Natale, il mistero della debolezza di Dio
don Angelo Casati

Natale, ovvero il mistero della debolezza di Dio. E verrebbe da dire che è scomparsa la debolezza di Dio, perfino dai presepi, qualche volta anche dalle chiese.

Si è voluto, per un eccesso di turbamento, abbellire la nudità dell’evento, quasi ci creasse troppa sospensione, troppo disagio. Accendiamo qualche luce in più. Troppo faticoso fare i conti con il buio e chissà forse anche con il freddo della notte. E poi questo silenzio del bambino, questa afasia di Dio, e nessuno che si accorga: pochi pastori, razza perduta, gente poco raccomandabile, indesiderata… Ci sembra insopportabile. No, è potente Dio. E il bambino fa finta, fa finta di avere bisogno di latte, fa finta di piangere, fa finta di essere dipendente, anzi è un bambino che dirige. Fa finta di essere debole. Riempiamo i presepi. Il vuoto è struggente. Ci distrugge.

E così il mistero subisce una riduzione, una riduzione letale. Dalla tragicità di una parola forte al patetico, una parola leggera, il bambinello sorridente, parola quasi vuota, bruciata in poco tempo. Quanti natali bruciati in poco tempo, perché è accaduto, e non ce se n’è accorti, un attentato al mistero della debolezza di Dio.

C’è uno strano modo di difendere Dio da parte di alcuni “osservanti”. Ed è quello di attenuare l’umanità di Gesù: se è Dio, si pensa, la paglia non sarà così ruvida e del latte della madre avrà bisogno per modo di dire. E si svuota l’evangelo, la notizia buona. Perché la notizia buona è che Dio ha messo la sua tenda in mezzo a noi. Non ha tenuto, anzi ha cancellato le distanze. Non ci ha guardati dall’alto in basso, dall’alto della sua onnipotenza, ma ha fatto suo lo spazio basso, dal quale ci si potesse guardare negli occhi, lui e noi, dalla stessa terra, come succede tra persone che si dicono il bene.

Dio, facendosi carne, si è come rannicchiato pur di fare spazio a noi e questa è una buona notizia.

In un monastero, quello di Bose sulla morena di Ivrea, dietro una icona della visita dei Magi, ho trovato la citazione di questo bellissimo testo di Pietro di Celle, che canta il natale della debolezza di Dio:

Vieni presto, Signore,
vieni nell’umiltà e non nella potenza,
nella mangiatoia e non sulle nubi,
nelle braccia di tua madre
e non su un trono di maestà,
su un asino e non tra i cherubini;
vieni verso di noi e non contro di noi,
per salvarci e non per giudicarci,
per visitarci nella pace
e non per condannarci nel furore.
Se tu verrai così, Signore,
noi ti verremo incontro per vivere con te,
il Padre e lo Spirito Santo
nei secoli dei secoli. Amen.

Questo mistero del Verbo che si è fatto carne, dell’infinito dentro un guscio di umanità, dell’immenso che ha contenuto la sua universalità in uno spazio piccolo, ristretto, in un regno sperduto dell’impero, che ha trattenuto la sua onnipotenza in una vita debole e limitata, viene a ricordare a noi stessi che, anche se piccoli, limitati, anche se incompiuti, noi siamo raggiunti e toccati, accompagnati, abitati da questo mistero di luce.

Il congiungimento – dice questo mistero – è avvenuto non nei piani alti della perfezione, ma ai piani bassi della nostra piccolezza e debolezza. Rimane comunque lo scandalo, lo scandalo della debolezza del Natale, scandalo della debolezza di Dio.

Oggi qualcuno va sussurrando che la debolezza di Dio è l’ultima trovata di un uomo debole, che si costruisce – è l’accusa – un Dio a propria immagine e somiglianza, un Dio debole a copertura e giustificazione della propria debolezza, un Dio, dopo tutto, comodo.

