Testo della quinta riflessione spirituale tenuta il 3 ottobre dal frate domenicano ed ex maestro dell’Ordine dei Predicatori ai partecipanti all’assemblea generale del Sinodo dei Vescovi, riuniti in ritiro alla “Fraterna Domus” di Sacrofano

Meditazione n. 5
Autorità

Non può esserci conversazione feconda tra noi se non riconosciamo che ognuno di noi parla con autorità. Siamo tutti battezzati in Cristo: sacerdote, profeta e re. La Commissione Teologica Internazionale sul sensus fidei cita san Giovanni: “Ora voi avete l’unzione ricevuta dal Santo e tutti avete la scienza”. “E quanto a voi, l’unzione che avete ricevuto da lui rimane in voi e non avete bisogno che alcuno vi ammaestri; […] la sua unzione vi insegna ogni cosa” (1 Giovanni 2, 20, 27).

Durante la preparazione del sinodo molti laici sono rimasti sorpresi di scoprire che, per la prima volta, venivano ascoltati. Avevano messo in dubbio la propria autorità e domandato: “Davvero posso fare qualcosa?” (IL B.2.53). Ma non sono solo i laici a mancare di autorità. L’intera Chiesa è affetta da una crisi di autorità. Un arcivescovo asiatico si è lamentato di non avere autorità. Ha detto: “I preti sono tutti baroni indipendenti che fanno come se non esistessi”. Anche molti sacerdoti affermano di aver perso ogni autorità. La crisi degli abusi sessuali ci ha screditati.

Tutto il nostro mondo sta vivendo una crisi di autorità. Tutte le istituzioni hanno perso autorità. I politici, la legge, la stampa, tutti hanno sentito sfuggire di mano l’autorità. L’autorità sembra sempre appartenere ad altri: o ai dittatori che stanno prendendo il potere in molti luoghi, o ai nuovi media, o alle celebrità e gli influencer. Il mondo ha fame di voci che parlino con autorità del significato della nostra vita. Voci pericolose minacciano di riempire il vuoto. È un mondo alimentato non dall’autorità, ma da contratti – perfino in famiglia, all’università e nella Chiesa.

Quindi in che modo la Chiesa può recuperare l’autorità e parlare al nostro mondo che ha fame di voci che suonino vere? Luca ci racconta che quando Gesù insegnava “rimanevano colpiti dal suo insegnamento, perché parlava con autorità” (Luca 4, 32). Egli comanda ai demoni ed essi obbediscono. Anche il vento e il mare gli obbediscono. Ha perfino l’autorità di chiamare in vita il suo amico morto: “Lazzaro, vieni fuori!” (Giovanni 11, 43). Quasi le stesse parole che troviamo alla fine del vangelo di Matteo: “Mi è stato dato ogni potere in cielo e in terra”.

Ma verso la metà dei vangeli sinottici, a Cesarea di Filippo, c’è una forte crisi di autorità, che fa sembrare nulla quella contemporanea! Gesù dice ai suoi amici più stretti di dover andare a Gerusalemme dove soffrirà, morirà e resusciterà. Loro non accettano la sua parola. Quindi Gesù li porta sul monte ed è trasfigurato davanti ai loro occhi.

La sua autorità viene rivelata attraverso il prisma della sua gloria, come anche attraverso la testimonianza di Mosè ed Elia. È un’autorità che tocca le loro orecchie e i loro occhi, i loro cuori e le loro menti. La loro immaginazione! Finalmente ora lo ascoltano!

Pietro è pieno di gioia: è bello per noi essere qui. Come ha detto Teilhard de Chardin, “la gioia è il segno infallibile della presenza di Dio”. È questa la gioia di cui ha parlato suor Maria Ignazia questa mattina, la gioia di Maria. Senza gioia, nessuno di noi ha alcuna autorità. Nessuno crede a un cristiano triste! Nella Trasfigurazione, questa gioia scaturisce da tre fonti: bellezza, bontà e verità. Potremmo citare altre forme di autorità. Nell’Instrumentum laboris viene sottolineata l’autorità dei poveri. C’è l’autorità della tradizione e della gerarchia con il suo ministero di unità.

