Convegno internazionale sulla formazione permanente dei sacerdoti organizzato dal 6 al 10 febbraio sul tema “Ravviva il dono di Dio che è in te (2Tm 1,6)”. Sono stati circa 800 i sacerdoti che vi hanno partecipato, provenienti da 60 nazioni, apportando ognuno il proprio contributo di sfide, proposte ed esperienze durante i vari lavori di gruppo, ormai tutti modellati sul metodo sinodale.
Intervento di Chiara D’Urbano
Psicologa e Psicoterapeuta
Convegno sulla formazione sacerdotale
Il mio intervento toccherà due punti:
la formazione permanente che propongo come intervisione, cioè come confronto tra pari.
Secondo: l’espressione integrale, che in parte è il titolo della mia relazione, come nuova attenzione sia alla dimensione affettiva del presbitero che alla responsabilità dell’ambiente circostante.
Ci tengo molto a questa attenzione congiunta presbitero e ambiente circostante. In entrambi i punti emergerà l’urgenza del dover ripensare la formazione permanente.
Dico subito che all’espressione formazione permanente, preferisco quella di accompagnamento. Accompagnamento continuativo e reciproco.
Perché Formazione permanente mi sembra che rimandi a un modo unilaterale di intendere il tempo che segue l’ordinazione sacerdotale. Da una parte c’è il soggetto che fornisce la prestazione, scusate l’espressione, forse poco elegante, prestazione spirituale, psicologica o culturale, dall’altra c’è il destinatario.
La diocesi, l’Istituto, l’equipe formativa in genere sono gli organizzatori di giornate di ritiro, esercizi spirituali, incontri con un esperto, mentre il sacerdote è il ricevente. La riuscita di questi progetti formativi ricade quindi sulla combinazione di una buona offerta e di una risposta che deve essere consapevole e responsabile, cioè il sacerdote deve aderire e partecipare a quanto viene organizzato. Questo modo di leggere e organizzare la formazione permanente è ovviamente valido, ma insufficiente, non è integrale come i diretti interessati spesso riportano.
Ecco, condivido qualche espressione che raccolgo nella mia esperienza: «Questi incontri non toccano la vita, non è quello di cui abbiamo bisogno». Si verifica infatti talvolta uno scollamento o comunque uno scarto tra la cosiddetta formazione permanente, come viene compresa e proposta, e la vita reale con le sue complessità, soprattutto nell’epoca attuale.
Da qui l’urgenza di ripensamento.
Parlando in termini di sistemi motivazionali, nulla di troppo tecnico, spero. Cioè quell’insieme universale e naturale di attività mentali che regolano comportamenti ed emozioni in vista di una meta, la formazione permanente, almeno nella comprensione classica, mi pare che sia orientata prevalentemente dal cosiddetto sistema di accudimento, quello che muove il caregiver a prendersi cura dei membri più deboli del proprio gruppo, il bambino, il cucciolo. Si potrebbe dire, tu hai bisogno perché sei vulnerabile e io ti soccorro. E dal sistema chiamato di rango. Tu non sai abbastanza e io ti offro del materiale competente essendo più preparato di te. Entrambi questi sistemi ovviamente sono indispensabili, quindi molto significativi. Molto meno però si attiva il sistema cooperativo paritetico. Il sistema cooperativo paritetico per cui insieme ai diretti interessati si cerca di ascoltare cosa possa essere veramente utile per loro.
In termini di sistema cooperativo, si potrebbe dire: «Quando hai un obiettivo importante da raggiungere, cerca un tuo simile che abbia il tuo stesso obiettivo e mettiti d’accordo con lui per cercare di raggiungerlo insieme».
Il sistema cooperativo spinge due membri della stessa specie, in questo caso diocesi, istituto e presbiteri, che condividono un obiettivo comune: il benessere dei sacerdoti. Perché è a questo che è rivolta a tutta la riflessione: il benessere dei sacerdoti. Come dicevo, non facciamo solo teoria.
Con questo convegno si pone proprio questa prospettiva, insieme, confrontandoci da prospettive diverse e interculturali, si possono tirare fuori idee e proposte, insieme. D’altro canto, mi sembra essere debole, ma semplicemente perché poco allenato, un altro sistema tipicamente umano, quello chiamato: inter-soggettivo, che spinge la persona a condividere solo per la gioia di farlo.
Se questo interessa a me può interessare anche te.
