* Is 40, 11; Ez 34, 11-16; Gv 10, 1-8; Sl 23

L’amore di Dio per il suo popolo è quello del pastore che ama le sue pecore:

Il Signore è il mio pastore:
non manco di nulla;
mi fa riposare… mi conduce…
mi rinfresca… mi guida…
Non temo alcun male, perché tu sei con me”
(Sl 23).

Un aspetto nuovo dell’amore di Dio è quello del pastore che ama le sue pecore. Non è l’amore-interesse di un pastore-padrone, ma un amore che presenta tutti i segni e i gesti di un cuore appassionato:

“Come un pastore (Dio) fa pascolare il gregge,
con il suo braccio lo raduna: porta gli agnellini sul seno
e conduce piano piano le pecore madri”
(Is 40, 11).

Io stesso condurrò le mie pecore
al pascolo e le farò riposare…
Andrò in cerca della pecora perduta,
e ricondurrò all’ovile quella smarrita;
fascerò quella ferita e curerò quella malta,
avrò cura della grassa e della forte.
Io salverò le mie pecore!”
(Ez 34, 15-22).

Gregge del Signore è il suo popolo: “Dio ama il suo popolo”, anzi, “il Signore ama i popoli” tutti, senza distinzione, anche se predilige Israele, che può esclamare: ”Egli ci ha fatti e siamo suoi, suo popolo e gregge del suo pascolo” (Sl 100, 3).

Oggi, ogni uomo può gridare, con la stessa esultanza e con lo stesso orgoglio, di appartenere al gregge di Dio, e di avere concentrato su di sé tutto l’amore del pastore che lo guida e lo conduce.

La possibilità che le sue pecore siano assalite, decimate e deportate con la forza a “paesi lontani”, dove correranno il rischio di dimenticarsi di lui “per servire altri dei”, fa piangere il suo cuore di Pastore:

Se voi, cattivi pastori, non mi ascolterete,
io piangerò in segreto dinanzi alla vostra superbia;
il mio occhio si scioglierà in lacrime,
perché sarà deportato il gregge del Signore!”
(Ger 13, 17).

Sono le prime lacrime di Dio che troviamo e non saranno le ultime (Cf. Lc 13, 34-35; 19, 41-44; 22, 39-40). Lacrime segrete come di chi piange da solo, perché nessuno è capace di capire e condividere la grandezza del suo dolore. Lacrime segrete, perché nessuno le potrà vedere, perché son lacrime del cuore, dell’intimo di Dio. Lacrime di Dio per la sorte dell’uomo che rischia la distruzione e la morte. Le lacrime sono il “gesto” più struggente di un cuore che ama, e da questo cuore in lacrime nasce una promessa: “Io vi darò pastori secondo il mio cuore!” (Ger 3, 17).

L’immagine del pastore, applicata ai capi, al re e a Dio, è tradizionale nell’Antico Testamento.

I patriarchi, i profeti e i salmisti usano l’immagine del pastore per descrivere il rapporto di Dio con il suo popolo e per delineare la figura del Messia: cf. Gn 49, 24; Os 4, 16; Is 40, 11;44, 28; Ger 23,1-8; Ez 34; Zc 11; Mi 5, 3; Sl 23; 80.

Quest’immagine dell’amore di Dio nella figura del pastore è sviluppata in modo particolare dal profeta Ezechiele. Ezechiele fu uno dei deportati di Nabucodonosor in Babilonia nel 597 a.C.

Nei lunghi anni dell’Esilio poté sperimentare la necessità di opporre all’attività dei falsi pastori d’Israele che sfruttavano il popolo, l’immagine del vero Pastore, Dio stesso, nelle cui mani si trova sicuro il futuro destino d’Israele. L’amore preoccupato e provvidente di Dio-pastore non sopporta che qualche pastore malvagio tratti male le sue pecore e ardisca sfruttarle e portarle alla rovina. Allora alza la voce e minaccia:

Non avete pascolato il ,mio gregge
non avete dato forza alle pecore deboli,
non avete curato le malate,
non avete fasciato quelle ferite,
non avete portato a casa quelle disperse.
Non siete andate in cerca delle smarrite,
ma le avete guidate con crudeltà e violenza.
Per colpa dl pastore si sono disperse
e sono sbandate. Vanno errando.
Nessuno va in cerca di loro,
nessuno se ne cura!”
(Ez 34, 4-6).

Ma, nel presentare Dio come Pastore, il profeta dovette tradurre l’immagine del Dio potente, invincibile, trionfatore di ogni battaglia, nel l’immagine molto più familiare, dolce e mite del Pastore.

