Comboni

Nei suoi scritti, Comboni si riconosce molto spesso come “figlio del giardiniere” riconoscendo le sue umili origini ma anche prodotto di una storia specifica, sempre dinamica e divina. Anche lui è stato profondamente coinvolto e accompagnato dalla gente, dai poveri, dalla Nigrizia che ha incontrato rimanendone innamorato e identificandosi con loro senza mai dimenticarsi delle sue umili radici e origini.

Ne è testimonianza la sua celebre omelia di Khartoum nel 1873:
Il primo amore della mia giovinezza fu per l’infelice Nigrizia, e lasciando quant’eravi per me di piu’ caro al mondo, venni, or sono sedici anni, in queste contrade per offrire al sollievo delle sue secolari sventure l’opera mia.
Ritorno tra voi per non mai piu’ cessare d’essere vostro, e tutto al maggior vostro bene consacrato per sempre. Il giorno e la notte, il sole e la pioggia, mi troveranno egualmente e sempre pronto ai vostri spirituali bisogni: il ricco e il povero, il sano e l’infermo, il giovane e il vecchio, il padrone e il servo avranno sempre eguale accesso al mio cuore. Il vostro bene sara’ il mio, e le vostre pene saranno pure le mie. Io prendo a far causa comune con ognuno di voi, e il piu’ felice dei miei giorni sara’ quello, in cui potro’ dare la vita per voi.”

Queste parole di Comboni scaturiscono da un cuore innamorato di Cristo, dell’uomo, della “Nigrizia”. E per ciò ha pagato di persona senza “ma” e senza “se’. Far causa comune ha voluto dire per lui perdersi in una dimensione di Vita nuova. Ha fatto causa comune promuovendo rigenerazione e giustizia nel momento in cui si è messo dalla parte dei poveri e degli schiavi, degli emarginati come ha fatto Gesù. Mettersi dalla loro partesignifica da sempre una stretta vicinanza con i poveri, che si realizza solo nella disponibilità a loro. E come per il profeta dell’Africa, le nostre radici, origini e il nostro passato possono aiutarci molto a vivere profondamente una spiritualità incarnata nella vita al servizio dei poveri e dei popoli ai quali siamo mandati.

Ripartire dalla Missione

Ripartire dalla missione è guardare con gli occhi dei poveri. Come per Gesù, fare la scelta per i poveri significa anche rinnovare il nostro modo di vedere il mondo, la Chiesa e l’Istituto. Ci facciamo presenti in mezzo a loro, con semplicità, impegnandoci nella difesa della vita e nella rimozione delle cause della povertà e ingiustizia. (Atti Capitolari 1997, n. 26)

Queste parole del capitolo 1997 hanno fatto riflettere un consistente gruppo di confratelli comboniani (200) che ha voluto contribuire con un proprio documento “Missione: Vivere e lavorare con i più poveri ai margini” condiviso con i capitolari del Capitolo Generale 2009. Questa frase riflette molto bene come questi confratelli comprendono la parola “inserzione” che abbiamo voluto chiamare “globale”:

camminare con gli impoveriti; guardare con i loro occhi; trovare con loro vie di liberazione, riflettendo su una nuova metodologia missionaria capace di trasformare strutturalmente la realtà; crescere con loro in umanità e in spiritualità; discernere sui mezzi e le strutture necessarie per raggiungere questo obiettivo; sostenere la lotta dei più poveri e il loro diritto alla vita in dignità, in qualunque posto ci troviamo, anche attraverso i mass-media, uno strumento potente di advocacy. E l’inserzione fisica è vivere ancora più intensamente ai margini con i più poveri, che non è l’unico modo di fare missione, ma è indubbiamente una realtà nella nostra Famiglia Comboniana. Una forma di inserzione non esclude l’altra,ma entrambe si arricchiscono a vicenda”. (Missione: Vivere e lavorare con i più poveri ai margini, n.2.4)

La missione globale è una relazione di fraternità, con Dio, con i fratelli e sorelle, con la natura e il mondo. La nostra piccola fraternità e comunità (cenacolo di apostoli) sono il cuore dell’inserzione, sia globale che fisica. Può dare potere alla gente verso la liberazione integrale e trasformazione, promuovere un ministero d’amore che diventa riconciliazione, giustizia, pace e integrità del creato.