Ciò a cui accennerei questa mattina è che le autorità sono molteplici e si rafforzano reciprocamente. Non deve per forza esservi competizione, come se i laici potessero avere più autorità solo se i vescovi ne avessero meno, o i cosiddetti conservatori gareggiassero per l’autorità con i progressisti. Potremmo essere tentati di invocare il fuoco su coloro che consideriamo contrari a noi, come i discepoli nel vangelo odierno (Luca 9, 51-56). Ma nella Trinità non c’è rivalità. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo non competono per il potere, proprio come non c’è competizione tra i nostri quattro Vangeli.

Parleremo con autorità al nostro mondo perduto se in questo sinodo trascenderemo i modi di esistenza competitivi. Allora il mondo riconoscerà la voce del pastore che li chiama alla vita. Esaminiamo questa scena sul monte e vediamo l’interazione di diverse forme di autorità.

Bellezza

Prima c’è la bellezza o la gloria. Le due parole sono praticamente sinonime in ebraico. Il vescovo Robert Barron da qualche parte ha detto – e ti chiedo perdono, vescovo Bob, se ti cito male – che la bellezza può raggiungere le persone che rifiutano altre forme di autorità. Una visione morale può essere percepita come moralistica: “Come osi dirmi come vivere la mia vita?”. L’autorità della dottrina può essere rifiutata come oppressiva: “Come osi dirmi che cosa pensare?”. Ma la bellezza ha un’autorità che raggiunge la nostra libertà intima.

La bellezza apre la nostra immaginazione al trascendente, la cui patria aneliamo. Il poeta gesuita Gerard Manley Hopkins definisce Dio colui “che è Lui bellezza, che dà bellezza”. San Tommaso d’Aquino afferma che essa rivela il fine ultimo della nostra vita, come il bersaglio verso il quale mira l’arciere (2).

Non c’è da meravigliarsi che Pietro non sappia che cosa dire. La bellezza ci porta oltre le parole. Qualcuno ha detto che ogni adolescente ha qualche esperienza di bellezza trascendente. Se non hanno delle guide, come i discepoli che avevano Mosè ed Elia, quel momento passa. Quando ero ancora un sedicenne in una scuola benedettina, ho vissuto un tale momento nella grande chiesa abbaziale e ho avuto dei monaci saggi per aiutarmi a comprendere.

Ma non tutta la bellezza parla di Dio. I capi nazisti amavano la musica classica. Nella solennità della Trasfigurazione, su Hiroshima è stata sganciata una bomba atomica come odiosa parodia della luce divina. La bellezza può ingannare e sedurre. Gesù ha detto: “Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume” (Matteo 23, 27).

Ma la bellezza divina del monte risplenderà fuori dalla Città Santa quando la gloria del Signore verrà rivelata sulla croce. La bellezza di Dio viene dischiusa nella maniera più splendente in ciò che appare più brutto. Bisogna andare in luoghi di sofferenza per scorgere la bellezza di Dio.

Etty Hillesum, la mistica ebrea attratta dal cristianesimo, la trovò perfino in un campo di concentramento nazista: “Voglio essere lì, nel fitto di quello che le persone chiamano ‘orrore’ e poter continuare a dire ‘la vita è bella’” (3). Ogni rinnovamento della Chiesa è stato accompagnato da una rinascita estetica: l’iconografia ortodossa, il canto gregoriano, il barocco della Controriforma (che non è esattamente il mio preferito!). La Riforma è stata in parte uno scontro di visioni estetiche. Di quale rinnovamento estetico abbiamo bisogno, oggi, per aprire uno scorcio sulla trascendenza, specialmente nei luoghi di desolazione e di sofferenza? Come possiamo dischiudere oggi la bellezza della croce?

Quando i primi domenicani arrivarono in Guatemala nel XVI secolo, la bellezza spianò loro la strada per condividere il vangelo con il popolo indigeno. Rifiutarono la protezione dei conquistadores spagnoli. I religiosi insegnarono ai mercanti indigeni locali inni cristiani da cantare quando si spostavano tra le montagne per vendere le loro merci. Ciò aprì la strada ai confratelli che poi poterono muoversi in sicurezza nella regione ancora oggi conosciuta come Vera Paz. Vera Pace. Ma alla fine arrivarono i soldati e uccisero non soltanto gli indigeni, ma anche i nostri confratelli che cercavano di proteggerli.

