangelizzazione. La libertà di raccontare diventa a questo punto anche libertà di annunciare cieli nuovi e terra nuova; non come una fuga rassicurante in una enclave chiusa, con le tende alle finestre, ma come un modo nuovo di rispondere all’incompiuto della libertà, mettendo sotto pressione la storia e contrastandone le indecenze a viso aperto, in nome di una riserva escatologica che deve bruciarci tra le mani. Del resto, la Rivelazione ce lo insegna e la storia lo conferma: l’eternità non è nemica della storia, ma può esserne anzi la sua alleata migliore. A un cielo senza paradiso corrisponde quasi sempre una terra con troppo inferno.
Postato 27th October 2023 da Luigi Alici