II Domenica di Quaresima (B)
Marco 9,2-10
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli.
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù. Prendendo la parola, Pietro disse a Gesù: «Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elia». Non sapeva infatti che cosa dire, perché erano spaventati. Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro.
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.
Il Volto ‘trasfigurato’ non vuole volti ‘sfigurati’
Romeo Ballan, mccj
“Chi è Gesù?” La domanda essenziale di tutto il Vangelo di Marco (Mc 1,1.11.24; 2,10-11; 8,29; 15,39) trova una risposta nella Trasfigurazione di Gesù (Vangelo). L’antifona d’ingresso ci offre una chiave di lettura dei testi biblici e liturgici di questa domenica: “Cercate il suo volto. Il tuo volto io cerco, o Signore. Non nascondermi il tuo volto” (Sal 26,8-9). Una risposta a tale insistente supplica arriva da un “alto monte, in disparte”, dove Gesù “fu trasfigurato” davanti a tre discepoli prescelti: “le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche” (v. 2-3). Marco insiste sullo splendore luminoso, che mette in evidenza l’identità di Gesù. La luce non viene da fuori, ma emana dal di dentro della persona di Gesù. A ragione, Luca, nel testo parallelo, sottolinea che Gesù “salì sul monte a pregare. Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto” (Lc 9,28-29). È dal rapporto con il Padre che Gesù è dinamicamente trasformato: la piena identificazione con il Padre risplende sul volto del Figlio.
Il cammino di trasformazione interiore è lo stesso per Gesù e per il cristiano: la preghiera, vissuta come ascolto-dialogo di fede e di umile abbandono a Dio, ha la capacità di trasformare la vita del cristiano e del missionario. Infatti, la preghiera è l’esperienza fondante della missione. Tale è stata anche l’esperienza di Pietro, sicuro di non essere andato “dietro a favole artificiosamente inventate”, essendo stato uno dei tre “testimoni oculari… mentre eravamo con Lui sul santo monte” (2Pt 1,16.18). Pur in mezzo a confusione e spavento (v. 6), Pietro grida la gioia di quella esperienza così unica: “è bello per noi essere qui” (v. 5). Pietro avrebbe voluto evitare quel misterioso “esodo” a Gerusalemme, di cui parlavano Mosè ed Elia con Gesù (Lc 9,31); avrebbe voluto congelare quella esperienza, fermare nel tempo quella bella visione del Regno (v. 5) come una perenne “festa delle capanne” (Zc 14,16-18). Superata la crisi della passione, l’amicizia con Gesù confermò la vocazione e la dedizione di Pietro per una missione coraggiosa di annuncio, fino al martirio.
Pietro ha dovuto uscire dai suoi schemi mentali per entrare nel modo di pensare di Dio (Mt 16,23). Lo stesso è avvenuto con Abramo, del quale la seconda domenica di Quaresima ci presenta sempre una delle vicende emblematiche: la chiamata, l’alleanza, il figlio Isacco. Egli capì che non doveva seguire la prassi dei sacrifici umani assai diffusa presso i popoli vicini (moabiti, ammoniti e altri). Il messaggio del racconto (I lettura) è chiaro: «Il primo insegnamento, il più evidente e immediato, è che il Dio d’Israele ripudia, come un crimine abominevole, il sacrificio dei bambini. È sempre stata una caratteristica degli idoli quella di pretendere sacrifici umani. Il Dio d’Israele, invece, arrestando il braccio di Abramo che stava per colpire il figlio, ha mostrato di essere il Signore che ama la vita (Sap 11,26), colui che dà a tutti la vita (At 17, 25) e non vuole la morte di alcuno (Ez 18,32)» (F. Armellini). Analizzando il racconto del sacrificio di Isacco con i criteri dell’inculturazione missionaria, risulta evidente come la Parola di Dio valuta, giudica, corregge, purifica i costumi dei popoli.
