1 Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi,
non resta nella via dei peccatori
e non siede in compagnia degli arroganti,
2 ma nella legge del Signore trova la sua gioia,
la sua legge medita giorno e notte.
3 È come albero piantato lungo corsi d’acqua,
che dà frutto a suo tempo:
le sue foglie non appassiscono
e tutto quello che fa, riesce bene.
4 Non così, non così i malvagi,
ma come pula che il vento disperde;
5 perciò non si alzeranno i malvagi nel giudizio
né i peccatori nell’assemblea dei giusti,
6 poiché il Signore veglia sul cammino dei giusti,
mentre la via dei malvagi va in rovina.

“Beato l’uomo”

Il salmo che leggiamo insieme non è una preghiera. Sappiamo che i salmi sono le preghiere del popolo di Dio, ma questo salmo non è una preghiera bensì un’esclamazione, una beatitudine: “Beato l’uomo”. È una beatitudine – “Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi”- che va insieme alle beatitudini di colui che entra nel Regno: “Beati voi, poveri, beati coloro che hanno fame e sete della giustizia”. È da vedersi con la beatitudine di Maria: “Beata te che hai creduto”, o con la beatitudine dell’ascolto della parola proclamata da Gesù: “Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”

Questo salmo è stato messo all’inizio come premessa a tutte le preghiere del Salterio per indicare che cosa è l’uomo, quale tipo di uomo è quello che prega.

Quindi dobbiamo leggerlo con questa domanda: qual è quel tipo di uomo, quella figura di uomo che qui viene riconosciuta felice, cioè riuscita? Noi possiamo paragonarci a questa figura di uomo? La nostra società e la nostra vita possano paragonarsi a questa figura di uomo?

Con queste domande dentro di noi leggiamo ora il salmo.

Chi è il giusto?

Il salmo si divide facilmente in tre parti: la prima ci parla del giusto, dice chi è il giusto: colui che non fa certe cose e ne fa alcune altre. Poi descrive questo giusto con un paragone: l’albero lungo corsi d’acqua. La prima parte del salmo è quindi un ritratto molto semplice dell’uomo che vive secondo giustizia.

La seconda è il quadro opposto, il ritratto di colui che è chiamato l’empio: chi è, a che cosa si può paragonare, qual è la sua sorte. La terza parte è una conclusione: come Dio agisce verso l’uno e verso l’altro.

Leggiamo ora i singoli versetti, cercando di capire che cosa ci dicono con le loro immagini.

Prima di tutto descrivono l’idea che il salmista si fa dell’uomo giusto: è un uomo definito con tre realtà negative e con due realtà positive. Quelle negative sono:

  • non segue il consiglio degli empi,
  • non indugia sulla via dei peccatori,
  • non siede in compagnia degli stolti.

Sono le cose giuste che l’uomo non fa.

Il testo ebraico descrive le tre cose che l’uomo non fa riferendosi a tre movimenti fondamentali che designano l’uomo nella sua struttura fisica: il camminare, lo stare in piedi e lo stare seduto o sdraiato. Sono tre posizioni nelle quali l’uomo può comportarsi in maniera negativa. E notate bene come è descritto questo triplice modo negativo: non come un qualcosa che l’uomo fa per conto suo, come sarebbe: “Beato l’uomo che non cammina nella via del male, o che non si ferma per operare il male, o che non si siede per meditare il male”.

L’uomo nella sua fase negativa non è presentato individualisticamente, ma in una società: “Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, che non indugia sulla via dei peccatori, che non siede in compagnia degli stolti”.

Questo comportamento negativo dell’uomo è presentato come l’immedesimarsi in una società, in una mentalità, in una cultura di segno negativo.

Questa è la descrizione di ciò che non è I’ uomo giusto: è I’ uomo che si lascia trascinare da una mentalità, da una cultura, da un ambiente, da una visione del mondo, da una forma di pensare di segno negativo, ingiusto, insipiente.

I due versetti seguenti descrivono invece ciò che è l’uomo giusto. Non è colui che non fa certe cose, ma opera la giustizia, vive l’esperienza di carità, serve il prossimo, prega Dio… Qui l’uomo giusto è descritto in relazione a ciò che ama. La traduzione dice: “Si compiace nella legge del Signore”. Il testo ebraico è più forte: “Nella legge del Signore è la sua gioia”, cioè la Legge del Signore è la sua amata, è colei che egli predilige, che ha scelto; è la sua scelta preferita, è la sua scelta di vita.

Il linguaggio è quello dell’amore, dell’innamoramento: una cosa che è entrata dentro e che non esce più né dal cuore né dalla mente.

Egli medita la Legge giorno e notte; e la parola tradotta con meditare significa anche un gesto corporeo, cioè il mormorare, il sussurrare con le labbra. Quindi l’idea è quella di un uomo che giorno e notte assapora la Legge, ne fa come il suo cibo.