Posso sbagliarmi, a me sembra tutt’altro che accomodante l’immagine di un Dio che, per amore, si ritrae e dà spazio. E dice: “Fate questo in memoria di me”. Molto meno esigente, più accomodante l’immagine di un Dio che, spinto dalla sua onnipotenza, invadesse, occupasse spazio, e dicesse: “Fate questo in memoria di me”, e dunque occupate, invadenti. Occupa e invadi il mistero, occupa e invadi la vita, occupa e invadi l’altro, occupa e invadi la terra.

Non so se misuriamo quanto sia in controtendenza il Natale che dice: Dio è nel debole, Dio è nell’infinitamente piccolo, un Natale che ancora una volta ci seduca con l’invito: “Guardate e lui e sarete raggianti, non saranno confusi i vostri volti”.

Se i nostri volti oggi sono confusi, se è confusa l’immagine di questa nostra umanità, non sarà perché non guardiamo più Dio o forse perché, se pur diciamo di guardare Dio, non guardiamo dove Dio ha messo la sua gloria? L’ha messa nella carne fragile di un bambino, nel piccolo.

E dunque guardate il piccolo, il fragile, il disprezzato. Pensate la carica rivoluzionaria di questo invito in una società dove ad attrarre attenzione, in tutti i modi, con le arti più raffinate, fino all’ossessione, sono i grandi. Sotto i riflettori loro e le loro grandi scenografie. La seduzione del grande. Le storie dei piccoli, se le mandano in onda, le mandano nelle ore del sonno.

Pensate, in una società in cui vali non per la tua carne di uomo e di donna, ma perché hai un titolo, perché hai una laurea, perché sei apparso in televisione, perché hai fatto carriera, perché sai gridare, che forza dirompente ha il Natale, quello vero, che ha dirottato l’attenzione sul piccolo, sul bambino, che non ha altro titolo che quello di essere un umano, un cucciolo di uomo. E basta questo, basta essere un umano, perché uno abbia tutta la sua dignità, tutto il nostro rispetto, tutta la nostra difesa. Non occorre altro. Non occorre altro dal giorno in cui Dio ha messo la sua gloria nella piccolezza e nella debolezza.

Purtroppo anche il più luminoso dei messaggi può essere sporcato. E dunque bisogna essere vigilanti e custodirlo nella sua inviolabile autenticità e purezza…

Non contaminiamo di potenza il mistero della debolezza. Non sarebbe un servizio buono né per Dio né per questa terra che amiamo e che lui ha amato.

C’è nell’aria, purtroppo anche ai nostri giorni, un’immagine di potenza che uccide. O sei al massimo livello o sei pietra di scarto.

Una società che avanza pretese sulla vita. E tu devi stare al passo delle pretese: non l’attesa, ma la pretesa, la prepotenza della pretesa. Di questa prepotenza porta segni spesso tragici il tempo in cui viviamo: tanti delitti che oggi ci lasciano sgomenti, forse anche perché mai li avremmo immaginati nel paese dell’adolescenza o preadolescenza, sono l’esito amaro della prepotenza, la prepotenza della pretesa, che ha contagiato spiagge che pensavamo fuori contagio.

È il rifiuto dei nove mesi, della debolezza dei nove mesi; ma per il Figlio di Dio ci vollero nove mesi e non uno meno per essere messo alla luce. E Maria, la madre, si è gonfiata dolcemente, a poco a poco, come ogni madre. Neanche Dio fa salti mortali, nemmeno lui brucia le tappe, anche lui accetta la legge della gradualità, cresce a poco a poco e non senza fatica.

A un mondo che avanza pretese, che forza forsennatamente i tempi, che esige prestazioni sempre al massimo, il mistero della debolezza di Dio nei nove mesi, ci ricorda che le nascite vere, non quelle inventate dalle nostre immaginazioni, chiedono tempo, chiedono pazienza, chiedono rispetto. Dentro i segni poveri cresce il regno di Dio.

Oggi alcuni studiosi vengono a dirci che la mangiatoia di cui parla l’evangelista Luca forse non era la greppia delle nostre stalle, forse era la cesta che serviva ai pastori: dentro portavano il cibo per le lunghe soste nei pascoli. Ecco il segno cui siamo rimandati: un Dio nella cesta da viaggio, tra le cose quotidiane, umili e necessarie. Il pane e il vino. E una luce impigliata per sempre.

