Devo ora continuare il mio discorso, perché il ritiro si è cominciato ieri sera. Verteva su questo argomento: che rapporto vi è fra la prima lettura e il Vangelo? Perché è veramente sconcertante, perché veramente sembra che non solo non vi sia continuità ma vi sia opposizione. «Chi potrà sopportare quando Egli verrà? Egli sarà come la lisciva del lavandaio, come il fuoco del fonditore». È un bambino e quale Bambino! Quale umiltà e semplicità! L’insegnamento è grandissimo: ci viene precisamente del fatto che proprio questo Bambino, nella sua semplicità, nella sua debolezza, nella sua povertà, nella sua umiltà sia l’adempimento di tutte le promesse profetiche. È qui l’insegnamento più grande non solo di questo Vangelo ma di tutto il Vangelo, direi di tutto il Cristianesimo. Ed è proprio qui che nasce tutto l’orrore, tutta la gravità della situazione del nostro Cristianesimo e della Chiesa. Adempimento delle promesse di Dio è la debolezza di un Bimbo, è la povertà di un Bambino: l’innocenza, la semplicità. Miei cari fratelli, che insegnamento! Noi vogliamo uscire sempre da questa umiltà, noi vogliamo sempre emergere da questo silenzio, invece l’adempimento delle promesse divine, di quelle promesse che dovevano essere veramente giudizio del mondo, si esprime per noi nella presenza di un Bimbo. Sì, perché è questo Bimbo che giudica il mondo. Di fatto il mondo è già condannato, se non lo sa riconoscere. Dio è la debolezza ed è l’umiltà; Dio è la povertà e l’innocenza, Dio è questo Bimbo che tu porti nelle braccia, e ti sostiene ma tu non lo sai. Nella tua esperienza umana sei tu che lo sostieni, se no cadrebbe. Lui è il tuo Creatore ma nella tua esperienza Egli ha bisogno di te. Che grande speranza è per noi il sapere che Dio si è fatto presente in un Bimbo! Certo vi anche è un pericolo: quello che non lo sappiamo riconoscere. Di tutti i sacerdoti che c’erano lì nel Tempio, nessuno ha saputo riconoscerlo. Un vecchio che doveva aspettare soltanto la morte e una vedova di 84 anni – sembra proprio che si parli della Comunità – sono gli unici che hanno riconosciuto il Figlio di Dio quando è entrato nel Tempio. Le vedove erano gli scarti dell’umanità antica. Una vedova e un vecchio l’hanno riconosciuto: nessun altro.

Il vero volto di Cristo

Dio è presente, ma si fa riconoscere soltanto dalle anime umili, che non hanno peso nel mondo, che gli uomini dimenticano e non sanno che cosa possono contare, ma solo loro riconoscono il Cristo. Dio è un Bimbo, che non sa né parlare né camminare, o è un uomo che pende da una Croce. La rivelazione suprema di Dio è il supremo abbassamento, la kénosis; Dio non cambia. Crediamo di poter sostituire al Cristo, Figlio di Dio, le nostre immagini vane: il potere, il successo, l’efficacia magari sul piano dell’assistenza sociale. Ma Dio è colui che ha avuto bisogno dell’uomo, quando si è fatto presente: è un Bimbo o è uno che pende dalla Croce. È terribile! Chi lo sa riconoscere? Eppure è una grande speranza, una grande gioia, perché se Dio si è fatto presente in questa umiltà, in questa povertà, in questa debolezza, Dio è con noi ancora, non per il fatto che noi abbiamo qualche potere ancora, ma per il fatto che ce li vengono a togliere tutti. Anche noi, pian piano, si va verso la vecchiaia. Che meraviglia questa restituzione di forze! Se Dio si è fatto presente a noi nell’umiltà, nella semplicità, nella debolezza di un Bimbo, Dio è sempre con gli uomini, basta che noi sappiamo riconoscerlo. È sempre con noi perché ancora i poveri sono con noi, dice Gesù nel Vangelo; perché ancora gli umili, gli emarginati, i vecchi che non contano più sono con noi: ecco l’immagine del Cristo. Perché ancora vi sono delle anime semplici e povere, ecco l’immagine e il Sacramento del Cristo. Dio a noi si rivela soltanto attraverso questo Sacramento, l’umanità di Gesù. L’umanità di Gesù non è l’umanità di un re che vive sul trono, di un condottiero di popoli che sconfigge i suoi nemici con una grande vittoria: è l’umanità di un Bimbo che ha bisogno di te, è l’umanità di un uomo che muore sopra una Croce, abbandonato da tutti.