Par di vedere quelle figure venerabili di rabbini che quasi senza interruzione ripetono a memoria la legge del Signore.

Quest’uomo viene poi descritto di nuovo con un paragone: come albero piantato lungo corsi d’acqua, che darà frutto a suo tempo. Qui l’immagine appare a noi quasi banale; ma sappiamo che in Palestina i corsi d’acqua sono scarsi e un albero piantato lungo l’acqua è un lusso, è una cosa piuttosto rara ed è perciò una situazione eccezionalmente favorevole. Questo albero piantato lungo corsi d’acqua affonda le sue radici nella terra bagnata dall’acqua, e perciò segue il ritmo produttivo delle stagioni. Darà frutto a suo tempo e le sue foglie non cadranno mai, cioè non ha il fiorire, il decadere delle stagioni, ma è un sempreverde. Poi questo paragone viene riassunto così: “Riusciranno tutte le sue opere”. Concretamente, è la realtà di un uomo che mette a segno ogni cosa che fa o, secondo una versione più aderente all’ebraico, “tutte le sue opere Dio le fa riuscire”.

Evidentemente, non nel senso di un successo immediato, ma nel senso con cui chiediamo nel Padre nostro: “Venga il tuo Regno”, quel regno di Dio che verrà infallibilmente.

Chi ha messo il suo amore nella Legge non sarà deluso, tutto ciò che egli fa è collocato sulla strada giusta per la costruzione del Regno e non avrà da pentirsi di niente di ciò che ha fatto guidato da questo amore interiore.

Questa è la prima parte del salmo.

La seconda descrive invece per contrapposizione l’empio, colui che non pratica la giustizia. “Non così, non così, ma come pula che il vento disperde“: l’immagine è quella di chi non riesce a costruire, vede le cose sfuggirgli dalle mani, non riesce a tenere in pugno niente. Anzi, l’immagine potrebbe richiamare ancora più remotamente la dispersione degli uomini che tentano di costruire la torre di Babele per arrivare fino al cielo. Tentano di farsi un nome attraverso questa torre, ma la loro confusione interiore li disperde e quindi non riescono a costruire una città, a fare unità. “Perciò non reggeranno gli empi nel giudizio”; e qui l’allusione è probabilmente al giudizio finale, al giudizio sulla storia. Chi si trova nella categoria degli empi non costruisce nella storia, perché il giudizio sulla storia lo troverà carente.

Il salmo termina con una parola riassuntiva: “Il Signore veglia sul cammino dei giusti”. L’ebraico invece dice: “Il Signore conosce il cammino dei giusti”, rileva cioè la conoscenza amorosa, la tenerezza di Dio sul cammino dell’uomo giusto.

La via dell’empio è qualcosa che non riesce, che si frantuma, che si disperde.

Questa è la lettura immediata del Salmo che, come vedete, è molto semplice nella sua espressione, anche se contiene dei simboli che poi l’antichità cristiana ha ripreso attentamente. Questi corsi d’acqua nella tradizione cristiana sono il segno dello spirito di Dio e l’albero piantato lungo corsi di acqua è l’uomo che affonda le sue radici nell’acqua viva dello Spirito.

Un altro autore cristiano antico, riferendosi a questo salmo, parla del legno della croce come albero accanto al quale e nel quale l’uomo porta frutto. Quindi il simbolismo di questo salmo si allarga addirittura al battesimo: è l’uomo immerso nell’acqua battesimale che porta il frutto della vita secondo Dio.

L’esistenza umana è una scelta

Ora domandiamoci: chi è esattamente quest’uomo che è chiamato giusto, chi è esattamente quest’uomo chiamato empio? L’uomo o segue una via o ne segue un’altra; è continuamente di fronte a decisioni serie che hanno conseguenze drammatiche per sé, per la sua vita e per la vita del mondo.

Ogni decisione impegna il futuro dell’uomo. Questo salmo è pervaso da un senso drammatico dell’esistenza umana, che è una scelta. Una scelta che può essere sbagliata, e sbagliata definitivamente; una scelta in cui l’uomo gioca se stesso, il suo avvenire, il suo essere uomo.

L’uomo si fa o si distrugge nelle sue decisioni; è di fronte a decisioni costruttive o distruttive per sé e per gli altri; a questa realtà drammatica nessuno sfugge.

Possiamo chiederci più attentamente chi sia l’empio o l’ingiusto di cui qui si parla.

La prima applicazione che potremmo fare è a livello morale: l’uomo giusto è colui che compie il bene; l’ingiusto è colui che ruba, che uccide, che fa violenza, che sfrutta il prossimo, colui che semina la divisione, l’odio; l’uomo giusto è colui che serve il fratello, che perdona, che ama, colui che prega, che adora. Abbiamo visto però che, nella descrizione che viene fatta nei primi versetti, il punto di riferimento è più alto: l’uomo viene descritto non in relazione alla condotta morale, ma in relazione a ciò che ama. E allora l’uomo giusto chi è? È l’uomo che vive della Parola di Dio, l’uomo che ha scelto come amore la Legge, la Legge intesa come Torah, cioè come proclamazione di ciò che Dio è per l’uomo e di ciò che l’uomo è chiamato a essere nella Parola di Dio.