Passa dilavata la “notizia buona”, l’evangelo. Come dilavate spesso e ripetute le parole dei preti. Come bandiere scolorite dallo spiovere di giorni, di mesi, di anni.

È la notizia più sconvolgente e anche la più fascinosa. Ma ha perso colore per via della ripetizione e dell’abitudine, un’abitudine quasi ab immemorabili, dal latte della nascita o quasi, per tanti di noi.

La notizia ancora qualcuno la va ripetendo: “Dio è diventato uomo”, ma è come se l’avessimo nel tempo svigorita, come se l’avessimo scippata d’ogni sussulto. E il sussulto era grande, quando l’abitudine ancora non l’aveva invecchiata.

È la notizia del cristiano, ma ora non fa più notizia. Nemmeno per i cristiani. Mentalmente l’hanno impallidita, con un’aggiunta non confessata: “si fa per dire”. Dio si è fatto uomo, si fa per dire…

E così è rotto il Natale. È un Natale in cocci. E la cosa più grave è che sia un Natale in cocci e non ce ne si avveda. E siamo a un Natale senza notizia. Senza la notizia che “Dio si è fatto uomo… e non si fa per dire!”. Uomo, uno di noi. Di noi così come siamo. In tutto, fuorché nel peccato, canta la liturgia.

Che Dio si fosse fatto uomo, che quell’uomo fosse Dio fu difficile crederlo per quelli del suo paese, che da un Figlio di Dio avrebbero preteso giustamente qualcosa di più. E invece nulla di eccezionale: figlio dell’uomo. “Non è costui il carpentiere, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?” (Mc 6, 3).

Ma che Dio si sia fatto uomo non è così scontato nemmeno per i cristiani di oggi, che costruiscono presepi dove il bambinello sorride benedicente e la luce sembra disegnare una coltre soffice a difesa della ruvida paglia.

Esisterà nel mondo un presepe, un’icona del Natale, dove il bambino piange disperato, inconsolabile, come tutti i bambini del mondo? Forse sì, non sono esperto per escluderlo. Ma sarà, confessiamolo, caso raro. E la rarità ha una ragione: “si è fatto uomo… si fa per dire”.

Che un figlio di Dio pianga disperato ai più “ortodossi” tra gli “ortodossi”, ai difensori della fede, fa qualche problema. Come ai tempi di Gesù, faceva problema che quello fosse un semplice carpentiere.

Per rimuovere il problema c’è uno stratagemma a portata di mano: diciamo che fu una nascita di notte, ma non era poi così notte, che fu deposto in una mangiatoia, ma la paglia non era poi così ruvida, che il bimbo piangeva in assenza di latte, ma era perché aveva fame di un altro cibo, che nasceva sì rifiutato dalla città, in periferia della storia, ma pieno di visite, che portavano omaggi e doni. Come si addice, così pensiamo, a un figlio di Dio.

Così al vangelo, quello scritto, si è sostituito adagio adagio il vangelo immaginato, a un Gesù, quello della storia, si è sostituito silenziosamente il Gesù delle immaginette, o, per i più acculturati teologicamente, un Gesù assorbito, qualche volta esaurito, nelle sottili elucubrazioni teologiche, al linguaggio colmo di realismo e di poesia di Gesù si sono sostituite parole estraniate, senza paese e senza cuore, in cerca di vocabolari ecclesiastici per un possibile deciframento. Al vangelo abbiamo sostituito i documenti ecclesiastici. Come se leggere il vangelo non bastasse. Con la conseguenza sconcertante che oggi ci tocca dirci cristiani senza avere mai letto in vita uno dei quattro vangeli.

Lontani dal vangelo, si è purtroppo smarrita la notizia buona di un Dio che si fa uomo e non per modo di dire.