L’attitudine alla condivisione tra i presbiteri di uno stesso territorio, che significa ascolto e confronto tra pari sia per il gusto di stare insieme sia per pensare come gruppo una modalità di accompagnamento reciproco, mi pare piuttosto fiacca, almeno in Europa.
Solo che questa disposizione a condividere non si può improvvisare, va preparata nel tempo. Fin dall’inizio del cammino vocazionale la persona dovrebbe sentirsi coinvolta attivamente nella sua formazione, per poi esserlo successivamente fuori dalla struttura formativa.
Cioè il seminarista dovrebbe riuscire a pensarsi, fin dall’inizio, come soggetto agente e non come semplice ricevente. E così sviluppare un senso di appartenenza, mi piace questa espressione, appartenenza alla missione, alla diocesi, all’Istituto, perché la vocazione, ogni vocazione non è individuale, non è per sé stessi e solo insieme può essere portata avanti. Oggi, più che in altri periodi storici, nessuna vocazione ce la fa da sola. Assumere una prospettiva più collaborativa e inter-soggettiva significa quindi sganciare il tema dell’accompagnamento da un atteggiamento che rischia di essere paternalistico per far sperimentare ancora di più ai sacerdoti la bellezza di sentirsi protagonisti della propria chiamata.
Secondo punto che mi sta molto a cuore, lo si inserisce bene nel nostro itinerario: l’aspetto dell’affettività.
L’urgenza e l’integralità dell’accompagnamento nel dopo formazione iniziale incontra necessariamente questa dimensione. Raccogliendo le esperienze dei sacerdoti dell’età più diverse e dei giovani, in effetti quello dell’affettività è uno dei temi emergenti. Ineludibili. Che non possiamo tacere. E in effetti oggi si avverte il bisogno di far uscire dal silenzio, come diceva anche madre Marta questa mattina, tutto quello che appartiene al mondo di essere e di amare, di stare in relazione, di stringere amicizie del sacerdote. L’affettività è questo: essere, voler bene, amare, stare in relazione. Tuttavia, non possiamo concentrarci nuovamente solo sull’individuo senza allargare la riflessione, anche all’ambiente, chiesa e comunità cristiana. Tutti noi, anche laici perché l’ambiente condiziona la comprensione dell’affettività del presbitero, c’è una corresponsabilità che va tenuta sempre presente.
Cosa ci si attende da voi sacerdoti? Quale modello sacerdotale la società, il mondo, la Chiesa ha in mente?
Quali caratteristiche dovrebbe avere o non avere il sacerdote di questo millennio? Penso che siano domande urgenti, appunto, perché sono quelle che orientano lo sguardo del presbitero su sé stesso, ma anche il nostro sguardo, quello della comunità, su di lui. E di conseguenza condizionano sia la formazione iniziale che quella successiva. Per molto tempo la figura del sacerdote è stata caricata di un idealismo, non un’idealità. Un idealismo schiacciante. Siamo usciti finalmente o stiamo uscendo, ce lo auguriamo, dall’idea del sacerdote senza corpo e senza passioni umane che si dedica agli altri privo di esigenze personali: riposo, desideri, amicizie, svago, affetti.
Non facciamo del bene come comunità, come laici, come Chiesa, a idealizzare così il sacerdote, perché lo costringiamo a stare dentro una forma fittizia. Vi imponiamo un giogo pesante e ingiusto.
Dal sacerdote ci si aspetta che debba essere sempre disponibile, sempre di buon umore, capace tanto di organizzazione quanto di economia perdendo di vista non solo la dimensione di fede che fonda questa vocazione, per cui il sacerdote non è un manager, non è un imprenditore, ma soprattutto la sua umanità, che condivide con gli altri uomini e donne. Il sacerdote soffre, il sacerdote può fallire e può stare male come ogni essere umano, fino, talvolta, a gesti estremi come il suicidio. Non dobbiamo scandalizzarci di questo. L’umanità rimane un dono, non un limite. Nulla che sia umano mi è estraneo, scriveva Terenzio, Commediografo Romano.
Teniamo inoltre presente che il celibato spesso viene additato come colpevole quando ci sono situazioni di crisi, ma non è così. Così come all’orientamento omoaffettivo viene spesso attribuita la radice dei disagi della vocazione presbiterale, mentre è la non integrazione del mondo degli affetti e delle relazioni a compromettere l’equilibrio della persona. Mi sta a cuore questo passaggio. È la non integrazione del mondo degli affetti e delle relazioni a compromettere l’equilibrio della persona.