Inserzione e Gesuiti

Tutti i gesuiti devono lavorare per i poveri; alcuni (e non dovrebbero essere un gruppo piccolo) devono lavorare con i poveri e alcuni devono essere inseriti e vivere come i poveri”.

Questo è un breve passaggio di un più ampio intervento tenuto nel 2003 dal P. Kolvenbach. Non è casuale. Con la sua usuale precisione e sinteticità l’allora Padre Generale non solo richiamava all’attenzione dei suoi interlocutori sul fatto che l’essere per i poveri è un aspetto essenziale della vocazione del gesuita, ma, andando oltre, evidenziava i diversi gradi di coinvolgimento con i poveri che un gesuita può trovarsi a vivere nel suo servizio, citando per ultimo il “vivere come i poveri”. Una dimensione quest’ultima che può risultare ardua ed esigente da realizzare, ma che non è possibile trascurare o accantonare per il valore di annuncio evangelico che possiede.

L’invito di padre Kolvenbach a vivere come i poveri, condividendo la loro quotidianità, non costituiva una novità. Subito dopo il Vaticano II e alcuni capitoli speciali molti religiosi di diverse congregazioni aprirono diverse comunità nei quartieri più disagiati e difficili delle grandi città o nelle aree rurali dimenticate di tutto il mondo. Ben presto queste comunità furono chiamate comunità di inserzione, un’espressione affermatasi perché ne sottolineava la dimensione di vita condivisa con i più poveri.

Possiamo discutere oggi il linguaggio o un termine migliore di “inserzione” e possiamo anche esserne contrari come stile di presenza e di missione. Ma ciò che davvero conta è il contenuto e l’efficacia della missione che ha nei cuori e nella vita della gente, nei singoli e nelle comunità religiose, missionarie e laiche che vivono questa missione d’annuncio e di presenza. Mi diceva qualcuno a Korogocho, una baraccopoli di Nairobi (Kenya) dove ho vissuto per diversi anni: “La vostra presenza qui non è “solo presenza”. La vostra presenza è testimonianza. La vostra presenza è evangelizzazione!” E credo che se ce lo dice la gente, i poveri, dobbiamo esserne contenti ma allo stesso tempo vigilare e continuare ad esserne degni di “esserci con loro”.

Allo stesso tempo l’invito di Konvenbach non è né vecchio né superato. La conferma la troviamo nell’interesse che continua ad essere manifestato da diversi religiosi e missionari, verso questo modo di vita comunitaria. Anche diversi comboniani da diverso tempo hanno vissuto e continuano a vivere esperienze di inserzione in vari contesti emarginati in varie parti del mondo. Dobbiamo rendere grazie di questo ma a volte non è così semplice “essere inseriti” anche volendolo personalmente. Vi sono espliciti riferimenti in tutti i Capitoli Generali dal 1985 al 2009. Ma ancora fa fatica ad entrare pienamente nei nostri cuori e nella nostra “normale e possibile” metodologia missionaria pianificata nelle nostre realtà di missione.

Ma cos’è una comunità d’inserzione?

Vi sono varie tipologie di comunità inserite fisicamente in vari contesti sociali, ma vi sono diversi elementi costanti e presenti in ognuna di loro. L’esperienza ci insegna che: “La comunità d’inserzione è una comunità presente in comunità emarginate, che si impegna in un rispettoso accompagnamento verso il cambiamento strutturale della realtà e cerca di essere al servizio di coloro che ne hanno bisogno “ascoltando” lo Spirito Santo attraverso la Parola, i poveri e gli eventi quotidiani”.

Una comunità d’inserzione (cenacolo di apostoli) si pone come una presenza discreta e rispettosa in ascolto della realtà circostante. Il primo passo è sempre quello di mettersi in sintonia con il vicino, di assumere un atteggiamento di disponibilità, dialogo e accoglienza. Ciò significa fare su sé stessi un lavoro di inculturazione paziente per crescere nella comprensione dei bisogni, desideri e sogni di chi ci circonda. Gradualmente si giunge ad una condivisione non solo del luogo in cui si vive ma anche delle gioie e delle speranze, dei timori e dei dolori, dei sogni e delle delusioni. Si impara a vivere a fianco l’uno dell’altro camminando insieme e imparando reciprocamente. Penso che questo primo passo può essere efficacemente sintetizzato utilizzando i verbi:
ACCOMPAGNARE e COINVOLGERSI.