La vicenda del sacrificio di Isacco segna la fine della religione del sacrificio e il passaggio alla fede come dono. Quella mano fermata, quel pugnale di Abramo sospeso in aria ci insegnano che il Dio vero non vuole sacrifici umani né versamento di sangue. Non è lecito uccidere nessuno in nome di Dio, o di qualunque religione, dei fondamentalismi religiosi, dei giochi di potere, del sistema, dell’economia! Isacco non sarà sacrificato, mentre Gesù, l’Innocente, sarà vittima di un complotto religioso basato su false interpretazioni riguardo al Dio vivente. La morte di Gesù ci mostra la logica dell’amore fino alla fine (Gv 13,1), la logica del dono, del seme che muore e poi rifiorisce e risorge. A garanzia del primato della vita!
Il volto trasfigurato e affascinante di Gesù è un preludio della sua realtà post-pasquale e definitiva; la stessa che è promessa anche a noi: «Quel corpo, che si trasfigura davanti agli occhi attoniti degli apostoli, è il corpo di Cristo nostro fratello, ma è anche il nostro corpo chiamato alla gloria; quella luce che lo inonda è e sarà anche la nostra parte di eredità e di splendore. Siamo chiamati a condividere tanta gloria, perché siamo ‘partecipi della natura divina’ (2Pt 1,4). Una sorte incomparabile!» Così lasciò scritto Paolo VI nel messaggio che avrebbe dovuto pronunciare all’Angelus di domenica 6 agosto 1978, festa della Trasfigurazione, poche ore prima di morire alla sera di quello stesso giorno.
La dignità di ogni persona umana – che per nessun motivo deve soffrire deturpazione – trova il suo fondamento nella vocazione alla vita e alla gloria. Purtroppo il volto di Gesù è spesso sfigurato in tanti volti umani: «Questa situazione di estrema povertà generalizzata acquista nella vita reale dei lineamenti molto concreti, nei quali dovremmo riconoscere le sembianze del Cristo sofferente, del Signore che ci interroga e ci interpella» (I Vescovi latinoamericani nel documento di Puebla, Messico, 1979, n. 31). E i vescovi presentano a continuazione una sequenza di deturpazioni: volti di bambini malati, abbandonati, sfruttati; volti di giovani disorientati e sfruttati; volti di indigeni e di afroamericani emarginati; volti di campesinos abbandonati e sfruttati; volti di operai mal retribuiti, disoccupati, licenziati; volti di anziani emarginati dalla società familiare e civile (cfr. documento di Puebla, n. 32-43). E la lista potrebbe continuare con le situazioni che ognuno conosce nel proprio ambiente e a livello mondiale. Qualunque volto deturpato, chiunque sia, è un appello pressante, rivolto a ciascuno di noi, ai responsabili delle nazioni, ai seguaci e missionari del Vangelo di Gesù.
OSCURITÀ, O ECCESSO DI LUCE?
Lo confesso. Stavolta gli studiosi mi hanno deluso. Questo episodio, è evidente, li imbarazza notevolmente, li spiazza rispetto alle loro prospettive abituali. Si direbbe facciano fatica, col fiato corto che si ritrovano, ad arrancare su per questo «alto monte». E, una volta arrivati lassù, a quell’altezza, gli strumenti risultano «impazziti», non servono a misurare la luce e a registrare la voce.
Non vorrei essere ingiusto nei loro confronti. Ma ho l’impressione che dell’episodio della trasfigurazione farebbero volentieri a meno.
Il guaio è che il Signore decide in base alle esigenze della propria missione e dei suoi apostoli e pare non preoccuparsi eccessivamente delle seccature provocate a quelli che dovranno commentare gli avvenimenti.
Ed eccoli a discutere sulla natura dell’episodio: fatto reale, allucinazione, suggestione dei discepoli, visione sul tipo di quelle di Giovanna d’Arco, leggenda, narrazione simbolica, apparizione pasquale «anticipata» a questo punto da Marco per le sue ragioni teologiche…
Non è il caso di stare a esaminare le varie ipotesi. Mi limito a una considerazione elementare.
Ogni interpretazione proposta ha bisogno, per reggersi, di eliminare qualche particolare della narrazione che non va d’accordo con la spiegazione addotta.
Ho provato a fare un esperimento semplicissimo: cancellando, ad uno ad uno, tutti i particolari «inconciliabili» con le varie tesi, si scopre, alla fine, che del racconto si salvano soltanto i nomi di Gesù, Pietro, Giacomo e Giovanni, oltre a quelli di Mosè ed Elia (ma, per questi ultimi, ci sono difficoltà di sistemazione).