Enzo Bianchi, il priore del monastero di Bose, in un suo intervento, suggestivo e provocatorio a un tempo, ora apparso sul quindicinale Rocca (1 nov. 2002), scrive:

“Quanto tempo abbiamo sprecato a far battaglie per dire che era Dio. E non ci siamo accorti che se noi diciamo che era Dio è perché quelli che l’hanno detto per primi hanno visto una vita umana, un uomo, nient’altro che un uomo, un tale capolavoro d’uomo da dire: costui è Dio. È una vergogna che noi continuiamo a chiedere di deificare Gesù senza aver conosciuto la sua vita umana. Questa è una operazione da religione, fatta da uomini religiosi non cristiani. I cristiani, non dimenticate, i discepoli sono vissuti per tre anni insieme a un uomo, un uomo normale, quotidiano come tutti noi, non hanno mai visto in lui nulla di straordinario; ci dicono i Vangeli che non aveva neanche l’andamento ieratico di certi personaggi della nostra chiesa, era semplicemente un uomo. Ma coinvolti in quella vita per tre anni, vedendo come lui spendeva la vita, come lui giorno dopo giorno dava la vita agli altri, hanno detto che lui era Dio. Questa è la verità, questo è il cammino.
È molto importante percepire che Gesù è l’uomo per eccellenza: colui che ha vissuto per gli altri, colui che ha speso la vita per l’altro fino al dono della propria vita attraverso una morte violenta.
Dove l’altro designa in uno stesso movimento due realtà: l’altro, cioè gli altri uomini, quelli che incontriamo nel quotidiano e specialmente tra loro i poveri, gli ultimi, gli afflitti, e l’Altro designante la fonte dell’amore, questa fonte che lui chiamava Abba, Padre, Dio”.

La memoria che noi celebriamo in questi giorni, la memoria di Dio che si è fatto uomo, può essere letta da ciascuno di noi, ed è stupore, come la firma di Dio, la firma sulla nostra umanità. Ha messo il suo nome tra i nostri nomi. Dio firma, firma per sempre, con firma irrevocabile, la sua compagnia con gli umani. E la firma non negli spazi della straordinarietà, ma negli spazi della normalità: i trent’anni e più consumati a Nazaret, consumati senza stupire, i trent’anni e più ignorati dalle catechesi ecclesiastiche, i trent’anni e più nella vita di tutti, dicono senz’ombra la vicinanza di Dio a ogni uomo, a ogni uomo per il semplice fatto di essere uomo, semplicemente perché uomo.

Alle labbra mi ritorna una preghiera del dodicesimo secolo, di Aelredo di Rievaulx:

Signore Gesù,
io sono povero e anche tu lo sei,
sono debole e anche tu lo sei,
sono uomo e anche tu lo sei,
ogni mia grandezza
viene dalla tua piccolezza,
ogni mia forza
viene dalla tua debolezza,
ogni mia sapienza
viene dalla tua follia.

E dopo lo stupore per questa immersione di Dio nell’umanità sembra accendersi ai nostri occhi – non c’è possibilità di fraintendimento – la segnalazione di una strada, quella del Figlio di Dio, strada indicata ai credenti. E non solo ai credenti.

Il bambino vero, quello del presepe, quello che Maria copriva dal freddo nella notte scaldandolo al seno, sembra dire a chi lo guarda: sono diventato uomo, diventa anche tu uomo. Diventa anche tu uomo a immagine e somiglianza del Figlio di Dio.

L’invito può sembrare strano agli occhi di tanti di noi che sono soliti pensare che uomini si è per il fatto stesso di nascere. Uomini si è o uomini si diventa?

Non so se oggi più di ieri, ma certamente anche oggi, ci ritroviamo a confessare che ci sono squarci – ognuno sa quanto ampi e dolorosi – di disumanità e ad augurare a noi stessi e al mondo che si possa diventare finalmente umani.

Come possiamo dirci uomini, definirci umani in un mondo dove il volto dell’altro conta meno, molto meno, dell’arroganza delle leggi economiche, dove la soluzione dei conflitti è affidata alla logica spietata della guerra con il suo corteo indecoroso di innocenti uccisi, dove le armi di distruzione di massa sono illegali in casa altrui ma legali in casa nostra, dove i beni essenziali, la casa, il lavoro, la cultura, la trascendenza sono rivendicati per sé e non per gli altri, dove legge è l’accelerazione e chi sta al passo sta al passo, chi sta indietro peggio per lui, dove ognuno di noi nei rapporti quotidiani, se è sincero, confessa quasi quotidianamente ombre di disumanità?

