Ritiro sui Salmi (3)
P. Renzo Piazza
(riflessioni ispirate dal card. Martini)
Salmo del malato
Salmo 6
1 Al maestro del coro. Per strumenti a corda. Sull’ottava. Salmo. Di Davide.
2 Signore, non punirmi nella tua ira,
non castigarmi nel tuo furore.
3 Pietà di me, Signore, sono sfinito;
guariscimi, Signore: tremano le mie ossa.
4 Trema tutta l’anima mia.
Ma tu, Signore, fino a quando?
5 Ritorna, Signore, libera la mia vita,
salvami per la tua misericordia.
6 Nessuno tra i morti ti ricorda.
Chi negli inferi canta le tue lodi?
7 Sono stremato dai miei lamenti,
ogni notte inondo di pianto il mio giaciglio,
bagno di lacrime il mio letto.
8 I miei occhi nel dolore si consumano,
invecchiano fra tante mie afflizioni.
9 Via da me, voi tutti che fate il male:
il Signore ascolta la voce del mio pianto.
10 Il Signore ascolta la mia supplica,
il Signore accoglie la mia preghiera.
11 Si vergognino e tremino molto tutti i miei nemici,
tornino indietro e si vergognino all’istante.
Il salmo 6 è un salmo molto antico ed è chiamato “di Davide”. Davide ha certamente scritto alcuni salmi che portano l’impronta della sua personalità violenta e insieme tenerissima, ma non siamo sicuri che sia l’autore del salmo 6 perché il titolo è posteriore.
Il salmo è detto “del malato”: ce ne sono diversi che parlano di un uomo che sta soffrendo, e probabilmente venivano usati nella liturgia. Il malato faceva un voto e poi andava al tempio e recitava uno di questi salmi, rivivendo l’esperienza della malattia e della guarigione e, con questo, rendeva lode a Dio. È possibile che questi salmi siano poi stati usati per la liturgia del tempio. Il salmo 6 è un piccolo poema storico sulla situazione di un uomo malato e sul repentino rovesciamento di situazione che si attua in lui. È un malato che supplica, e che poi improvvisamente erompe in un grido di salvezza.
Il lamento e la lode
Credo che per riuscire a capire il messaggio di questo salmo sia necessario un discorso un po’ più ampio, per rendere ragione dei due grandi temi che dominano tutta la preghiera dei salmi.
I salmi, sono 150 e sono preghiere in poesia, molto diverse fra loro. Si distinguono in inni, salmi sapienziali, salmi storici (che raccontano la storia del popolo), salmi regali (che parlano del re Messia). Tuttavia, se noi volessimo condensare gli atteggiamenti fondamentali dell’uomo che prega nel salmo, li potremmo definire così: c’è l’atteggiamento del lamento e l’atteggiamento della lode.
Tutta la vita dell’uomo che prega con i salmi è come permeata da questa realtà del lamento e della lode, che continuamente si alternano come due ritmi di preghiera, come due momenti dell’esperienza diretta che l’uomo fa del dialogo e del rapporto con Dio.
Noi oggi parliamo di preghiera di domanda e di rendimento di grazie, preghiera di richiesta e di ringraziamento. Ma il salterio, con la sua esperienza antica, dell’uomo, riporta queste due espressioni della preghiera umana alle sue radici: la lode e il lamento.
Cos’è la lode?
La lode nella Bibbia ha soltanto un oggetto: Dio. Non esiste nella Bibbia altro oggetto del verbo lodare se non Dio; quindi la lode è il modo con cui l’uomo si atteggia soltanto verso Dio. Ed è lode nel senso ebraico di esultanza, di movimento entusiasta del cuore, di riverenza, di meraviglia di fronte alla opera di Dio. Questa è la lode biblica; è la lode del Magnificat: “L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio mio salvatore”; questo è l’atteggiamento fondamentale della lode.
Dunque la lode per la Bibbia è espressione della vita; noi diremmo oggi: è meraviglia di fronte all’essere. Dice il profeta Isaia: “Il vivente ti loda, o Dio, come io faccio oggi“; è la vita che loda Dio, è il vivente che loda. L’uomo si sente vivo e loda l’autore della vita. Per la Bibbia, per i salmi, lodare è vivere.