Quali canzoni possono penetrare il nuovo continente dei giovani? Chi sono i nostri musicisti e poeti? Quindi la bellezza apre l’immaginazione all’ineffabile fine del cammino. Ma, come Pietro, potremmo essere tentati di rimanere lì. Occorrono altre forme di impegno immaginativo per farci scendere dal monte per il primo sinodo sulla via di Gerusalemme. Ai discepoli vengono offerti due interpreti di ciò che vedono, Mosè ed Elia, la legge e i profeti. O della bontà e della verità.

Bontà

Mosè ha guidato Israele dalla schiavitù alla libertà. Gli israeliti non desideravano andare. Avevano fame della sicurezza dell’Egitto. Temevano la libertà del deserto, proprio come i discepoli temono di andare a Gerusalemme. Ne I fratelli Karamazov di Dostoevskij, il Grande Inquisitore afferma che “nulla è stato mai più insopportabile per l’umanità e la società della libertà… Alla fine deporranno la loro libertà ai nostri piedi e ci diranno: ‘Meglio che ci rendiate schiavi, ma ci diate da mangiare’”

I santi hanno l’autorità del coraggio. Ci sfidano a metterci in cammino. Ci invitano ad affrontare con loro la rischiosa avventura della santità. Santa Teresa Benedetta della Croce è nata in una famiglia ebrea osservante, poi, da adolescente, è diventata atea. Ma quando, per sbaglio, ha preso in mano l’autobiografia di santa Teresa d’Avila, l’ha letta per tutta la notte. Affermò: “Quando ebbi finito il libro, dissi a me stessa: è questa la verità”. Fu questo a portarla alla morte ad Auschwitz. È questa l’autorità della santità. Ci invita ad abbandonare il controllo della nostra vita e a consentire a Dio di essere Dio.

Il libro più popolare del XX secolo è stato Il signore degli anelli di J.R.R. Tolkien. È un romanzo profondamente cattolico. Lui sosteneva che fosse la storia dell’Eucaristia. I martiri erano le primissime autorità nella Chiesa, poiché con coraggio avevano dato tutto. G.K. Chesterton ha detto: “Il coraggio è quasi una contraddizione in termini, perché significa un forte desiderio di vivere che assume la forma di una disponibilità a morire” (4). Abbiamo paura di presentare la pericolosa sfida della nostra fede? Herbert McCabe, OP, ha detto “se ami, verrai ferito, forse ucciso. Se non ami sei già morto”. I giovani non sono attratti dalla nostra fede se noi l’addomestichiamo.

“L’amore perfetto scaccia il timore” (1 Giovanni 4, 18). Frate Michael Anthony Perry, OFM, già Ministro Generale dei Francescani, ha detto: “Nel battesimo abbiamo rinunciato al diritto di avere paura” (5). Io direi che abbiamo rinunciato al diritto di essere resi schiavi dalla paura. I coraggiosi conoscono la paura. Avremo autorità nel nostro mondo pieno di paure solo se la gente vedrà che rischiamo tutto. Quando i nostri fratelli e sorelle europei sono andati a predicare il vangelo in Asia quattro secoli fa, metà di loro è morta ancor prima di arrivare, di malattia, naufragio, pirati. Noi avremmo lo stesso folle coraggio?

Henri Burin de Roziers (1930-2017) era un avvocato domenicano francese, di base nell’Amazzonia brasiliana. Ha portato in tribunale i grandi proprietari terrieri che spesso rendono schiavi i poveri, costringendoli a lavorare nelle loro vaste proprietà e uccidendoli se tentano di fuggire. Henri ha ricevuto tantissime minacce di morte. Gli è stata offerta la protezione della polizia, ma sapeva che molto probabilmente sarebbero stati proprio loro ad ucciderlo. Quando mi fermai da lui, mi offrì la sua stanza per la notte. Il giorno dopo mi disse che non era riuscito a dormire per paura che arrivassero e, invece di prendere lui, per sbaglio prendessero me!