Allora, non sarebbe il caso di accettare, senza tante complicazioni, il fatto storico che oltre al resto avrebbe il vantaggio di andar d’accordo con tutti i dettagli della narrazione?
Tanto più che non è necessario essere degli esperti per rendersi conto che le parole di Pietro («Maestro, è bello per noi essere qui; facciamo dunque tre tende…»), con quel timbro di ingenuità, rassomigliano parecchio al suo temperamento e non si adatterebbero a un racconto in chiave mitologica o simbolica. Quella frase, così spontanea, così «sbagliata», così fuori luogo, come pure il commento non certo lusinghiero che provoca («non sapeva che cosa dicesse»), si adattano perfettamente soltanto a un episodio realmente accaduto e che viene riferito così come si è svolto.
Non c’è paragone. Meglio, senza dubbio, le pagine di san Giovanni della Croce, che quelle di parecchi eruditi. I mistici si trovano più a loro agio sul monte della trasfigurazione che non gli studiosi. I loro balbettamenti risultano molto più convincenti delle dotte e complicate spiegazioni degli esperti.
Sul Tabor (ammesso si tratti veramente del Tabor), i contemplativi stanno nel loro ambiente familiare. Gli eruditi, invece, si muovono impacciati e non vedono l’ora di chiudere questa divagazione tra le nuvole.
Il motivo mi pare piuttosto evidente.
Lo studioso parte dal proprio cervello per aggredire e illuminare il mistero.
Il mistico parte dal mistero per aiutare e rischiarare la propria intelligenza.
Per questo il primo, di fronte al mistero, si ritrova al buio.
Mentre il secondo si sente stordito, fuori di sé, ma per un eccesso di luce.
Il dottore si lamenta perché non capisce niente, e allora si sforza di spiegare, discutere, analizzare, chiarire, ridimensionare.
Il contemplativo, normalmente, tace perché ciò che vive non è esprimibile con le parole.
«…Facciamo dunque tre tende…»
Strano destino quello di Pietro «progettista», Si direbbe che non ne azzecchi una.
Poco prima, in occasione della rivelazione da parte del Cristo dell’itinerario che conduce al Calvario, ha la pretesa di tracciare per il Maestro una strada «diversa», non riuscendo a capire che la strada è già stata tracciata con largo anticipo da Dio. (e la risposta sarà: vai via Satana!).
Propone l’installazione di tre tende, senza avvedersi che la nube è più adatta allo scopo.
Interpreta la visione come segnale di riposo (e vorrebbe organizzarsi in tal senso), mentre essa costituisce un segnale di partenza, un invito a camminare (mentre lui non è pronto).
Non dobbiamo scandalizzarci se qui viene aggiunto un altro tratto caratteristico del discepolo: oltre a essere «uno che non capisce» (un tema che ritorna con insistenza nel vangelo di Marco) è anche «uno che non sa quello che dice».
No. Non è questione di umiliare il discepolo. Semplicemente, si tratta di precisare, correggere continuamente la sua posizione rispetto alle parole del Maestro.
«Ascoltatelo!»
Vero discepolo è colui che sa ciò che dice il Maestro.
«… E dalla nube venne una voce: Questi è il mio Figlio, il diletto, ascoltatelo!»
La parola celeste costituisce il punto culminante di tutto l’avvenimento. Oltre a rinnovare il riconoscimento divino del proprio Figlio – come al battesimo -, inserisce un elemento nuovo: «ascoltatelo».
Dio in persona offre la propria garanzia ai rappresentanti dei discepoli: Gesù, suo Figlio, il diletto, é il Profeta che devono ascoltare (ascolto-ubbidienza). Devono prendere sul serio le sue parole, anche quando parla di sofferenza. Devono seguirlo su un cammino che, attraverso la croce, conduce alla gloria.
Forse, a questo punto, Pietro comincia a comprendere l’assurdità della sua parola che voleva dissuadere Gesù dall’intraprendere quell’itinerario doloroso.
«Ma, all’improvviso, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo».
Si guardavano attorno perché, probabilmente, aspettavano ancora qualche altra manifestazione eccezionale. Ma, tornando a fissare lo sguardo su Gesù, lo ritrovano «solo», non più trionfante, ma nel suo aspetto ordinario.