«Nunc dimittis…»

Vorrei stamani dire due parole sul Cantico di Simeone che è stato proclamato al Vangelo e che è stato cantato all’inizio della Messa. La prima cosa: Simeone sapeva dallo Spirito Santo che non sarebbe morto prima di aver visto la salvezza del suo popolo. Ci voleva davvero una grande fede! Era vecchio, al termine della sua vita. Guardate, quello che Dio promette lo adempie soltanto proprio negli ultimi istanti: e vuole da te la fede che duri tutta la vita, vuole da te una fede che non si smentisca e non si lasci turbare. Tutte le cose possono andare contro le speranze che Egli ha acceso nel tuo cuore, contro quello che Egli ti ha promesso: tu devi mantenerti fedele. «E se Egli non viene, aspettalo», dice Abacuc il profeta. Questa attesa fiduciosa e serena! Sembra che tutto crolli, sembra che tutto vada contro quello che Dio ti ha detto: rimani fermo, sereno, Dio non si smentisce. L’adempimento delle promesse divine esige precisamente la tua fede. Dio vuole da te, come prezzo, questa fiducia incrollabile, questo abbandono sereno, questo allontanamento di ogni dubbio, pur vivendo tu come se Dio non fosse. Simeone aspetta tutta la vita la salvezza e quando viene questa salvezza è una bella delusione! Se non avesse avuto fede come avrebbero potuto riconoscerlo? La salvezza di Israele che cosa era? Era questo Bambino. E lui chiedeva di morire: non aspettava infatti nulla oltre a questo Bambino perché la salvezza è Lui stesso, non è quello che Egli avrebbe operato.

Anche in questo possono sbagliare quei teologi che vedono Gesù soltanto in ordine a quello che Egli compirà. È Lui stesso la salvezza: «la tua salvezza sono io». La salvezza tutta era già presente in questo Bimbo che Simeone portava sulle braccia. Ma chi sarebbe stato capace di credere che la salvezza di Israele era già presente ed era questo Bimbo? Non era la salvezza dalla schiavitù dei romani, non era la gloria di Israele che vince tutti i popoli nemici: era questo Bambino. Tutto rimaneva lo stesso, ma tutto era infinitamente cambiato. Apparentemente che cosa era successo? Nulla di nulla. Quante coppie ogni giorno potevano entrare nel Tempio per riscattare il loro primogenito con delle tortore, ma questo vecchio riconosce per lo Spirito Santo che la salvezza già si è compiuta poiché Dio è presente in quel Bambino.

Davvero ci vuole lo Spirito Santo perché noi possiamo riconoscere tutto questo. Simeone lo riconosce perché era «un uomo giusto e pio» e il giusto, nell’Antico Testamento, vuol dire anche povero; il “chassid”, il povero, l’umile. Gli umili non si scandalizzano di Dio. I grandi vorrebbero sempre che Dio somigliasse a loro, perché, sollecitati dall’ambizione del potere, si sentono condannati da un Dio che ha rifiutato il potere, l’ambizione, la ricchezza, che ha rifiutato ogni cosa e allora non lo sanno più riconoscere. Sono gli umili che lo riconoscono e vivono in comunione con Lui. Nella loro umile vita essi sanno accogliere Colui che viene.