Ezechiele ha sviluppato quest’idea in modo tale che il termine sembra già anticipare il passaggio della gloria di Jahvè nel roveto ardente alla gloria di Jahvè ancora più grande e infinitamente umile di Gesù-Signore. Per mezzo dell’immagine del “Pastore”, così ben conosciuta nella vita palestinese, Ezechiele ha anticipato una delle più belle figure del Nuovo Testamento, quella del Buon Pastore; con questo oracolo il profeta ha cominciato a preparare i cuori all’accoglienza del Signore Gesù, che avrà l’audacia di proclamare: “Io sono il buon Pastore“: Ez 34, 11-16; Gv 10, 1-8.

E Gesù lo dice con le stesse parole usate da Ezechiele, in modo che i suoi ascoltatori non potessero dubitare della sua consapevolezza di essere identico al Dio dell’A.T. e di manifestare in sé il Dio della gloria nell’immagine della sua tenerezza, cioè del Pastore.

Gesù-Pastore va in cerca delle sue pecore e si prende cura dì esse, le conduce al pascolo, non risparmia fatica per raccogliere le smarrite (cf. Lc 15, 4-7) e fasciare le loro piaghe, perché è cosciente che il Padre gli ha affidato questa missione. In Gesù “è apparsa la grazia di Dio…, si sono manifestati la bontà di Dio, Salvatore nostro, e il suo amore per gli uomini” (Tito 2, 11; 3 ,4). Così si esprime Paolo nella sua lettera a Tito, pensando forse alla figura del Pastore, nella quale la presenza gloriosa di Dio appare nella sua mansuetudine e dolcezza.

Ecco la Nuova Alleanza, “Alleanza Eterna” del “Pastore grande, il Signore nostro Gesù”, conclusa nel suo sangue (Eb 13, 20). È l’ultima, la più gloriosa manifestazione di benevolenza e misericordia di Dio, preannunciata da Ezechiele, nel suo annuncio dell’era nuova di pace sotto la guida del nuovo Pastore:

“Susciterò per loro un pastore nuovo che pascerà le mie pecore.
Davide mio servo
-che sarà poi la figura di Gesù-
le condurrà al pascolo”
ed “io, il Signore, sono il loro Dio” (Ez 34, 23-24).

Il termine di Jahvè-Signore, lo stesso di Esodo, cap. 6, appare qui in tutta la sua importanza definitiva: il Dio della gloria, creatore del cielo e della terra, si rivela all’uomo nel mistero del suo amore, della sua benevolenza, della sua compassione per chi soffre e geme. E quasi per sottolineare la portata di questo sublime mistero, il profeta ci fa ascoltare di nuovo: “Io, il Signore, ho parlato” (Ez 34, 24).

La parola divina è verità assoluta, che si realizza sempre e dovunque. Così nell’Alleanza che Dio intende stringere con gli esiliati in Babilonia, è anticipata la Nuova Alleanza futura e definitiva di Gesù, Buon Pastore, con la Chiesa, nuovo popolo di Dio, destinato ad estendersi su tutta la terra. Guardando al futuro, il profeta vede già vicino il nostro Pastore, Cristo Gesù. Nella sua divina Persona riscontriamo la sintesi più luminosa dell’antico concetto d’Alleanza conclusa nel segno dell’amore, della tenerezza e della misericordia. Veramente possiamo dire di Lui con il salmista: “La sua tenerezza si espande per tutta la terra” (Sl 145, 9).

E non si limita alla vita di quaggiù: Gesù è il Pastore che ci dona la vita eterna.

Lo stesso Ezechiele, dopo aver abbozzato il grandioso quadro delle ossa inaridite che riprendono vita, ci fa ascoltare la divina parola di risurrezione:

“Ecco, io apro i vostri sepolcri,
vi risusciterò dalle vostre tombe, o popolo mio”
.
Da ciò “riconoscerete che io sono il Signore” (Ez 37, 12-13).

Il Signore che con soffio vitale fa rivivere ciò che è morto, anche là dove speranze umane di rinascita non esistono più, è colui che dirà un giorno, davanti alla tomba dell’amico morto: “Io sono la risurrezione e la vita” (Gv 11, 25).

E non occorre pensare soltanto alla risurrezione finale. Alla luce della visione-parabola di Ezechiele, come alla luce delle parole di Gesù, ogni “risurrezione” dalla morte del peccato può essere interpretata come azione salvifica della misericordia di Dio (cf. T. Beck, Gesù è il Signore, pp. 70-74).

** Dio non è partecipe della nostra impazienza, dei nostri timori né dei nostri impulsi di punizione. È giunta l’ora in cui il silenzio prenderà il posto del grido, e la tenerezza della minaccia, e la misericordia della giustizia.

Gesù di Nazaret, mite e paziente; io vivo pieno di impazienza e di timori. Dammi Tu un cuore dolce e umile; fammi comprendere che la tenerezza guarisce più del castigo, Amen”. (Ignacio Larrañaga).