** Chiunque di noi può provare il desiderio di possedere qualcosa, di farlo mio, per me. Questo qualcosa può essere un’idea, una persona, un podere, una carica, un nome… lo faccio mio nella misura in cui lo uso per mio profitto o soddisfazione. E così possiamo stabilire un legame tra la mia persona e questo qualcosa; questo legame si chiama appropriazione. Il peggio che possa capitare è che questo qualcosa sia io stesso; in tal caso io mi trasformo in padrone di me stesso. Grossa schiavitù!.

Gesù, Signore mio; ho bisogno di distaccarmi da tante cose. Ho bisogno di disappropriarmi di me stesso. Liberami da tutte le schiavitù interiori, e metti dentro di me un cuore dolce e umile.” (Ignacio Larrañaga).

5.1. La conversione, dolorosa-gioiosa “trafittura del cuore”

La “Divina Misericordia” trabocca dal cuore di Dio Padre-Madre al Cuore del Figlio Gesù e dal Cuore di Gesù al nostro cuore e dal nostro cuore al cuore del mondo.

La misericordia è il mistero dell’amore folle, tenerissimo del Padre che trasale di gioia quando vede tornare a casa il figlio più lontano e invita tutti a gioire con Lui. Questo mistero di amore misericordioso nella storia umana prende il volto di Gesù, e si esprime nei gesti e nelle parole di Gesù, così che tutta la sua vita è azione di misericordia, amore fattivo ”sino alla fine” (cfr. Gv 13,1; Lc 23,34).

Il Cuore di Gesù squarciato dalla lancia sulla croce si è fatto per tutti cuore accogliente, sorgente della sua misericordia rigenerante per tutti coloro che sono stritolati dalle vicissitudini della vita, per far giungere a tutti l’annuncio del Vangelo e il dono della salvezza eterna.

Questa azione rigenerante del Cuore di Gesù arriva al nostro cuore di “miseri” lasciandoci incontrare da Lui attraverso la conversione:

36Sappia dunque con certezza tutta la casa d’Israele che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” 37All’udire queste cose si sentirono trafiggere il cuore e dissero a Pietro e agli altri apostoli: “Che cosa dobbiamo fare, fratelli?”. 38E Pietro disse loro: “Convertitevi e ciascuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo, per il perdono dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo. 39Per voi infatti è la promessa e per i vostri figli e per tutti quelli che sono lontani, quanti ne chiamerà il Signore Dio nostro” (At 2, 36-37).

La conversione è “a Gesù”, non ai valori cristiani o al cristianesimo o a qualcosa da fare, a una funzione da esercitare nella Chiesa. È un evento assolutamente personale, che permette al discepolo di rivolgersi con verità a Cristo come a “il mio Signore Gesù”. La conversione consiste nell’incontrare Cristo Signore, nell’orientare verso il suo Cuore il nostro cuore, la nostra mente e, di conseguenza, le nostre azioni. Si tratta di una conversione a Cristo, che è la Via alla verità della vita, che è la Verità che illumina e che è Vita e Amore che si dona per primo. Per tanto, l’amore a Dio e al prossimo non è anzitutto un “comandamento”, ma è la risposta al dono dell’amore, col quale Dio-Padre ci viene incontro in Cristo Gesù. Conquistato dall’amore di Cristo, il suo discepolo è mosso da questo amore all’amore per il prossimo.

Questo rapporto personale, diretto, con il suo Signore, è l’obiettivo che il credente, spinto dallo Spirito del Signore Gesù, è intento a ricercare come centro della sua vita, senza alcun limite di tempo, di spazio o di cultura.

La condizione e il segno di questo incontro è la “trafittura del cuore” (At 2,37), cioè l’intima coscienza della salvezza ottenuta “per me” dalla morte del Signore che “io stesso” ho ucciso con il mio peccato.

Il rapporto personale con il Signore Gesù nasce dall’annuncio kerigmatico di Pietro: “Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che voi avete crocifisso” (At 2,36).

Finché non mi riconosco in quel “voi”, non posso entrare in una intima conoscenza di Gesù. La salvezza è per me che l’ho crocifisso. Il mio essere uccisore è paradossalmente la mia salvezza. Se non accetto di essere uccisore di Gesù e non sento trafiggermi il cuore, egli non è il mio Signore.