Il passo successivo è quello di mettersi a loro disposizione per aiutarli a scoprire e ad imparare ad usare quegli strumenti che possono migliorare la loro vita quotidiana così da vivere in modo più dignitoso.

E venne ad abitare in mezzo a noi…” Gv 1,14

Per avviare una comunità/fraternità, la scelta della popolazione e dell’area di destinazione è molto importante. E ci si deve fare molte domande: Le persone a cui ci dedichiamo sono le più povere tra i poveri? L’area di operazione è una nostra scelta o è stata scelta dalla gente che soffre? Siamo interessati ai poveri che non hanno neanche la possibilità di raggiungerci o ai poveri che vengono da noi? Abbiamo mai visitato le persone che sono più oppresse?

La risposta a queste domande ci può aiutare a determinare il tipo di ministero per l’azione evangelizzatrice e sociale che vogliamo intraprendere. Raggiungere gli ultimi deve essere la linea guida per arrivare alle persone di destinazione e alla relativa area di presenza e ministero.

Affinchè abbia la “massima efficacia”, la comunità di inserzione dovrebbe essere costituita da “volontari” cioè persone che sentono di dedicarsi con passione e disponibilità con tutto se stessi e con la consapevolezza di vivere magari in contesti difficili. I “volontari” dovrebbero credere profondamente in Gesù, nei poveri e in Dio che ci parla anche attraverso di loro. Dovrebbero anche credere che siamo tutti uguali davanti a Dio e che Egli prende posto in modo “privilegiato” tra i poveri, gli oppressi, i malati e gli emarginati di ogni età e razza.

L’efficacia” di una comunità d’inserzione dipende principalmente dal ciclo “azione-valutazione critica-riflessione/preghiera- pianificazione-azione”. Ogni elemento del ciclo deve essere preso seriamente e tutte le attività devono seguire questa procedura per aiutarsi a discernere come comunità missionaria e cristiana. L’apertura alla costante evoluzione delle strategie da utilizzare con il gruppo di destinazione deve essere un criterio importante per dare inizio a qualsiasi missione di azione evangelizzatrice, sociale e comunitaria.

Lo stile di vita, testimonianza e preghiera di una comunità di inserzione dovrebbe sostenere pienamente il ministero dell’azione sociale che si è intrapreso. Dovrebbe pertanto essere tale da consentire al povero di venire da noi senza difficoltà alcuna. Ma in genere, le nostre strutture di missione e in Europa tendono a tener lontano le persone e i poveri: reticolati, alti muri, guardiani, cani e tanto altro. La comunità d’inserzione deve avere come fondamento la dimensione dell’ospitalità della gente e dei poveri e di fedeltà alla presenza costante e continua sul territorio nel servizio ministeriale e sociale.

Domande aperte e sfide…

L’esperienza e la riflessione hanno fatto emergere alcune domande di fondo sulle comunità d’inserzione. Ha ancora senso parlare di comunità d’inserzione? In che modo una comunità comboniana, che gode in ogni caso di una stabilità e sicurezza maggiore di una famiglia comune, condivide la vita dei poveri? Quali sono i contesti sociali che oggi richiedono una presenza di questo tipo? In che senso questa presenza rappresenta un movimento verso le frontiere? Quale tipo di servizio evangelico viene reso dai comboniani che vi sono impegnati? Le comunità d’inserzione sono importanti oggi? Sono state abbandonate perché non ci sono più volontari? Queste sono domande ancora aperte e tuttora valide per ogni comboniano e per la nostra leadership attuale dell’istituto a tutti i livelli: direzione generale e provinciale. Credo che il rinnovamento del nostro vivere la missione passi anche attraverso queste presenze che vogliono esporsi allo soffio dello Spirito ma anche alla dura realtà della vita nel mondo.