Il velo che – come nota V.Taylor – è sempre steso sulla persona di Gesù, è stato strappato da Dio. Per un attimo gli apostoli hanno intravisto il segreto della sua grandezza. Adesso il velo torna a chiudersi.
La peregrinazione continua. Ma, d’ora in poi, il cammino risulterà illuminato da questo lampo di luce che hanno captato sulla montagna.
Bisogna ridiscendere. E fanno, forse, più fatica che a salire.
Tutto continua come prima. E loro continuano a non capire (stavano discutendo «tra loro che cosa mai volesse dire risuscitare dai morti»).
Tuttavia quel lampo, unito alla luce che ritroveranno dopo la Pasqua, costituirà un elemento importante della loro guarigione dalla cecità, e li aiuterà a familiarizzarsi sempre più col mistero.
Le realtà dolorose non vengono per nulla eliminate, anzi sono confermate esplicitamente. Tuttavia non potranno più essere separate da quella luce.
Gli apostoli, soprattutto, si rendono conto che l’esperienza fatta, pur essendo qualcosa di decisivo, non potrà mai considerarsi terminata.
Rabbí Judah era solito spiegare: «La luce che il santo Benedetto creò il primo giorno doveva servire all’uomo per contemplare il mondo da un estremo all’altro. Ma il santo Benedetto vide la generazione del diluvio e la generazione della Torre di Babele la cui condotta era degenerata; allora decise di nasconderla e di riservarla ai giusti per il mondo futuro».
- Signore, non appartengo alla generazione del diluvio.
- Ma neppure ho la pretesa di stare nella categoria dei giusti.
- Quanto alla Torre di Babele, da tempo ho rinunciato a quel progetto.
- Che ne diresti di fornirmi una minuscola quantità di quella luce che tieni nascosta e inutilizzata? Me ne basta poca. Una luce sufficiente a districarmi nella confusione della mia vita.
- Nel mondo futuro, di luce penso ce ne sarà in abbondanza.
- E’ per il presente che ne avvertiamo una paurosa scarsità.
- Signore, riconoscere di trovarsi al buio, è già un dono di luce?
Alessandro Pronzato (?)
Così il Signore ha sognato il volto dell’uomo
Ermes Ronchi
Dall’abisso di pietre al monte della luce, dalle tentazioni nel deserto alla trasfigurazione. Le prime due domeniche di Quaresima offrono la sintesi del percorso che la vita spirituale di ciascuno deve affrontare: evangelizzare le nostre zone d’ombra e di durezza, liberare tutta la luce sepolta in noi. In noi che siamo, assicura Gesù, luce del mondo. Guardate a lui e sarete raggianti e non avrete più volti oscuri, cantava il salmista.
Aveva iniziato in Galilea la sua predicazione con la bella notizia che il regno di Dio si è fatto vicino; convertitevi, diceva, e credete che Lui è qui e guarisce la vita. Oggi il Vangelo mostra gli effetti della vicinanza di Dio: vedere il mondo in altra luce e reincantare la bellezza della vita.
Gesù porta i tre discepoli sopra un monte alto. La montagna è la terra che penetra nel cielo, il luogo dove si posa il primo raggio di sole e indugia l’ultimo; i monti sono, nella Bibbia, le fondamenta della terra e la vicinanza del cielo, il luogo che Dio sceglie per parlare e rivelarsi. E si trasfigurò davanti a loro. E le sue vesti divennero splendenti, bianchissime. Anche la materia è travolta dalla luce. Pietro ne è sedotto, e prende la parola: che bello essere qui, Rabbì! Facciamo tre capanne. L’entusiasmo di Pietro, la sua esclamazione stupita: che bello! ci fanno capire che la fede per essere pane nutriente, per essere vigorosa, deve discendere da uno stupore, da un innamoramento, da un “che bello!” gridato a pieno cuore. Avere fede è scoprire, insieme a Pietro, la bellezza del vivere, ridare gusto a ogni cosa che faccio, al mio svegliarmi al mattino, ai miei abbracci, al mio lavoro. Tutta la vita prende senso, ogni cosa è illuminata: il male e il buio non vinceranno, il fine della storia sarà positivo. Dio vi ha messo mano e non si tirerà indietro.