Questo paradosso terribile è ciò che scatena la vera conversione, la quale non è vissuta come una comprensione intellettuale o come impegno etico, ma anzitutto come una dolorosa-gioiosa “trafittura del cuore”. Un colpo al cuore che scuote tutta l’esistenza e dal quale, solo, può scaturire la vita rinnovata ( cfr. 1Tim 1,12-17).

La trafittura di cui parlano gli Atti rappresenta il segno e il sigillo della conversione e dell’appartenenza al Signore Gesù.

Succede, allora, che di fronte al peccato il discepolo di Gesù non si scandalizza, ma si riempie di compassione verso il peccatore e gli annuncia l’urgenza della conversione mosso dalla sua stessa esperienza di conversione.

Questo Gesù da me crocifisso e costituito da Dio Cristo e Signore è un Gesù, nello stesso tempo, tenero, forte e glorioso.

Gesù è anzitutto il chinarsi di Dio sull’uomo, il suo Salvatore, colui che nessuno e niente, nemmeno il peccato, può separare da me.

La tenerezza di Gesù non è tuttavia un alibi per una vita già appagata, alienata in una immagine di Dio rassicurante e tranquilla. Gesù nella sua tenerezza non è un ingenuo bonaccione, ma il condottiero della grande battaglia dell’uomo contro il male e il peccato, contro ogni meschinità, cattiveria e menzogna: la battaglia della santità.

Gesù rivela e fa traboccare in noi la misericordia del Padre e ci invita ad imitarla: “Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso” (Lc 6,36); ci chiama a comunicare la tenerezza misericordiosa del Padre, a tendere la mano al fratello nel bisogno (cfr. Mt 25).

Ma Gesù è soprattutto il Signore glorioso, Colui che Dio ha costituito Signore.

“Gesù è il Signore”. Questa sintesi di tutta la rivelazione biblica, il discepolo di Gesù si sente spinto a gridarla in ogni suo annuncio e a testimoniarla nella vita vissuta come una corsa verso “la sublime conoscenza di Gesù mio Signore” (Fil 3,8).

Gesù lo attira come un amante, come meta, come la vetta del monte, come il più intimo degli amici. E più questa attrazione è intima e forte, più Gesù appare glorioso e refrattario a qualsiasi riduzione che l’uomo tenta sempre di fare con Dio trasformandolo in idolo. Per questo la dimensione della “gloria” è imprescindibile dalla persona di Gesù; mai Gesù potrà essere ridotto a una ideologia, a un sistema di pensiero o ad un comportamento etico. Gesù non è il completamento, il coronamento della nostra vita interiore, una specie di supporto per alzare il livello della nostra statura spirituale o del nostro impegno per gli altri e farci così compiacere di noi stessi.

A seguito della “trafittura del cuore” che consente l’accesso alla conoscenza intima di Gesù, si compie allora il passaggio dalla morte alla vita, quella insperata, impossibile risurrezione narrata da Ezechiele nella visione delle ossa aride (Ez 37,1-10), di cui è protagonista lo Spirito Santo. Il medesimo Spirito creatore che aleggiava sulle acque; lo stesso Spirito che anima, ispira, conduce, guida i grandi personaggi biblici: Gesù compreso.

Allo Spirito, infatti, spetta sempre il primato dell’azione nelle anime, perché allo Spirito e solo a Lui appartiene il prodigio della risurrezione: il prodigio del passaggio dalla morte alla vita, dalla tristezza alla gioia, dalla disperazione alla speranza; solo a Lui appartiene il potere di farci conoscere Gesù oggi, permettendoci di dire: Gesù è il Signore (1Cor 12,3).

Lo Spirito fa riconoscere il crocifisso Gesù come il Signore, il Kyrios, fa proclamare la folgorante uguaglianza Jahavè-Adonai(Signore)-Gesù, e innesca nel cuore del credente reazioni a catena che radicano nella Parola delle Scritture e nel “suo” Signore Gesù.

Adonai è il Dio misericordioso che si china sull’uomo per salvarlo “perché è eterna la sua misericordia” (Sl 136).

Adonai è il Dio dell’Esodo che libera Israele “con mano potente e con braccio teso” (Dt 26,8).

