La giornata mondiale dei malati di lebbra ricorre annualmente l’ultima domenica di gennaio.
Fu istituita nel 1954 da Raoul Follereau, scrittore e giornalista francese, molto attivo nella lotta alla lebbra.
Nonostante l’impegno di tanti che la combattono, per ora il numero dei malati nel mondo continua a crescere. Come continuano ad aumentare coloro che soffrono la fame. Del resto i due fenomeni risultano molto spesso legati insieme.
Ogni anno, sono più di 140.000 le nuove persone colpite dalla lebbra che si aggiungono ai 3-4 milioni di persone che vivono ancora con la malattia o le sue triste conseguenze (stima l’OMS). E il numero di nuovi casi sta di nuovo incrementando.
Oggi si sa che il contagio della lebbra è molto raro. Ma di fatto la povertà, la mancanza di igiene, la denutrizione, l’ignoranza delle norme dì prevenzione, favoriscono ancora il diffondersi del male.
In certe parti del mondo, anche la mentalità della gente non aiuta la guarigione. In Asia molti – per strani motivi religiosi – pensano che i lebbrosi se la sono meritata la lebbra, che essi scontano in questa vita il male che hanno compiuto in un’esistenza precedente. È la dottrina della reincarnazione, la metempsicosi. Si ritiene giusto che i lebbrosi si tengano il loro male, perfino che non bisogna curarli. Devono scontare.
Allora succedono vicende come questa descritta in una lettera di un missionario, padre Battista Busolin, deceduto alcuni anni fa.
Testimonianza
«Vivo in un lebbrosario governativo insieme a cinquecento lebbrosi, abbandonati a se stessi, in piena foresta, a 30 chilometri dal centro più vicino. Siamo separati dal mondo da un filo spinato, circondati da guardie pronte a sparare se qualcuno tenta di fuggire…
«Non ci sono medici né infermieri; non hanno medicine. Sono costretti a vedere, giorno dopo giorno, la loro carne che va in disfacimento, staccandosi poco alla volta. Tutti hanno fame, tanti muoiono di fame, ma nessuno si preoccupa di dare loro un po’ di cibo… Forse ci sono persone contente che muoiano presto, per liberare la società da questa piaga… «Quindici giorni fa ho trovato un giovane sotto una pianta di banane: si era ricoperto con le foglie secche, e si era dato fuoco. Dio, che orrore! Mi sono tolto la camicia per soffocare le fiamme e strapparlo alla morte. Mi sono anche ustionato, ma sono riuscito a salvarlo.
«Mentre lo sollevavo, mi sono accorto che pesava sì e no trenta chili. Gli ho chiesto quanti anni avesse. “Venti”, mi rispose gemendo. La fame, la lebbra, la tubercolosi, lo avevano ridotto in quello stato. Mi supplicava di lasciarlo morire. “Meglio subito, che morire lentamente di fame…”.
«Mi sono caricato sulle spalle quel rifiuto di umanità, e a piedi l’ho portato fino al centro della nostra missione. Sono andato in cucina, ho preso dalla pentola un po’ di carne e gliel’ho data, ma era troppo denutrito per poter mangiare. Forse da un mese non mangiava quasi nulla. Morì tre ore dopo tra le mie braccia, coprendomi di sangue e pus che uscivano dalle sue piaghe.
«Ero solo: gli altri erano fuggiti tutti per paura del contagio. Prima che morisse l’ho chiamato “Giustizia”, nome che porterà per tutta l’eternità. Poi ho preso una coperta, vi ho avvolto quel misero scheletro, e dato che era domenica l’ho portato in chiesa, alla messa.
«Sono entrato con quel cadavere tra le braccia, l’ho deposto ai piedi dell’altare, poi ho afferrato il microfono e ho gridato con tutta la forza dei miei polmoni: “Siamo tutti assassini! Abbiamo ucciso un nostro fratello!”. Ho continuato a gridare: “Lo abbiamo ucciso noi, con il nostro egoismo, con la nostra indifferenza, con la nostra paura del contagio… non ricordo più nulla. Devo essere svenuto».