Ciò che seduce Pietro non è lo splendore del miracolo o il fascino dell’onnipotenza, ma la bellezza del volto di Gesù, immagine alta e pura del volto dell’uomo, così come lo ha sognato il cuore di Dio. Intuisce che la trasfigurazione non è un evento che riguarda Gesù solo, ma che si tratta di un paradigma che ci riguarda tutti e che anticipa il volto ultimo dell’uomo, è «il presente del nostro futuro» (come Tommaso d’Aquino chiama la speranza).
Infine il Padre prende la parola ma per scomparire dietro la parola del Figlio: «Ascoltate Lui». Sali sul monte per vedere e sei rimandato all’ascolto. Scendi dal monte e ti rimane nella memoria l’eco dell’ultima parola: Ascoltate Lui. Nostra vocazione è liberare, con gioiosa fatica, tutta la bellezza di Dio sepolta in noi. E il primo strumento per la liberazione della luce è l’ascolto della Parola.
Ascoltate lui, il Figlio amato!
Enzo Bianchi
La seconda domenica di Quaresima è tradizionalmente la domenica della trasfigurazione di Gesù, ovvero il polo opposto alla prima, dedicata alle tentazioni di Gesù. Quest’anno leggiamo il racconto presente nel vangelo secondo Marco, e siccome abbiamo commentato ormai tantissime volte l’inesauribile mistero della trasfigurazione del Signore, ci prenderemo anche un po’ di libertà, per dire qualcosa su alcuni interventi critici riguardo al linguaggio e allo stile di papa Francesco.
Ma iniziamo con il contestualizzare l’evento: un evento storico, non un mito! Al centro del vangelo Gesù ha fatto per la prima volta alla sua comunità l’annuncio della sua passione, morte e resurrezione ormai prossime, suscitando l’incomprensione da parte di Pietro (cf. Mc 8,31-33), e ha anche detto con forza alla folla che la sequela deve passare attraverso la croce (cf. Mc 8,31-37). Il discepolo di Gesù non può pensare di essere esente dalla croce, non può rifiutarla come scandalo e vergogna, perché, se si vergognerà di Gesù crocifisso, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui alla sua venuta gloriosa (cf. Mc 8,38). Venuta gloriosa che chiuderà la storia, ma della quale – annuncia Gesù stesso – alcuni potranno vedere un’anticipazione (cf. Mc 9,1).
“Sei giorni dopo” queste parole, dunque nel settimo giorno, “Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni”, i discepoli a lui più vicini e intimi (testimoni della resurrezione della figlia di Giairo: cf. Mc 5,37; testimoni dell’agonia di Gesù, della sua de-figurazione nell’orto del Getsemani: cf. Mc 14,33), “e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli”. Ed ecco il grande mistero: Matteo scrive che “il suo volto brillò come il sole” (Mt 17,2), Luca che “l’aspetto del suo volto divenne altro” (Lc 9,29). Marco invece è molto discreto, ci dice solo che Gesù “fu trasfigurato (metemorphóte) davanti a loro”, per un’azione divina (espressa al passivo), e così “le sue vesti divennero splendenti, bianchissime, tanto che nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche”.
Ciò che è avvenuto è indicibile, chi può descriverlo adeguatamente? Qui Marco, affinché il lettore comprenda la straordinarietà dell’evento, si serve di un’immagine efficace, espressa in modo semplice, in vernacolo, facendo uso di uno stile che ci può anche sorprendere. L’evangelista più antico parla un greco semplice, non padroneggia questa lingua in modo tale da renderla elegante, come invece fa Luca, e per questo si serve del paragone, appena citato, con il lavoro del lavandaio. Certamente i tre evangelisti sinottici, pur con le loro differenze di stile, non sapevano narrare la trasfigurazione di Gesù con la profondità teologica dei padri della chiesa greca, quando leggeranno questo bianco splendente come “energie increate” presenti nel corpo di Gesù, il Figlio di Dio. Tuttavia il messaggio di Marco ha la stessa qualità teologica degli altri due, e la teofania da lui presentata non risulta più povera o mancante.