DINAMICHE E METODOLOGIA MISSIONARIA DELLE COMUNITA’ INSERITE



Presenza Operare per il cambiamento strutturale Rispettoso coinvolgimento/accompagnamento Servizio


Cenacolo di Apostoli/Piccole Fraternità Salvare l’Africa con l’Africa Far Causa Comune con i poveri/la gente Rigenerazione

Capitoli dopo Capitoli ribadiamo…

Cominciando dai capitoli degli anni 80 ad oggi, abbiamo ribadito molto spesso una opzione preferenziale per i poveri. Nell’ultimo capitolo del 2009 si è voluto sottolinearlo in questo modo:

Ribadiamo la nostra scelta preferenziale per i poveri (ad pauperes)”:

  1. sull’esempio del nostro Fondatore, privilegiamo i popoli o gruppi più bisognosi a livello di fede e di condizioni di esistenza (cfr. RV 5; RF 86-88);
  2. sensibili ed attenti alle nuove forme di schiavitù, ci sentiamo chiamati a denunciare le ingiustizie e a proclamare la Parola che libera e promuove la vita in pienezza (cfr. RV 61);
  3. questa scelta ci impegna a vivere più radicalmente il nostro voto di povertà, guardando la realtà con gli occhi dei poveri, coltivando il senso della “com-passione” e attuando la missione con uno stile di vita sobrio, vicino alla gente, e con semplicità di mezzi (cfr. RV 29; 45).”

(Atti Capitolari 2009, n. 5.4 abc)

“Conformare il nostro stile di vita all’opzione preferenziale per i poveri, cercando un maggior avvicinamento delle nostre comunità alla vita concreta della gente attraverso la conoscenza della loro lingua, cultura, usi, costumi, storia, e favorendo esperienze comunitarie d’inserzione radicale, in dialogo con la Circoscrizione e la Chiesa locale.” (Atti Capitolari 2009, n. 7.4)

Purtroppo la realtà di oggi del nostro istituto non facilita questo stile di vita e presenza soprattutto perché la nostra spiritualità si sta indebolendo e assumendo sempre più stili di vita borghese e individualista con il pericolo sempre più chiaro di allontanarci dalla gente e dai poveri. Come ci rivela chiaramente il Capitolo 2009:

“ Il processo di discernimento della Ratio Missionis, che ci ha visti coinvolti in questi ultimi anni, ci ha fatto constatare che la nostra spiritualità è debole e che gradualmente abbiamo assunto un modo di vivere individualista e borghese, che non favorisce la vita fraterna e toglie credibilità alla nostra testimonianza missionaria. La nostra fede rimane spesso lontana dalla vita e dalla realtà della gente. Talvolta, riduciamo la nostra spiritualità a un ritualismo religioso che non raggiunge il cuore della nostra vita missionaria. D’altra parte, senza una pratica concreta e costante, la fede finisce per spegnersi.” (Atti Capitolari 2009, n. 17)

Questo è il punto di ripartenza per un serio e doveroso rinnovamento personale e comunitario. Il rischio di affievolirci nella fede è reale se non riusciamo noi stessi ad entrare nella dinamica di “rigenerazione” e apertura della nostra vita che passa attraverso la Preghiera, la Parola, Comunione Fraterna, il Servizio alla gente e ai più poveri lasciandoci coinvolgere pienamente nelle loro lotte e speranze.

Lavorare con i poveri, per i poveri, come poveri è un’esperienza coinvolgente che cambia la vita. E non a senso unico. E Comboni l’ha sperimentato prima di ognuno di noi. Dio ci spinge a liberare gli altri dall’oppressione che soffrono ma ci spinge anche a liberare noi stessi. E liberati, a liberare gli altri. Dio quindi, ci manda alle vittime per liberarle. E le vittime, a loro volta, ci rimandano a Dio.

E Dio lo troviamo nel vivere quotidiano dei poveri, nella loro fermezza e resistenza, nella loro dignità e speranza che possiamo intuire quando ci avviciniamo a loro con le loro sofferenze e croci quotidiane da portare ma sempre con una grande Speranza. Lì si affaccia Dio. Il Dio dei poveri e delle vittime.