Adonai è il Dio creatore, colui che chiama le stelle per nome «ed esse rispondono: “eccoci!” e brillano di gioia per colui che le ha create» (Bar 3,35).

Adonai è “il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”.

Nel Nome di Adonai converge tutta la rivelazione biblica e tutta la storia di Israele: ”Ascolta, Israele: Adonai è il nostro Dio, Adonai è uno solo”.

Ma Adonai, Signore, Kyrios, è il titolo di Gesù pronunciato sotto la forza dello Spirito Santo; “Gesù è il Signore” (Rom 10,9.13), costituisce la fondamentale proclamazione di fede, che coinvolge l’anima cristiana e che affonda le radici nel cammino del popolo di Israele nell’A. T (cfr. Dt 26,4-10).

Ma Adonai, Signore, Kyrios è l’Amore/Vampa di fuoco che dal Cuore Trafitto di Gesù scende sul Calvario, e da qui si effonde sulla miseria umana per rigenerare ogni uomo e tutto l’uomo ed elevarlo a Lui (cfr. Scritti 2742)

** Il destino definitivo dell’uomo è nel divenire, nella transitorietà, nel distruggere l’egoismo; meglio nel liberare le grandi energie oggi incatenate a se stesso, e proiettarle al servizio di tutti in generosità e amore.

Oh Signore Gesù, tu che tutto puoi, compi il prodigio, fa che io non badi tanto a me stesso, ma che mi apra in benignità, bontà e affetto a tutti i fratelli che mi circondano”, (Ignacio Larrañaga), “tenendo sempre gli occhi fissi in Te, Crocifisso, amandoti teneramente e procurando di intendere sempre meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza degli uomini” (Daniele Comboni, cfr. S 2721).

5. 2. La conversione a Gesù sfocia nel ministero apostolico e nella condivisione del suo destino

** L’amore trasforma il vento in canzone a condizione che il flauto sia vuoto.

Svuotami interamente, mio Dio, da interessi, egoismi, vanità, protagonismi…, affinché la mia anima intoni ninne nanne per riempire di gioia i tristi e di consolazione gli afflitti. Amen. (Ignacio Larrañaga).

Del nesso intrinseco tra conversione, ministero e condivisione del destino di Gesù è emblematica la vocazione-conversione di Paolo.

All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione definitiva (cfr Deus caritas est, 217, EG 7). Si tratta di “inciampare” in Cristo, che è il “nuovo” del Nuovo Testamento (P. F. De Gasperis).

Tra coloro che nel cammino della vita hanno incontrato Cristo Gesù in modo travolgente ed emblematico, emerge la figura di Paolo di Tarso. Sulla via di Damasco, in fatti, Paolo inaspettatamente “inciampa in Cristo”, si imbatte in Lui ed è da Lui “afferrato” o “impugnato” come si impugna una spada (cfr. Fil 3,12): fa esperienza dell’amore misericordioso di Cristo che lo chiama alla fede e al ministero, cioè alla collaborazione intima con lui. Paolo, prima di tutto, si ritiene un chiamato, una persona a cui Dio ha dato un nome nuovo. Il nome di Apostolo.

«1 Saulo, spirando ancora minacce e stragi contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote 2 e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco, al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme tutti quelli che avesse trovato, uomini e donne, appartenenti a questa Via. 3E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo 4e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perséguiti?”. 5 Rispose: “Chi sei, o Signore?”. Ed egli: “Io sono Gesù, che tu perséguiti!6Ma tu àlzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”. 7Gli uomini che facevano il cammino con lui si erano fermati ammutoliti, sentendo la voce, ma non vedendo nessuno. 8Saulo allora si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla. Così, guidandolo per mano, lo condussero a Damasco. 9Per tre giorni rimase cieco e non prese né cibo né bevanda» (Atti 9,1-9).

Che cosa è avvenuto esattamente sulla strada di Damasco, qual è stato quell’evento che ha sconvolto la vita di Paolo al punto da farlo diventare da feroce persecutore dei cristiani ad apostolo delle genti?

Gli Atti degli Apostoli ci parlano di un’esperienza di luce, di una vicenda in cui sembra svolgersi un combattimento tra l’Io di Cristo e il Tu di Paolo, che rimane prostrato a terra, lui il giustiziere, che andava a incarcerare i cristiani di Damasco. Tre giorni di cecità, di digiuno assoluto, in cui si decreta la morte del vecchio Saulo e la nascita dell’Apostolo delle genti.