Guardiamo in faccia il Figlio che si è fatto uomo e diventiamo a nostra volta uomini. Non continuiamo a persistere in parole che per dirsi cristiane stanno a mezz’aria, in riti che per dirsi spirituali stanno fuori dalla vita. Non continuiamo lo spettacolo di credenti che presumono di essere tali perché sono un po’ meno uomini, senza passioni e accensioni, sopra le righe, mentre Dio si è messo nelle righe, uomo tra gli uomini.

Ogni anno, per una delle mie stranezze, scelgo un’icona per il Natale. La scelgo tra le immagini di vita che nel lungo Avvento mi hanno incrociato e sedotto.

L’icona che mi sono scelta quest’anno è quella di una giovane mamma, occhi neri e vivi, che in una domenica di Avvento è arrivata al confessionale: un bambino le stava in braccio, l’altro non riusciva a scollarselo dal fianco, il terzo si affacciava curioso al vano del confessionale. Quella mamma, occhi neri e vivi, emozionati fino al pianto, e la sua confessione “pubblica” mi hanno raccontato del Natale come immersione.

I benpensanti della religione, con i loro codici alla mano, avrebbero da ridire di quel rito così poco “spirituale”, così umano. Ma avrebbero da ridire anche di Gesù, fuori posto nella mangiatoia, fuori posto in trent’anni e più consumati nel silenzio di Nazaret.

Io mi sono incantato. Anch’io avevo l’emozione negli occhi. Per me è stato Natale.

Il mio Natale quest’anno è abitato. È abitato da una domanda, come una notte abitata da una stella.

“Il Natale” – dicevi- “la nascita di Gesù, ma anche i nostri natali, le nostre nascite. Ci sono donne che aspettano un bambino, da sole, senza un marito, aspettano bimbi senza padre…”.

Se c’è una festa, che ha conosciuto paradossalmente la deriva di un “buonismo”, vago e stemperato, di cattiva lega, molto vicino al “fare come se” -come se i problemi non ci fossero, come se i problemi per un giorno non ci fossero- questa è il Natale.

Eppure quella notte -notte santa- i problemi c’erano. E Dio non nasceva in una notte di sogni e di stelle. E se quella notte era di stelle -ho conosciuto l’emozione di alcune notti di stelle in Israele- forse non erano miriadi le stelle nel cuore .

Anche quella del Figlio di Dio, in qualche misura -mi si perdoni la parola- era una nascita “irregolare”, un bimbo “irregolare” fuori delle nostre codificate regole.

Prima ancora che nascesse, quando ancora lo avvolgeva e intiepidiva il grembo tenero e caldo della madre, da quel grembo caldo e tenero aveva ascoltato -forse sto sognando- da vicino il battere angoscioso del cuore della madre nei giorni in cui Giuseppe aveva deciso di licenziarla in segreto, per via di quella nascita fuori regola.

Forzo il discorso -e voi mi perdonerete- per dire che era voluto nascere in qualche modo “irregolare”, tra gli “irregolari”, perché nessuno più potesse chiamare qualcuno “irregolare”, perché là fra gli “irregolari”, tra i senza regola era nato lui, il Figlio di Dio.

Quasi a conferma di questa mia suggestione leggo nei Vangeli che chiamati a vedere un bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia non furono i “regolari”, ma ancora una volta gli “irregolari”, i pastori, razza bastarda, puntualmente dispensati dal frequentare le zone sacre del tempio, perché “irregolari”.

Perché è nato -ce lo chiediamo- nel paese della irregolarità?

Forse perché, dicevo, abitandoci lui, il Figlio di Dio, nessuno si azzardasse più a chiamare presuntuosamente “irregolare” qualcuno sulla terra, ma semplicemente uomo e donna, figlio di Dio e figlia di Dio e non ci succedesse più di guardare o giudicare chicchessia a partire dalla sua irregolarità, bensì dal suo essere uomo e donna, una umanità segnata per sempre da questa sua nascita, nascita tra gli “irregolari”.