Far causa comune, nella mia esperienza personale, e’ sentire questa passione e lotta, cadute e resurrezioni quotidiane, bene e male, vita e morte dei poveri di Korogocho, del Sudan e dei popoli che vogliamo servire.

La povertà è un segno dei tempi

A volte tendiamo a dare ai segni dei tempi solo una connotazione positiva, ma ve ne è anche una negativa. Ed è per questo che che si tratta di discernere tali segni per verificare quanto ci dice della Rivelazione dell’amore di Dio o quanto gli si oppone. La povertà si presenta come un fatto di massa. Ma come dire al povero che Dio lo ama? La vita quotidiana del povero sembra essere precisamente la negazione dell’amore.

E Comboni ha tradotto questo Amore di Dio per i Neri attraverso la sua persona, in una lettera che scrisse al Cardinal Barnabò per comunicargli la sua determinazione e passione per la Nigrizia:

La lacrimevole miseria dei poveri Negri pesa immensamente sul mio cuore, e non vi è sacrificizio ch’io non mi senta disposto ad abbracciare, per il loro bene. Se l’Em. V. non approverà un Piano, io ne farò un altro: se non accoglierà questo, ne apparecchierò un terzo, e così di seguito fino alla morte”(S 1011).

Così dicendo e facendo Comboni si espone esplicitamente di fronte al Cardinale e alla Chiesa ad una opzione preferenziale per i più poveri e abbandonati del suo tempo. Credo che questa dimensione sia da assumere in maniera seria e coerente per ogni membro dell’Istituto proprio in questo tempo così difficile e complesso, per riscoprire pienamente quella passione e amore per la vita, per il povero e il Mistero che Comboni ci ha testimoniato.

Ma cosa significa Opzione o preferenza per i poveri?

Una delle sue fonti è l’espressione pronunciata da Giovanni XXIII l’11 settembre 1962, un mese esatto prima dell’inizio del Concilio: “che la Chiesa è e vuole essere la Chiesa di tutti e particolarmente la Chiesa dei poveri”.

Povero, povertà. Parlando dell’opzione per il povero è chiaro che ci riferiamo al povero reale, perché il povero spirituale è un’altra cosa. Povertà spirituale è sinonimo di infanzia spirituale, che è l’affidarsi di un credente a Dio, il porre la propria vita nelle mani di Dio. Bisogna essere un povero spirituale per fare un’opzione per il povero reale. La parola povero evoca immediatamente l’aspetto economico che infatti è un aspetto della povertà. Ma nella Bibbia, il povero non è solo quello che non dispone di risorse economiche. Nella Bibbia è povero colui che è “insignificante”. Si può essere poveri per ragioni economiche, ma anche culturali, razziali, colore della pelle, sesso ecc.

Insignificanti” per l’uomo ma non per Dio! La povertà nel passato era vista come fatalità. Alcuni nascevano ricchi e altri poveri. Nel passato si parlava anche di due tipi di doveri del cristiano: per i ricchi generosità e per i poveri umiltà e gratitudine. Oggi nell’umanità è presente l’idea che la povertà ha delle cause, e che queste cause sono le strutture sociali ed economiche ma anche mentali (cultura superiore alle altre….). La povertà non è destino ma una condizione. Non è una disgrazia ma un’ingiustizia e siamo quindi chiamati ad andare contro le cause della povertà. Passare dalla Carità all’azione di Giustizia. Questa coscienza è avanzata con molta lentezza in ambienti cristiani e tuttora per molte persone e anche qualche missionario l’impegno con i poveri è solo l’aiuto immediato e diretto al povero, di assistenza. L’aiuto immediato è necessario e importante ma non è più sufficiente. Perchè è cambiata la nostra percezione di quello che è la povertà.

Nell’insegnamento della Chiesa questa prospettiva è entrata con una certa lentezza: prima Giovanni XXIII con la “Pacem in Terris”, poi Paolo VI con la “Populorum Progressio”, Giovanni Paolo II che è il Papa che più parla delle cause della povertà e infine Benedetto XVI con “Caritas in Veritate”.