In questo combattimento si opera in Paolo un passaggio dalle tenebre alla luce. Le tenebre sono la sua vita senza relazione con Cristo Gesù. La luce che cominciò ad abitare nel cuore di Paolo è Cristo Gesù, luce del mondo, splendore del Padre che, a sua volta, egli dovrà comunicare.

Dio, chiamando Paolo, lo ha ri-creato, cioè gli ha dato nuove radici e un nome nuovo. La vera identità di Paolo è contenuta nella parola “apostolo”, che indica allo stesso tempo un ‘essere in Cristo’ che è anche ‘vivere per Cristo’, cioè un comportarsi in maniera coerente, in virtù della forza che gli proviene da Cristo stesso per realizzare la missione che gli affida.

Lo stesso Paolo, all’inizio della prima Lettera a Timoteo, presenta la propria vocazione come la “conversione” di un bestemmiatore, persecutore e violento:

«12 Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, 13che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, 14e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. 15 Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. 16Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna. 17 Al Re dei secoli, incorruttibile, invisibile e unico Dio, onore e gloria nei secoli dei secoli. Amen». (1Tim 1,12-17).

Questo brano autobiografico ci permette di cogliere il motivo più profondo che determina questa svolta. In esso, infatti, Paolo presenta la sua fase precristiana in termini molto negativi: dichiara di essere stato un persecutore, un violento, un bestemmiatore. Ma Gesù ha voluto scegliere proprio lui, il suo peggior nemico, chiamandolo dall’incredulità alla fede in Cristo Signore; non solo, ma anche al ministero, chiamandolo a collaborare intimamente con lui e conferendogli anche la forza necessaria per portare a termine questo mandato. Questa esperienza avviene in Paolo in forza della misericordia di Cristo ed è destinata a giovare a tutti i peccatori. È proprio così che Paolo dirà. La sua vicenda ha un valore esemplare. Il peggior peccatore, guardando alla storia di Paolo, potrà dire: – Se Cristo ha avuto misericordia di lui, potrà averla anche di me.

Questo è il vero significato della svolta di Damasco, dove Paolo “inciampa in Cristo”, si lascia catturare da Lui e fa esperienza del suo amore misericordioso.

Per tanto, chi si presenta come un “chiamato da Cristo” ad essere un suo discepolo missionario, deve poter dar ragione della sua conversione, del riordino della sua vita anteriore mettendo come Centro della sua esistenza Cristo Signore, così che la sua vita diventi un raggio che emana da questo Centro: «Questo Istituto diventa come un piccolo Cenacolo di Apostoli per l’Africa, un punto luminoso che manda fino al centro della Nigrizia altrettanti raggi quanto sono i zelanti e virtuosi Missionari che escono dal suo seno: e questi raggi che splendono insieme e riscaldano, necessariamente rivelano la natura del Centro da cui emanano». (S 2648).

** La forza nasce dalla debolezza, la vita dalla morte, la consolazione dalla desolazione, la maturità dalle prove.

Signore Gesù, il tuo apostolo Paolo ci dirà che quanto più sono debole, tanto più sono forte. Per sperimentare la forza di Dio, è imprescindibile sperimentare prima la debolezza umana. Quando sono immerso in una desolazione profonda, allora giungo a provare la dolcissima consolazione divina. Grazie, Padre.” (Ignacio Larrañaga).

5. 3. Inciampato in Cristo, Palo condivide il suo destino

La partecipazione nel Mistero Pasquale, la condivisione del destino di Cristo, è l’esperienza che definisce l’esistenza di ogni battezzato ed è quanto l’apostolo coscientemente vive in prima persona e annuncia agli altri. Infatti, la vita e la parola di Paolo ci annunciano che la vita del cristiano e tanto più dell’apostolo è incorporazione a Cristo crocifisso e risuscitato. Paolo, mentre riconosceva la propria debolezza, trovava in Cristo la forza in mezzo a tutte le tribolazioni e guardava a Cristo crocifisso e risuscitato e ringraziava “Colui che mi ha reso forte” (1Tim 1,12).