In realtà, dunque, questo salmo descrive la beatitudine dell’uomo che ha capito come ciò che lo fa essere se stesso non è semplicemente uno sforzo di perfezione morale, ma è il riferimento alla parola di Dio, il lasciarsi nutrire dalla Parola, il lasciarsi immergere nella Parola come le radici dell’albero nell’acqua: nessun aspetto dell’esperienza è estraneo alla parola di Dio e al messaggio della sua Parola.

L’uomo che qui è chiamato felice, riuscito, è l’uomo che ha capito che non è l’autocostruirsi, l’autogestirsi che lo porterà a sentirsi giusto e vero, ma è l’accogliere la parola d’amore che Dio gli dà.

Questa Parola rivela a me stesso chi sono; a che cosa sono chiamato; qual è la grandezza della mia chiamata; qual è la speranza alla quale la mia vita è affidata; qual è la speranza del mondo. L’uomo che ha colto questo è l’uomo giusto, cioè I’uomo che vive una vita morale.

La moralità dell’uomo è dunque legata alla sua capacità di lasciarsi interpellare da questa Parola che lo ha creato e che lo spiega nel più profondo di sé.

E chi è I’uomo non giusto?

L’uomo non giusto è quello che non riesce a cogliere il primato della Parola, che non riesce a comprendere quali orizzonti si aprirebbero alla propria vita se sapesse accogliere Ia parola di Dio; è non giusto in quanto rifiuta la Parola.

Tuttavia l’uomo si qualifica sempre per questa sua capacità di uscire dal chiuso dell’egoismo e accogliere la Parola che lo invita al dono al di fuori di sé.

L’uomo si qualifica così non per una morale delle opere, ma per una morale dei frutti: “È l’albero piantato lungo corsi d’acqua che darà frutto a suo tempo”.

Per una morale dei frutti

Questa è la moralità dell’uomo che ascolta la Parola, che dà frutto a suo tempo, cioè che matura lungo il cammino dell’uomo, secondo il tempo del suo sviluppo.

Possiamo allora farci delle domande sulle quali potremo riflettere, pregando Iddio che ci illumini tutti con la sua Parola.

La prima domanda: vivo veramente della parola di Dio?

Cioè: la Parola è qualche cosa che mi riempie il cuore, che mi nutre, oppure qualcosa che mi è ancora esteriore, lontana? Se ci interroghiamo a fondo, vedremo che la Parola è molto più vicina a noi e alla nostra vita di quanto non possiamo forse a prima vista dire o descrivere. Però notiamo subito che alla domanda: “Vivo della Parola?” non si può dare una risposta generica, bisogna dare una risposta specifica, e cioè: nella mia vita, quali tempi dò alla Parola? Ricordiamo che il salmo dice: “La sua legge medita giorno e notte”; ora, se osservo il ritmo della mia vita giorno e notte, quanto tempo dò all’ascolto della parola e quanto tempo invece dedico a ciò che è dispersione, “come pula che il vento disperde”, a ciò che è dissipazione?

Domandiamoci seriamente quanto tempo possiamo sottrarre senza alcun danno a ciò che può essere l’ascolto indiscriminato, il guardare indiscriminato la televisione, il perdere il tempo senza uno scopo preciso, per dedicarlo invece all’ascolto e alla lettura della Parola. Senza questo tempo è chiaro che non viviamo della Parola e quindi essa non esercita in noi quella forza che qui si descrive.

Viviamo della Parola? Quali tempi diamo all’ascolto della Parola? Quali tempi vogliamo dare in questo nostro tempo, al mattino, alla sera, giorno e notte, cioè segnando il ritmo del giorno e il ritmo della notte, all’ascolto della Parola?

Una terza domanda: quali gesti mostrano che la Parola è radicata in noi? Quali gesti di perdono, quale controllo delle mie emozioni; quale controllo della fantasia, della mente, del corpo; quale controllo di tutto ciò che può essere il mio modo istintivo di reagire è frutto della Parola?

Cioè, esprimo anche nel mio corpo che io sono nutrito dalla Parola e ne vivo?

E preghiamo insieme Maria che ha accolto in sé la Parola perché ci dia quella profonda esperienza di gioia interiore da cui è scaturito questo salmo. Che questo salmo dalle parole così semplici, così poco poetiche in apparenza, ci appaia per ciò che è, cioè un grido del cuore di chi ha capito che la parola di Dio – Dio che ci parla e si rivela a noi – è il tutto della nostra vita ed è capace anche oggi di cambiarla.