Nell’incontro c’è già tutto

Quello che importa notare nel primo versetto del Cantico è questo “nunc”, “ora”. Avete mai pensato la bellezza di questo “ora”? È il compimento, finalmente, di una attesa di decenni e decenni di silenzio. Sembrava sempre che Dio non ascoltasse. Simeone era sicuro e Dio aveva chiesto la sua preghiera per tutta la sua vita. Finché egli era in condizione di far qualcosa, di associarsi in qualche modo al Salvatore venturo, di predicare al mondo che Egli era venuto, Simeone non poteva andarsene; ma ora a lui non rimane che morire. Tutta la vita si compie in questo atto che precede solo la morte.

Ecco, miei cari fratelli, l’insegnamento che ci viene da Simeone. Anche tutta la nostra vita deve essere un’attesa. Se noi pretendiamo che qualche cosa debba venire prima, Dio ci deluderà. Non chiedere nulla, ma rimani nella fede e nella speranza. Tutto si compirà nell’atto stesso in cui morirai. L’ora, il “nunc” di ogni uomo, è il suo incontro con Dio e questo incontro è sempre rimandato perché cresca la tua fede, perché la tua fede divenga sempre più pura, perché la tua speranza sia sempre più certa. «Ora lascia che il tuo servo se ne vada, in pace, perché i miei occhi hanno veduto la tua salvezza». L’incontro con Dio; non può esserci nulla di successivo all’incontro dell’anima con Dio. Noi invece usiamo molto spesso Dio per le nostre ambizioni, per i nostri egoismi, per la nostra salvezza futura. Vogliamo usare di Lui come di qualche cosa che possa sorreggere la nostra umanità, che possa realizzare i nostri egoismi, che possa rispondere alle nostre speranze. Tu vorresti farti servire da Dio, ma Dio non serve nessuno; la salvezza per te si adempie nell’incontro stesso. Oltre l’incontro non c’è nulla.

Che cosa puoi aspettare, in fondo? Tu l’hai incontrato. Anche questo potessimo viverlo sempre! Sentire cioè che dalla vita religiosa non dobbiamo aspettarci nulla, perché la vita religiosa è termine ultimo di tutta la vita. Che te ne fai dei soldi, che te ne fai della vita, della giovinezza? Che te ne fai? Dio è tutto. È nell’incontro con Lui che l’anima possiede ogni cosa, e Dio non è al servizio di qualche cosa che Egli deve donarti. Se aspetti da Lui qualche cosa è come se tu lo rifiutassi ed Egli non si donerà mai a te, perché tu aspetti qualcosa più grande di Lui che invece si dona tutto nella sua stessa Presenza. E allora tu divieni idolatra; come potrebbe Dio piegarsi ad essere al servizio della tua idolatria?

La salvezza è…

«I miei occhi hanno visto la tua salvezza». Simeone ha veduto Gesù e contemplato in Gesù veramente colui che era l’atteso, che era il dono di Dio. Simeone ora può morire, ogni sua speranza è colmata. Non ha chiesto a Dio la giovinezza, non ha chiesto che la morte: rimanere in questo incontro, non vivere più che questo incontro. Non aspira più a nulla dopo questo incontro.

E chi è questa salvezza? Ecco la cosa importante. Come Simeone vede la salvezza di Israele? L’avete sentito fino dall’inizio della liturgia di oggi, con tutte le candeline accese: «luce per illuminare le genti e gloria del tuo popolo Israele». Di fatto, molto spesso nel Vangelo Dio ha un rapporto con la luce, e ha un rapporto con la luce anche Gesù; poi l’avranno anche i cristiani, i discepoli di Gesù. Egli è il lume, la luce per la rivelazione. Ma cosa vuol dire? Una cosa semplice: ci vuole la luce perché si riveli a noi la realtà stessa di Dio. Per noi è necessaria una luce che sia come il tramite perché possiamo entrare in rapporto con questa realtà ultima, questo Dio che non può essere conosciuto né veduto se non attraverso la luce che è Cristo. Quello che è la luce per gli occhi mortali, è il Cristo nei riguardi di Dio. Nella nostra vita, noi non possiamo stabilire alcun rapporto con le cose, con gli uomini, con la realtà che ci circonda se non attraverso la luce. La luce diviene il tramite mediante il quale noi vediamo le cose: così il Cristo nei riguardi di Dio. Dio ci è totalmente sconosciuto, Dio rimane puro mistero per l’anima, se la luce, Cristo, non c’illumina.