Così Paolo, dopo aver raccontato la sua vicenda esistenziale come Apostolo, in cui ha riprodotto in sé la vita di Cristo (“Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me”: Gal 2,19s), verso il termine della sua vita è consapevole che anche la sua morte riproduce la vicenda di Gesù. E questo per un fine salvifico a beneficio di tutta l’umanità bisognosa di incontrarsi con la Divina Misericordia.

«9 Cerca di venire presto da me, 10 perché Dema mi ha abbandonato, essendosi innamorato del mondo presente, ed è partito per Tessalònica … 11 Solo Luca è con me. … 16Nella mia prima difesa in tribunale nessuno mi ha assistito; tutti mi hanno abbandonato. Nei loro confronti, non se ne tenga conto. 17Il Signore però mi è stato vicino e mi ha dato forza, perché io potessi portare a compimento l’annuncio del Vangelo e lo ascoltassero tutte le genti… » (2Timo 4, 9-22).

Nella seconda Lettera a Timoteo, che può essere considerata come il testamento spirituale di Paolo, soprattutto negli ultimi due capitoli appaiono elementi autobiografici, che richiamano il martirio imminente dell’Apostolo. Tali elementi sembra che siano disposti in modo tale da accostare la morte di Paolo ormai vicina alla vicenda della passione di Cristo come viene narrata nei Vangeli.

Gesù è stato abbandonato da tutti i suoi discepoli al momento dell’arresto(Mt 26,56) e da due di essi da uno è stato tradito (Lc 22,47s) e dall’altro rinnegato (Lc 22,54-62. Anche Paolo menziona Dema, uno della equipe missionaria che collaborava con lui, che si è innamorato del mondo presente e gli ha voltato le spalle. Gesù ha avuto un discepolo fedele che lo ha seguito fin sotto la Croce, Giovanni (Gv 19,26). Anche Paolo ha avuto Luca che lo ha accompagnato fino all’esperienza del carcere e fino a pochi giorno prima della morte.

E come Gesù ha perdonato tutti dall’alto della croce: “Padre, pedonali, perché non sanno quello che fanno”(Lc 23,34), allo stesso modo anche Paolo invoca il perdono su tutti coloro che in qualche modo lo hanno danneggiato.

Questo modo di leggere la vita di Paolo si riscontra anche negli Atti degli Apostoli. In essi, infatti, i capitoli 21-28 vengono chiamati “passio Pauli”, perché raccontano la passione del discepolo, il viaggio della prigionia, che si concluderà col martirio a Roma. Secondo la tradizione Paolo sarà decapitato alla terza pietra miliare sulla Via Ostiense nel luogo detto “Aquae Salviae” e verrà sepolto dove ora sorge la Basilica di San Paolo fuori le Mura.

Secondo una tradizione il capo di Paolo staccato dal corpo balzò tre volte pronunciando il nome di Gesù, e facendo scaturire tre zampilli d’acqua (Tre Fontane), figura dell’acqua viva che dall’Apostolo e dal Vangelo da lui annunziato continuerà a scorrere nella storia fino agli estremi confini della terra. è una tradizione molto significativa che rimanda al detto di Gesù: “Scaturiranno fiumi di acqua viva” (cf. Gv 7,38).

Nella “passio Pauli”, molte sono le analogie con la passione di Cristo: anche per Paolo l’arresto avviene mentre è nel vivo della missione (cf. Atti 21); anche Paolo resta solo (cf. 2 Timoteo 4,9-18): tuttavia, ha sempre con sé Colui che gli dà forza: “Per questo mi affatico e lotto, con la forza che viene da lui e che agisce in me con potenza” (Col 1,29). A differenza di Gesù, Paolo si difende con vari discorsi, ma lo fa per avere l’occasione di annunciare Cristo. Dà compimento in sé alla passione del Messia, a cui si è consegnato con tutto il cuore, e come il suo Signore offre la vita a vantaggio della Chiesa, rivive rivivendo in se stesso la passione del suo Signore, andando con fede e con amore incontro alla morte: “Ora io sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e do compimento a ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella mia carne, a favore del suo corpo che è la Chiesa” (Col 1,24). L’Apostolo delle genti conclude la sua esistenza parlando dalla più alta ed eloquente delle cattedre, cioè il martirio, e sigilla nel silenzio eloquente del martirio stesso il suo amore per il suo Signore Gesù e per la Chiesa.