Evidenzio questo, pensando al modo di esprimersi di papa Francesco, criticato e spesso anche disprezzato perché a volte si esprime effettivamente in vernacolo, in modo da essere capito da tutti, servendosi di un linguaggio semplice, lontano dal dettato di una lezione teologica. Attenzione, dunque, e “chi ha orecchi per ascoltare, ascolti!” (Mc 4,9), come Gesù ha più volte ripetuto…
Il bianco è la luce, è il colore del mondo celeste (cf. Dn 7,9), del cielo aperto, e niente sulla terra gli si avvicina. Anche gli angeli della resurrezione (cf. Mc 16,5 e par.; Gv 20,12) e quelli dell’ascensione al cielo, secondo l’iconografia tradizionale, sono vestiti di bianco. Insomma, luminosità straordinaria! Gesù appare dunque trasfigurato, e dal suo corpo emana luce, come la emanava il volto di Mosè (cf. Es 34,29-35), come la emana il Figlio dell’uomo nelle visioni apocalittiche di Giovanni (cf. Ap 1,12-16). Accanto a Gesù “apparve Elia con Mosè, e conversavano con Gesù”: la Profezia e la Legge, delle quali Gesù è interprete e compimento.
Di fronte a tale “visione”, Pietro parla in modo inappropriato, balbetta, non sa cosa dire, se non che occorrerebbe fermare, arrestare quell’evento, renderlo definitivo. Così tutto sarebbe compiuto senza la passione e la croce… Ma questo “congelamento” dell’esperienza non è possibile, e infatti una nube luminosa copre tutti i presenti, mentre una voce proveniente da essa proclama: “Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!” (cf. Sal 2,7; Gen 22,2; Dt 18,15). Se al battesimo la voce del Padre era risuonata solo per Gesù (cf. Mc 1,11), qui invece la rivelazione è anche per i tre discepoli. E l’invito è quello decisivo per ogni discepolo di Gesù, di ogni tempo: occorre ascoltare lui, il Figlio, che è il Kýrios, il Signore! Ascoltare lui, non le proprie paure, non i propri desideri, non le proprie immagini e proiezioni su Dio. Sì, anche per vedere e ascoltare Dio (“Shema‘…”: Dt 6,4) ormai occorre vedere e ascoltare Gesù.
E subito dopo nessuna luce, nessuna voce, nessuna presenza: solo Gesù con i tre discepoli, Gesù con loro come lo era stato sempre. Un uomo, un compagno che scende dal monte per compiere il suo cammino verso Gerusalemme, verso la morte che attende ogni giusto, ogni vero figlio di Dio.
Senza tende
Antonio Savone
Cospargendo il nostro capo di cenere per ricordare che solo Dio può trarre vita dalla nostra pochezza. Lo abbiamo seguito nel deserto della tentazione, dove abbiamo imparato a riconoscere i falsi miraggi del potere, dell’amore di sé e della scorciatoia del magico. Oggi ci lasciamo condurre sul monte e lì gustare qualcosa della bellezza di Dio, della bellezza del vivere per il vangelo e secondo il vangelo. Viene per tutti, infatti, come per Abramo, il momento in cui ci chiederemo: Dio è per noi o contro di noi? Non univoca è la risposta.
Accadrà così anche per la vicenda di Gesù: alcuni contempleranno in lui e nella sua passione e morte la rivelazione stessa di Dio, altri resteranno scandalizzati. E io da che parte starò? Forse, come i discepoli sul monte vorremmo guardarci attorno per vedere se ci saranno altri, se ci sarà qualcos’altro a sostenere la nostra fede. Ma ancora una volta non resterà che Gesù, solo, un Gesù dell’ordinarietà, quello della discesa dal monte. Quello sarà il momento in cui imparare a guardare a lui che ci educa nel cammino di discesa. Guardare a lui significa non anteporre le nostre attese personali al progetto di Dio.