Preferenza

La parola “preferenza” non possiamo comprenderla se non la mettiamo in relazione con l’universalità dell’amore di Dio. Dio ama tutte le persone, nessuno escluso: povero, ricco, bianco, nero, tutti sono amati da Dio. E Comboni ce lo ha insegnato proprio nella sua vita e testimoniato nella sua omelia di Khartoum. Ma allo stesso tempo Dio preferisce gli ultimi, i più poveri. C’è tensione non contraddizione.

Amare i poveri è tentare di essere fedele al Dio di Gesù e la ragione di occuparsi dei poveri non è perché il povero è buono, ma perché Dio è buono. La ragione è la bontà di Dio, la bontà gratuita, che non dipende dai meriti di una persona.

Opzione

La povertà come impegno e solidarietà con il povero e protesta contro la povertà. L’opzione per il povero è compito di ogni cristiano, povero o no. Non bisogna cercare di essere insignificanti ma bisogna cercare di essere impegnati al loro fianco.

Le persone di Chiesa, gli operatori pastorali, qualunque siano le loro radici e origini sociali, sono persone che molto spesso hanno la loro residenza in un mondo diverso e lontano, che non è del povero. Il mondo del povero spesso si presenta come un campo di lavoro e di ministero ma non di residenza. Il mondo del povero è conflittuale, complicato, pericoloso, difficile. Dobbiamo convertirci come missionari e religiosi a portare il nostro mondo nel mondo del povero, avere la nostra casa lì e da lì uscire ogni mattina ad annunciare il Vangelo della Vita ad ogni persona.

La povertà significa morte: morte prematura e morte ingiusta. Malattie, malnutrizione, criminalità, mancanza di dignità significano morte. Gli antropologi dicono che la cultura è vita: quando io disprezzo una cultura, uccido culturalmente chi fa parte di questa cultura. Quando non si riconosce la pienezza dei diritti umani di una persona in qualche modo la si sta uccidendo. Questa è la povertà e morte. E noi cristiani dobbiamo essere testimoni della vittoria della vita sulla morte, della Resurrezione! Optare sempre per la Vita!

Cercando Dio!

La parola spiritualità è recente nella Chiesa: viene da ambienti francesi del XVII secolo. Fino a quel momento si parlava piuttosto di sequela di Gesù. Spiritualità viene dallo Spirito, con la maiuscola, non dallo spirito come sinonimo di anima. Non è un comportamento in accordo con la parte più nobile dell’essere umano, ma è secondo lo Spirito Santo. Optare in maniera preferenziale per i poveri è un cammino spirituale, una sequela di Gesù. Questo è il livello più profondo dell’opzione preferenziale dei poveri. La sequela di Gesù è inseparabile dalla riflessione, e soprattutto è inseparabile dall’annuncio. Nessuno può seguire Gesù senza annunciare il Vangelo. Nessuno può seguire Gesù senza pensare e vivere la fede. E l’essere umano che pensa e vive la sua fede sta facendo teologia. Sta cercando il volto di Dio! Evangelizziamo perché vogliamo condividere la gioia che produce il sapere che siamo amati da Dio. La fonte di gioia di un cristiano è sapersi amato da Dio. E chi vive una gioia vuole comunicarla: un’esperienza spirituale di gioia. Non di una gioia facile ma di una gioia pasquale che passa attraverso la sofferenza, la croce e la morte ma che alla fine è gioia autentica. E allora credo che dobbiamo recuperare con più radicalità questa tensione alla sequela di Cristo per riscoprire ancor di più la voglia di vivere la missione in modo più radicale!

Il vivere in una realtà di comunità inserita porta già in sé un messaggio implicito: un linguaggio profetico, della giustizia e un linguaggio della gratuità e del servizio che è contemplativo: senza contemplazione, preghiera, meditazione non c’è vita cristiana. Senza impegno storico e concreto neppure! Unire questi due linguaggi nella ricerca personale e comunitaria di Dio è un modo di comunicare il Vangelo. E nelle comunità inserite si tenta di vivere e “usare” questi due linguaggi seguendo le orme del “figlio del carpentiere” senza mai dimenticare il “figlio del giardiniere”!

p. Daniele MoschettiMissionario Comboniano