Ripensare la dimensione affettiva, della formazione permanente o dell’accompagnamento continuativo significa quindi interrogarci come chiesa, anche come laici sulla figura del sacerdote del terzo millennio: Ma chi è il sacerdote del terzo millennio? Qui la porta delle scienze umane è irrinunciabile. Dobbiamo fare lo sforzo di mettere in dialogo sempre l’antropologia cristiana con le scienze umane, perché ci aiutano a comprendere attraverso quali coordinate passa l’equilibrio della persona. E quali sono necessarie perché l’affettività, quindi anche quella del presbitero, possa essere integrata nella scelta vocazionale.
Ho individuato per brevità solo alcune coordinate molto concrete che favoriscono l’integrazione dell’affettività mantenendo sempre l’attenzione duale sia sulla persona che sull’ambiente circostante così da non caricare l’individuo di tutta la responsabilità della sua riuscita e del suo benessere vocazionale. Condividiamo anche la responsabilità di ciascuna vocazione come comunità umana, prima di tutto.
La prima coordinata riguarda la conoscenza di sé che è sostenuta dalla possibilità di aprirsi, di poter parlare di sé con persone di fiducia su affetti, sessualità, orientamento sessuale. Senza timore di giudizi.Senza paure. I non detti, per paura, rimangono non accompagnati. Dove non c’è la luce non passa neanche la Grazia. Più la persona è messa in condizione di conoscersi e di aprirsi, meno dovrà mettersi sulla difensiva, magari nascondendo aspetti personali che teme sarebbero giudicati male e meglio sarà accompagnata nella sua vocazione.
I sacerdoti proprio in quanto esseri umani che hanno una buona conoscenza e una buona alleanza con la propria affettività, sono meno a rischio di crisi o burnout. Una buona conoscenza e una buona amicizia, direi con la propria affettività.
L’altro polo è l’ambiente. È necessario che chi accompagna sia preparato al compito. La conoscenza riduce timori e pregiudizi, non servono degli esperti, dei tecnici, servono però persone che sappiano essere accoglienti e aperte, che non si scandalizzino rispetto ai processi nuovi del nostro tempo.
Lo stesso impegno, lo ripeto, dovrebbe essere della comunità cristiana che va formata alla comprensione della figura del presbitero.
La seconda coordinata che ho individuato riguardo all’integrazione dell’affettività è la capacità relazionale. Saper creare buone e affettuose relazioni trasversali, non solo formali o d’ufficio o lavorative. Relazioni affettuose tanto con confratelli che con persone esterne favorisce una affettività serena, realizzata e armoniosa. Anche per quanto dicevo sull’accompagnamento visto come in televisione, cioè come condivisione e sostegno reciproco. E poi è necessario che i sacerdoti abbiano tra di loro relazioni di stima e di fiducia reciproca, è indispensabile. Consentitemi di condividere l’esperienza prevalente, ovviamente dalla mia prospettiva, è che nella vita dei presbiteri ci sono sì amicizie buone tra confratelli ma c’è anche tanta solitudine e diffidenza che rende difficile, almeno allo stato attuale, immaginare un dopo formazione collaborativo in scambio fra pari, cioè fra confratelli. Ecco, anche in questo caso, se la persona certamente ha la sua parte di responsabilità, di nuovo c’è anche l’ambiente che può favorire o meno lo spirito di iniziativa personale, consentire margini di libertà e autonomia o essere rigido. Aiutare i giovani, per età o per cammino ormai, a maturare legami di amicizia, amicizia indispensabile anche tra seminaristi per la fiducia tra i confratelli in futuro. Oppure guardare con sospetto, come in un recente passato, guardare con sospetto le amicizie.
Concludo e insieme propongo una sintesi.
Ripensare la formazione permanente o l’accompagnamento continuativo vuol dire confrontarsi con una profonda riflessione culturale. Non solo per il cambiamento d’epoca che stiamo vivendo, ormai l’abbiamo sentito più volte ma anche perché l’esperienza degli ultimi decenni ci sta aiutando a restituire al presbitero il suo essere prima di tutto un uomo e poi un uomo chiamato che porta avanti un servizio. Il suo star bene, il suo essere felice, la felicità è un tema che mi sta molto a cuore, è un tema molto serio nella vita umana e cristiana, non è un lusso. Il tema della felicità dipende sì dalla maturità personale ma anche, sia da una sana dimensione fraterna, perchè nessuno nella vita senta di procedere da solo, sia dalla presenza di ambienti comunitari che sappiano guardare al presbitero come uomo di Dio, ma anche nella bellezza e nella ricchezza della sua umanità.