Quanto ci impersona quel Pietro sul Tabor che interviene sempre per avanzare proposte e comunque mettersi avanti! La tentazione di Pietro è anche la nostra. Ci è difficile uscire dal tempo e dalle categorie del fare, dalla logica delle prestazioni e dell’utilità. Pietro non regge alla rivelazione sul monte e vorrebbe trovare una via d’uscita, incurante di quanto sta accadendo lì davanti ai suoi occhi mentre Gesù è a colloquio con Mosè ed Elia. Pietro sfugge a quel Gesù che, secondo altri evangelisti, sta parlando del suo esodo, di quello che di lì a poco gli accadrà. La conosciamo sulla nostra pelle la tentazione di sfuggire a quei momenti che ci chiedono di stare a contatto con la verità di noi stessi, con la verità di Dio. Pietro pensa alla tenda! Non sapeva, infatti, quel che diceva!
La voce dal cielo chiede ai tre sul monte e a tutti noi di ascoltare Gesù e di smetterla di fare cose che non hanno senso. Pietro che fatica a prestare ascolto, farà ancor più fatica nei giorni della passione quando per andar dietro ai suoi progetti, non tarderà a rinnegare e tradire il Maestro perché non condividerà le sue scelte. Pietro vorrebbe circoscrivere Dio alla misura della sua tenda ma non ha capito che non si muove un passo nel cammino della fede finché non si acconsente di entrare nella tenda di Dio così come egli ha scelto di manifestarsi.
È difficile fidarsi del progetto di Dio. Arriva un momento in cui gli stessi discepoli scoprono che non basta aver lasciato le barche e il padre un bel giorno. Non basta entrare una volta nel progetto di Dio: è necessario restarvi, soprattutto quando si ha l’illusione o la pretesa di sapere già cosa egli desideri, quale strada percorrere o il modo in cui si manifesterà. È vero: corriamo il rischio di parlare a vanvera, proprio come Pietro che fatica ad aderire al reale, afferrato com’era dallo spavento. Mettersi nelle mani di Dio, tenere occhi e cuore sempre desti, accettare di lasciarsi sorprendere continuamente da lui non è affatto scontato e soprattutto non è affatto facile. Ma è proprio ciò che continuamente egli ci chiede: lasciarci guidare ancora da lui, anche quando tutto sembra contraddittorio.
Siamo chiamati a confessare tutta la nostra distanza da Dio e dal suo modo di vedere le cose. Per Abramo la nascita di quel figlio insperato sembrava essere un punto di arrivo. E, ad un tratto, tutto è di nuovo messo in discussione. Può Dio far fallire il progetto di dare una discendenza ad Abramo? Abramo si fida e cosa scopre? Che il monte della prova, là dove tutto sembra finire tragicamente, diventa il luogo della benedizione.
Per Pietro, Giacomo e Giovanni il Tabor doveva diventare residenza definitiva, permanente. Cosa desiderare di più? E invece c’è un altro monte dove tutto sembrerà finire tragicamente. Eppure proprio lì, in quella esperienza drammatica, Dio rivela tutta la grandezza del suo amore.
Perché allora è necessario che anche noi accompagniamo i discepoli sul monte della trasfigurazione? Per imparare che solitudine, abbandono, fallimento non sono obbligatoriamente il segno di una vita sbagliata.
Sul monte apprendiamo quanto sia necessario non distogliere gli occhi da Gesù solo, da quello che propone, da quello che fa, da come si muove nelle varie situazioni. Di certo, a guidarlo non sono logiche di efficienza.
Sul monte si apprende inoltre a riconoscere la presenza di Dio là dove non ce lo saremmo mai immaginato. Si impara a riconoscere le sue strade soprattutto quando ci sembrano tanto distanti dalle nostre.
Sul monte si apprende infine che la fedeltà a Dio passa attraverso il mettere in discussione la fedeltà ai nostri progetti. Si impara la fedeltà a quello che ci chiede, non già a quello che avevamo immaginato, anche se sembra mettere in discussione tutto.
Sul monte Abramo ha compreso che il voler bene a quel figlio passava attraverso il non venir meno alla fiducia in Dio. Su un altro monte Gesù sceglierà la fedeltà al Padre e a noi invece che a prospettive di successo.
Sul monte si apprende che la fedeltà passa attraverso il silenzio e l’ascolto: il silenzio di fronte a realtà che sembra ci superino e non poche volte ci fanno soffrire. A parlare, infatti, si rischia di dire cose insensate come Pietro. Ecco, perciò, la necessità dell’ascolto come capacità di accogliere l’Altro che è Dio e lasciarsi ammaestrare da lui.