E allora non lodare è non vivere, è la morte. La morte è non lodare Dio, perché non lodare è identico a non vivere, non vivere la vita che è dono di Dio da restituire in lode. La morte come negazione della vita, è non-lode.
Ecco allora che il salmo può dire: “Nessuno tra i morti ti ricorda, chi negli inferi canta le tue lodi?”, perché la lode è vita, lodare è vivere, non vivere è non lodare; lode e vita si corrispondono. L’uomo si sente vivo quando loda, come nei salmi.
Cos’è il lamento?
È il grido dell’uomo la cui vita viene meno; cioè la salute, il proprio progetto di vita, la propria capacità di amare, la propria dignità. Quando l’uomo sente venir meno queste cose, ecco il lamento; quando esperimenta il degradarsi del vivere, sapendo che il bene del vivere è dato dalla vicinanza del Dio vivo, allora l’uomo grida: non abbandonarmi, ritorna, voglio tornare a lodarti.
L’ira di Dio
Quello che l’uomo sperimenta in questo degradarsi del vivere di cui ha paura è chiamato l’ira di Dio, lo sdegno di Dio, Dio che lo abbandona: perché se la vita è Dio, il non vivere è l’essere abbandonato da Dio. E allora grida: “Pietà di me Signore, vengo meno, risanami; l’anima mia è tutta sconvolta, vieni a liberarmi, salvami per la tua misericordia”.
Il lamento è l’opposto della lode. L’uomo, sentendo che qualche parte del suo vivere viene meno, attraverso la malattia, o la solitudine, o la sofferenza morale, o l’abbandono, o la paura dell’avvenire, grida a Dio-vita, si lamenta con Dio-vita, perché Dio appare lontano da lui, e lo invoca.
Chi ha pregato così?
Forse questo diverrà più chiaro se ci domandiamo chi sono coloro che nella Bibbia hanno pregato così. E ci viene in mente la figura di Davide. Gran parte dei salmi di lamento sono attribuiti a Davide, che è passato per esperienze di sofferenza, di umiliazione, di abbandono: egli però le ha vissute come credente, cioè gridando a Dio. Non le ha vissute nella disperazione di chi si sente solo, ma nel lamento di chi si sente abbandonato e sa che il suo grido raggiunge l’Amore.
Il profeta Geremia ha scritto lamenti molto simili a questi salmi nel vocabolario, nel modo di esprimersi, manifestando – con un grido – la sua situazione. Giobbe nella sua sofferenza fisica e morale si è espresso così. Gesù sulla croce si è espresso così: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”.
Ogni cristiano può ripetere l’esperienza di Davide, di Geremia, di Gesù. Ogni cristiano malato, sofferente, solo, perseguitato: sono tante le circostanze di vita in cui il cristiano rivive queste realtà. Quanti nostri fratelli nella solitudine, nella sofferenza; addirittura nella persecuzione stanno vivendo il dramma di questo salmo!
Quando noi recitiamo questo salmo ci uniamo con la preghiera a tutti coloro che soffrono; forse non possiamo raggiungere la loro sofferenza né con parole né con gesti di conforto; ma con questo salmo noi ci uniamo al lamento universale di coloro che invocano il Dio salvatore.
Lectio del salmo 6
Leggiamo ora il salmo 6; per meditarlo lo si può dividere in tre parti che sono molto chiare nella poesia.
– La prima parte (fino al v. 6) è una preghiera diretta, utilizza il “tu”. L’uomo sofferente si esprime con lamenti e con richieste fiduciose a Dio che sa essergli vicino: “non punirmi… non castigarmi… pietà di me… risanami, volgiti a liberarmi… salvami”. È tutta una serie di espressioni, che l’uomo in tale situazione chiede a Dio perché non ne può più.
– La seconda parte è determinata dall’ “io”, sono i versetti 7 e 8. L’uomo ritorna su se stesso e si descrive in prima persona: “sono stremato… inondo di pianto, irroro di lacrime… i miei occhi si consumano… invecchio” e si contempla, quasi si guarda: a che punto sono ridotto!
– La terza parte presenta un cambiamento di scena: improvvisamente tutto cambia, e il salmista grida la gioia dell’esaudimento: “Il Signore ascolta… il Signore ascolta, il Signore accoglie”; a fare da corona a questa triplice affermazione di accoglienza c’è la fuga dei nemici: “via da me voi che fate il male… arrossiscano i miei nemici”, quindi l’affermazione centrale: “Il Signore ascolta: via da me!”