In sintesi, Paolo vive in prima persona e annuncia la Misericordia del Maestro come fonte di vita, come ciò che gli dà il coraggio di mostrare che la propria vita e le realizzazioni apostoliche non sono conquiste personali, ma si radicano nella Misericordia di Cristo, che lo ha rigenerato e lanciato in un impegno apostolico senza pari: proprio lui, il feto abortivo, in virtù della grazia che ha ricevuto e assecondato, è colui che per il Vangelo si è affaticato più di tutti (1Cor 15,10).

Appare chiaro, per tanto, che la vacazione del discepolo missionario è legata all’incontro personale con il Signore Gesù, il Crocifisso-Risorto, alla conversione e alla condivisione del suo destino (cfr. S 2742; RV 2-5; 21; 21.1-2): non c’è autentica vocazione per la missione in chi non si è convertito e non si trova in un continuo processo di conversione (cfr. RV 82.1; 99) e non può dar conto di essa nella comunità.

5. 4. Sulle orme di Paolo, Comboni si proclama “felice nella Croce

A questo punto, a noi missionari comboniani, non ci è difficile mettere a confronto l’esperienza martiriale dell’Apostolo delle genti con l’esperienza dell’apostolo dell’Africa Centrale, san Daniele Comboni.

Paolo, crocifisso con Cristo e partecipe della sua morte, gioiva nella visione della vittoria finale: partecipe della morte di Cristo, lo sarà poi della sua consolazione e risurrezione.

Comboni sa – e lo dice in molti modi – che le stigmate sono le credenziali di ogni apostolo, il quale di nient’altro si vanta se non della croce del Signore Gesù (cfr. Gal 6, 17), lieto delle sofferenze che sopporta per completare ciò che, dei patimenti di Cristo, manca nella sua carne a favore dei fratelli (cfr. Col 1, 24).

Sulla scia di Paolo, Comboni meditò molto sul Mistero della Croce e lo visse intensamente nella sua vita di missionario dall’inizio alla fine, da quando imparava a fare il Segno della Croce sulle ginocchia della mamma (S 342), fino alla morte avvenuta nel pieno della sua attività missionaria. Egli visse convinto che la legge della Chiesa è la Croce, che nella Croce vi è tutta la forza del cristianesimo, che nella Croce vi è la garanzia della bontà di ogni opera di Dio e perciò anche della sua opera.

Il coinvolgimento nella logica del “mistero pasquale” è così la chiave per cogliere “dal di dentro” la storia del grande apostolo dell’Africa:

Ad ogni modo, io dopo tanti patimenti, mi sento più e più forte di prima colla grazia di Dio: la convinzione, che le croci sono il suggello delle opere di Dio, mi conforta.[…] È ai piedi del Calvario il luogo dove sta tutta la forza della Chiesa e delle opere di Dio; dall’alto della Croce di Gesù Cristo esce quella forza prodigiosa e quella virtù divina, che deve schiantare nella Nigrizia il regno di Satanasso, per sostituirvi l’impero della verità, e della legge di amore, che alla Chiesa conquisteranno le sterminate genti dell’Africa Centrale” (S 4290-91).

«Dio vuol salva l’infelice Nigrizia (S 3941). Ora ci restano maiores labores, pericula, hoerumnae, e innumerevoli croci. Ma non pervenitur ad victoriam nisi per magnos labores. Cristo risuscitò dopo aver subito la morte di Croce. Egli ci aiuti a morire per amor suo e per la salvezza dell’infelice Nigrizia, per la quale morì sulla Croce(S 3942).

Così Comboni, dopo aver costantemente amato e abbracciato la Croce, dopo averne profondamente sentito il peso, mentre intorno a sé vi è il buio e l’isolamento morale più assoluto, scrive le ultime parole: sono parole di gioia nella Croce che redime. Siamo di fronte a una delle lettere con la data più vicina alla morte di Comboni, quella del 4 ottobre 1881. Questa lettera ci presenta un Comboni pervaso come Paolo dalla forza e dalla gioia, che sono frutti della Croce abbracciata con amore:

Che avvenga pure tutto quello che Dio vorrà. Dio non abbandona mai chi in lui confida… Io sono felice nellaCroce, che portata volentieri per amore di Dio genera il trionfo e la vita eterna” (S 2746). È proprio questo fiducioso abbandonarsi in Dio nella Croce l’apice della attività missionaria: “Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32).