Ha abitato la nostra umanità.

È accaduto purtroppo un fraintendimento lungo la storia. Qualcuno lo chiama il fraintendimento del “come se”: secondo alcuni è venuto sulla terra il Figlio di Dio ed è vissuto fra noi “come se” fosse un uomo, in realtà era Figlio di Dio. Sembrava un uomo, ma in realtà la sua era un’umanità ridotta a pallida e sfuocata apparenza.

Di qui l’idea di un Gesù che è piccolo, però è già grande; che soffre, però ha l’invulnerabilità di Dio; che muore con un grido, ma intanto lui abita i cieli.

Permane l’idea di un Gesù che ha preso la nostra umanità, ma si fa per dire: in realtà era un altro. Si è avvicinato, ma non si è avvicinato.

No. La mangiatoia fu una mangiatoia, non meno povera perché era Figlio di Dio. E le fasce erano fasce; non erano meno fasce perché era Figlio di Dio. E il latte, il latte di sua madre era latte, non meno latte perché era Figlio di Dio. Senza quel latte moriva, così come senza qualcuno che gli suggerisse parole non avrebbe mai parlato, senza qualcuno che gli avesse insegnato a leggere e a scrivere non avrebbe mai letto il rotolo di Isaia.

Il Natale viene ancora una volta a farci memoria che i passi di Dio non si fermano a mezz’aria. I passi della salvezza sono dentro questa nostra povera ma amata -amata da Dio- umanità.

La speranza non è disegnata a mezz’aria, ma nelle inquiete pieghe della nostra storia, nelle faticose pieghe della nostra quotidianità, nelle pieghe segrete della nostra insonne ricerca di senso.

Se i passi della salvezza, i passi di Dio, vai ad ascoltarli a mezz’aria o altrove, non è vero Natale.

I credenti, quelli veri, sono sognatori, visionari impenitenti, uomini e donne abitati dalla promessa, ma paradossalmente sono anche uomini e donne legati, a filo stretto a questa terra, abitata per sempre dalla nascita di Gesù, il Figlio di Dio.

Troppo a lungo ci ha segnato e perseguitato una spiritualità del “disprezzo della terra”, che cancellava o rendeva insignificante il Natale di Cristo.

“Noi” – diceva Enzo Bianchi ad Assisi- “per duemila anni abbiamo atteso il Signore che ritorna disprezzando la terra, nel “contemptus mundi”; forse è venuta l’ora in cui dobbiamo continuare a guardare là, a guardare le cose di lassù, come dice Paolo, aspettare Cristo che ritorna, ma amando questa terra. Permettete la formula: nella fedeltà alla terra. Questo è il grande compito che attende la nuova spiritualità cristiana per il terzo millennio”.

I passi di Dio risuonano sulla terra, sulla nostra terra. Forse c’è troppo frastuono. Troppe parole, parole anche religiose, parole consumate, troppi vuoti discorsi, troppe omelie.

Sta nel silenzio. E nel silenzio ascolta i passi della salvezza.

E ai passi di Dio nella notte succedano i nostri.

Chissà perché nella notte a muoversi, a muovere i passi sono ancora una volta gli “irregolari”. Non si parla di altri al presepe di Gesù.

Alzarsi nella notte. Alzarsi dalle nostre notti. Credere che si possa, uscendo dal recinto, trovare un segno, anche povero: un bambino avvolto in fasce, deposto in una mangiatoia, che restituisca un senso al nostro vivere quotidiano.

Alzarci nella notte e andare. Forse ci tenta il tepore del fuoco, acceso nel recinto. Ci tenta a fermarci. Ma senza i nostri passi non c’è incontro.

Se abbiamo addormentato ogni curiosità, se sappiamo già tutto di Dio, se abbiamo cancellato ogni attesa -tanto tutto rimane come prima!-, rimarremo nei recinti e non sarà Natale.

Meglio essere “irregolari” ma curiosi che “regolari” presuntuosi, soddisfatti, arresi.

Dalle notti della nostra irregolarità verso una luce.

Don Angelo Casati
http://www.sullasoglia.it