Ma si noti bene: la luce del Cristo non è qualche cosa che viene dall’esterno. È la sua parola, la sua presenza, la sua virtù, la sua debolezza, la sua innocenza, la sua umiltà: Lui stesso. La prima funzione del Cristo, del Verbo di Dio fatto carne, è la sua funzione rivelatrice; è proprio nella sua presenza che gli uomini conoscono Dio e possono entrare in un certo rapporto con Lui. Si è detto altre volte che c’è una certa luce che è propria anche della creazione: la creazione stessa è segno di Dio e in qualche modo è luce che rivela, come lo è anche la parola di Dio nell’Antico Testamento. Ma che volete che sia? Può la luce di una candela illuminare questo mondo? Tale è la rivelazione cosmica nei riguardi di Dio. Ma anche la luce di Dio nella sua parola dell’Antico Testamento, anche questa cosa volete che sia: sarà una lampadina da dieci candele! Che cosa può essere mai anche ogni parola profetica nel riguardi della Presenza reale, della Presenza Incarnata di Dio in Cristo Gesù? Egli solo è veramente la Luce, la Luce che dissipa ogni tenebra: in Lui solo e attraverso Lui solo noi vediamo la luce che è Dio. «In lumine tuo videbimus lumen»: soltanto nella Tua luce, o Cristo, noi vediamo la luce che è Dio. E dice infatti nel IV Vangelo Gesù: «Chi vede me vede il Padre».

…nel rapporto con il Cristo

Voi capite una cosa allora: l’importanza che ha per noi cristiani un rapporto vero con il Cristo. Tutta la nostra vita cristiana consiste in questo incontro con Lui, un incontro con Lui che veramente ci manifesti Dio, che veramente ci dia la percezione e la sicurezza di una presenza del dono divino agli uomini, la presenza di Dio stesso agli uomini come loro salvezza. Gesù: non si va oltre, nessuno può prenderne il posto. Tutte le cose, le istituzioni anche, possono essere segno della sua presenza, ma Lui non può essere segno che della presenza del Padre. Per dirlo in altre parole: non si sostituisca al Cristo nessun altra grandezza; né la Chiesa, né il papa, né i vescovi, nulla! Il papa, i vescovi, la Chiesa sono segni del Cristo, che è il solo Figlio di Dio. Lui rimane, senza i paludamenti di cui possiamo rivestire la Chiesa: rimane il Bambino che Simeone portò sulle braccia, rimane l’uomo che pende dalla croce. Il Cristo anche per noi, oggi, si fa presente solo così, così come Egli si è fatto presente per Israele nell’umiltà più profonda, nel silenzio più puro. Alla debolezza del Bambino risponde ora l’umiltà, la kénosis, della presenza sacramentale propria dell’Eucaristia.

Notate bene: nulla, mai nulla potrà trascendere questa Presenza reale di Lui sotto il segno del più assoluto silenzio, della più pura umiltà. Noi possiamo vivere qui ignorandolo totalmente. Tutti noi possiamo ignorare un’altra Presenza infinitamente più grande e più viva, una Presenza dalla quale dipende la salvezza e la vita di tutto l’universo. Tale è l’umiltà di Dio fatto uomo, tale è il nascondimento in cui si rivela l’infinità dell’amore di Dio. Lo dicevo ieri: la grandezza di Dio si manifesta per noi nel Vangelo solo in un amore che si spoglia, solo come amore infinito che tutto si dona e nulla riserva per sé. Che cosa riserva per sé questo Dio, che nel Cristo tutto si comunica a noi, sotto la specie del pane? Cosa riserva per sé? Ecco la grandezza di Dio, grandezza infinita di un amore che non può avere altro segno se non la tenerezza, l’annientamento supremo, se non l’umiltà più profonda, se non il silenzio più puro.

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