In realtà, prima di essere raggiunto dalla morte corporale il 10 ottobre del 1881, Comboni era già morto a se stesso, avendo voltato le spalle al mondo consacrandosi ad uno stato di vita simile a quello degli Apostoli (cfr. S 442), e viveva una vita centrata in Dio-Trinità, segnata dall’esperienza carismatica del 15 settembre 1864. È sintomatico il fatto che nel narrare questa esperienza, Comboni non parla in prima persona, cominciando quindi con “io Daniele”, ricorre invece alla terza persona, mettendo quindi come soggetto “il cattolico”. Così ci confida che tale esperienza, mentre lo espropriava di se stesso e lo elevava da terra unendolo al Mistero di Dio, Amore-Misericordia, che entra nel regno della morte per mezzo di Gesù Crocifisso, nel contempo lo inseriva nella tragica realtà dei popoli oppressi dell’Africa Centrale, trasportato dall’impeto di quella carità accesa con divina vampa sulle pendici del Golgota ed uscita dal costato di un Crocifisso…e spinto da una virtù divina a stringere tra le braccia e dare il bacio di pace e di amore a quei fratelli suoi nell’infelice Nigrizia, unica passione della sua vita (cfr. S 2742).

Coerente con la sua “dedizione totale alla causa missionaria per la quale parlò, lavorò, visse e morì”, le sue ultime parole furono quelle di un generale che si sente morire e che lascia ai superstiti le sue ultime raccomandazioni, in fretta, prima che una densa nube gli offuschi la mente:

Abbiate coraggio; abbiate coraggio in quest’ora dura, e più ancora per l’avvenire. Non desistete, non rinunciate mai. Affrontate senza paura qualunque bufera. Non temete. Io muoio, ma la opera non morirà”.

La terra d’Africa, dopo averne ricevuto le sue lacrime e i sudori, ora si apre ad accoglierne le spoglie, poi si richiude in un geloso abbraccio.

Su quella tomba presto passerà la bufera mahdista, i missionari verranno allontanati, le chiese distrutte e nulla resterà più in Africa dell’opera del Comboni, ma egli era laggiù, nel seno della terra dell’Africa, quale “pietra nascosta” e angolare del fondamento di quella Chiesa africana che oggi, pure in mezzo a sofferenze e croci, brilla “come una perla bruna” nel diadema della Chiesa di Cristo (cfr. S 2701; 2314).

PREGHIERA DEL DISCEPOLO MISSIONARIO

Signore Gesù,
che hai voluto assumere un cuore d’uomo
per poter condividere in modo sensibile le miserie dell’umanità,
concedimi di non dimenticarmi neppure per un istante
di questa tua sensibilità.

Non ti chiedo che approvi e benedica ciò che io stesso ho deciso vivere,
ma ti prego di darmi la grazia di scoprire e vivere
quello che tu hai sognato per me, chiamandomi a far miei,
sotto la guida di san Daniele Comboni,
l’universalità del tuo amore per il mondo
e il tuo coinvolgimento nel dolore e nella povertà
dei più dimenticati della terra.

Concedimi che, in ginocchio, adori negli altri,
specialmente nei più infelici e sofferenti,
il Mistero del tuo amore creatore e redentore;
che rispetti il tuo progetto su di essi senza voler imporre il mio;
che li lasci percorrere il cammino che hai tracciato per loro,
senza cercare di farli miei seguaci;
che mai mi stanchi di tenere lo sguardo fisso in essi,
e con questo sguardo contemplativo sia arricchito
dai tesori che tu hai depositato nei loro cuori.

Signore Gesù
concedimi di conoscere perfettamente la tua volontà,
con ogni sapienza ed intelligenza spirituale,
per comportarmi nella maniera a te gradita e piacerti in tutto;
quando apro la bocca,
dammi una parola mite ed umile, ma coraggiosa e franca,
per annunciare il Vangelo,
del quale mi hai fatto ambasciatore per vocazione.
Concedimi di esercitare il mio apostolato
con la stessa carità apostolica di Pietro e Paolo,
di Daniele Comboni e dei tanti missionari martiri.

Casavatore, 17 marzo 2016
P. Carmelo Casile, mccj