Queste le tre parti del salmo: la prima il “tu”, la seconda l’ “io”, la terza è l’affermazione oggettiva della guarigione ottenuta: “il Signore ascolta”.
Vediamo brevemente come, attraverso queste parti, l’uomo malato si esprime; si sente punito dallo sdegno di Dio, castigato dal suo furore: viene meno, tremano le sue ossa, l’anima è sconvolta. Avverte ormai vicino quel regno dei morti dove non c’è più voce, dove per gli ebrei c’era una grande ombra, la fine di ogni attività.
La descrizione continua nella seconda parte: è stremato, il pianto a dirotto irriga il letto come un campo, gli occhi consumati, il senso di invecchiamento e di oppressione. La malattia in realtà non è descritta: il tremare delle ossa potrebbe essere il tremito della febbre e l’uomo esprime un’esperienza che è quella del disfacimento, del sentirsi venir meno, del non farcela più.
Un disegno divino percepito come castigo
L’uomo parla di come la malattia è vissuta nella psiche, di come esperimenta la sua fragilità. Ma questa esperienza è vissuta dal malato di fronte a Dio, con la chiarezza che tutto ciò è parte di un disegno divino che il malato sente come castigo.
“Signore non punirmi nel tuo sdegno, non castigarmi nel tuo furore, pietà di me Signore… risanami Signore… volgiti Signore a liberarmi”.
Sono dette due cose:
- Primo, che Dio può liberare, quindi una certezza assoluta che anche una vita degradata è nelle mani di un Dio potente.
- Secondo, una percezione che il mio essere così, è legato al mio peccato, è legato ad una decadenza da ciò che dovevo essere.
Noi facciamo fatica a seguire questo aspetto, anche perché ci ricordiamo, che nell’episodio del cieco nato, Gesù nega la relazione immediata malattia-peccato: “Chi ha peccato, lui o i suoi genitori?” e Gesù risponde: “Né lui né i suoi genitori, ma perché si manifesti la gloria di Dio”.
La malattia, anticipazione della morte
Come la morte rende concreta la devastazione nella storia del rifiuto di Dio e della vita, così anche la malattia è in qualche modo anticipazione della morte, immagine della morte, una delle realtà che nella storia rendono presente il cammino negativo dell’uomo. In questo senso può chiedere di essere liberato non necessariamente da un peccato che ha commesso, ma dalle conseguenze di quella situazione storica sofferente nella quale è immerso: situazione segnata dal peccato, dalla malattia e dalla morte. Quest’uomo vive con grande realismo la propria sofferenza, non si illude su di essa, anzi si agita violentemente, ma in tutto questo agitarsi conserva il senso dell’assoluto di Dio e insieme il senso della propria umiltà, della propria sottomissione al disegno di Dio.
Preghiera e umiltà
Non è facile entrare in questo atteggiamento e richiede una profonda preghiera per non essere frainteso. Con la preghiera e l’umiltà potremo comprendere la verità di questa parola, verità che dovremo tradurre in nostri termini e che potrà forse aiutarci in situazioni analoghe per viverle non con ribellione, ma con l’umile accoglienza di ciò che la condizione umana comporta, e con desiderio di esserne salvati dal Dio che è potente.
Mi viene in mente il caso limite: Gesù che nell’urlo della morte dice: “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” e poi: “Signore, nelle tue mani affido il mio spirito”. È la duplice realtà di essere al limite della stessa pazienza umana, pronti a scoppiare nella disperazione e nella bestemmia e insieme vivere questo caso limite nell’accoglienza di una realtà di Dio provvidente e buono. In poche righe si esprime qualcosa di molto elevato a cui l’uomo non arriva se non attraverso la sofferenza, la pazienza e la preghiera.
Il Signore ascolta, il Signore accoglie
Diamo ora uno sguardo all’ultima parte, dal v. 9 e seguenti: “Via da me voi tutti che fate il male. Il Signore ascolta la voce del mio pianto, il Signore ascolta la mia supplica, il Signore accoglie la mia preghiera. Arrossiscano e tremino i miei nemici, confusi indietreggino all’istante”. Questa versione usa il presente: “Il Signore ascolta… il Signore ascolta… il Signore accoglie”.
Colui che parla vede come avverato un evento che sa con certezza che si avvererà: e questo in virtù della sua speranza. Egli non dice: sono guarito, non descrive la propria guarigione, non descrive la forza che gli ritorna. In fondo si può pensare che non è neanche avvenuta, ma è sperata.
Sono certo che il Signore ascolta
Quest’uomo è passato dalla sensazione della propria vita finita alla espressione di profonda fede nella preghiera e ad un certo punto è entrato nella speranza, ha sentito: Dio ha accolto la mia preghiera, e avendola accolta io sono cambiato, la mia guarigione verrà quando verrà, forse sta già venendo, forse è già venuta e non me ne sono accorto. Ciò che conta è che io sono certo che il Signore ascolta la voce del mio pianto, ascolta la mia supplica, accoglie la mia preghiera.
I nemici
I nemici che gli stavano attorno sono tutti quegli uomini che approfittano dell’uomo in stato di debolezza per depredarlo, per ridere di lui, per rubargli ciò che ha.
C’è qui certamente l’immagine di una società cattiva, molto violenta, nella quale finché uno riesce a difendersi con le proprie mani i nemici sono a distanza, ma appena perde un po’ di vigore è finito. L’uomo che è ormai incapace di gestire la sua vita è circondato da gente che sta spiando la sua caduta, che sta cercando di approfittare della sua incapacità a farsi ragione. Ma improvvisamente, quando la speranza è nata in lui allora sente che anche tutto questo non avrà più seguito, sente in sé la forza di vincere e di farsi strada: e questo perché il Signore ha ascoltato.
Tutto il salmo gioca tra questi due momenti: “Pietà di me Signore”, e poi… “Il Signore ha ascoltato”: sono i due momenti del cammino dell’uomo.
Alcune domande
Che cosa ci dice il salmo con questo suo modo di farci pregare?
Il salmo ci pone alcune domande. La prima domanda riguarda l’equazione che abbiamo sottolineato tra il lodare e il vivere: ho mai sperimentato in me l’equazione fra lode e vita, la gioia di perdersi nella lode gratuita, nella lode in cui l’uomo ricupera in qualche maniera la libertà propria di Dio? La lode intesa così è superiore al ringraziamento, perché il ringraziamento in un certo senso si misura con il dono, potrebbe essere quasi concepito come una sorta di scambio. La lode è invece un perdersi al di là: noi ti lodiamo, o Dio, per la tua grande gloria e potenza, ti lodiamo perché sei grande in te; ti lodiamo, o Signore, perché sei Dio. L’uomo che si perde in queste preghiere ritrova se stesso, cioè sente di essere nato per lodare, sente che in questo gesto gratuito e costruttivo egli ritrova la sua vera natura, ritrova la chiarezza del proprio essere fatto per amare e per donarsi nel gesto semplicissimo della lode.
La seconda domanda potremmo esprimerla così: sono capace di esprimere le mie sofferenze in preghiera così fiduciosa quando soffro veramente? Noi siamo capaci di pregare quando abbiamo delle riserve di forza, ma quando la via d’uscita non c’è più, siamo capaci allora di rivolgerci alla preghiera con uguale e maggiore intensità? Siamo capaci nelle situazioni limite della nostra vita di esprimere una tale speranza, una tale intensità di invocazione?
Un’altra domanda che cogliamo soprattutto dall’ultima parte: siamo capaci, come dice Paolo, di godere nella speranza, cioè nella certezza che Dio ci ascolta, che Dio ci ha ascoltato? Quando possiamo cogliere questo ascolto nella esperienza di Chiesa? Noi sappiamo benissimo come ci sono malati che vivono la malattia come un peso quasi insopportabile e che a un certo punto cambiano e vivono la stessa esperienza con una speranza, con una luminosità, con una libertà di cuore che fa stupire tutti. Sono passati appunto dall’invocazione quasi disperata alla certezza che Dio comunque non li abbandona.
Infine potremmo ancora domandarci, sempre leggendo e rileggendo questo salmo: sappiamo compiere questo cammino dalla tristezza alla speranza? Che cosa prevale in noi, in quale frase di questo salmo ci riconosciamo più facilmente? Nelle invocazioni che ci fanno guardare a Dio, nelle descrizioni che allora ci mostrano preoccupati soltanto di noi stessi o nelle proclamazioni che fanno emergere in noi il senso della certezza che Dio è vicino.