Quindi l’autorità della bellezza parla della fine del viaggio, della patria che non abbiamo mai visto. L’autorità della santità parla del viaggio che dobbiamo compiere se vogliamo arrivare. È l’autorità di quanti danno la propria vita. Il poeta irlandese Pádraig Pearse ha proclamato: “Ho sperperato gli splendidi anni che il Signore Dio ha donato alla mia giovinezza – nel cercare di fare cose impossibili, ritenendo che fossero le sole a valere la fatica. Signore, se avessi gli anni li sperpererei di nuovo. Li scaglio via da me” (6).

Verità

Poi c’è Elia. I profeti sono coloro che dicono la verità. Ha visto attraverso le fantasie dei profeti di Baal e ha sentito la voce ancora sottile del silenzio sul monte. Veritas, verità, il motto dell’Ordine Domenicano. Mi ha attirato verso i domenicani ancor prima che ne incontrassi uno, il che forse è stato provvidenziale!

Il nostro mondo si è disamorato delle verità: fake news, affermazioni selvagge in internet, folli teorie cospirazioniste. Tuttavia, sepolto nell’umanità c’è un istinto inestirpabile per la verità, e quando questa viene detta, ha qualche ultimo vestigio di autorità. L’Instrumentum laboris non teme di essere sincero riguardo alle sfide che dobbiamo affrontare. Parla apertamente delle speranze e delle preoccupazioni, della rabbia e della gioia del popolo di Dio. Come possiamo attirare la gente verso Colui che è la verità se non siamo sinceri riguardo a noi stessi?

Permettetemi di menzionare solo due modi in cui questa tradizione profetica di dire la verità è necessaria. Anzitutto nel parlare sinceramente delle gioie e delle sofferenze del mondo. A Hispaniola, Bartolomeo de Las Casas aveva condotto una vita mediocre fino a quando, nell’Avvento del 1511, lesse il sermone di Antonio de Montesinos, OP, che si confrontava con i conquistadores e la riduzione in schiavitù della popolazione indigena: “Ditemi per quale diritto o per quale interpretazione della giustizia mantenete gli indios in questa crudele e orribile servitù? Per quale autorità avete mosso queste detestabili guerre contro persone che un tempo vivevano tranquille e pacifiche nella loro terra?”. Las Casas lo lesse, sapendo che era vero, e si pentì. Quindi, in questo sinodo ascolteremo persone che parleranno con sincerità delle “gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi” (Gaudium et spes, n. 1).

Per la verità occorre anche un sapere disciplinato che resista alla nostra tentazione di usare la Parola di Dio e l’insegnamento della Chiesa per i nostri scopi. “Dio deve avere ragione perché concorda con me!”. I biblisti, per esempio, ci rimandano ai testi originali nella loro estraneità, nella loro diversità. Quando ero in ospedale, un infermiere mi disse che avrebbe voluto conoscere il latino così da poter leggere la Bibbia nella lingua originale. Non ho detto nulla! I veri studiosi si oppongono a ogni tentativo semplicistico di arruolare le Scritture o la tradizione per le nostre campagne personali. La Parola di Dio appartiene a Dio. Ascoltatelo. Non possediamo la verità. È la verità a possedere noi.

Ogni amore ci apre alla verità degli altri. Scopriamo come, in un certo senso, rimangono imperscrutabili. Non possiamo prenderne possesso e utilizzarli per i nostri fini. Li amiamo nella loro alterità, nella loro incontrollabile libertà.

Così, sul monte della Trasfigurazione, vediamo che vengono invocate differenti forme di autorità per guidare i discepoli oltre la grande crisi di autorità a Cesarea di Filippo. Tutte queste, e altre ancora, sono necessarie. Senza verità, la bellezza può essere vacua. Come ha detto qualcuno, “la bellezza sta alla verità come la bontà sta al cibo”. Senza bontà la bellezza può ingannare. La bontà senza verità cade nella sdolcinatezza. La verità senza bontà porta all’Inquisizione. San John Henry Newman ha usato belle parole per parlare delle molteplici forme di autorità, governo, ragione ed esperienza.

Tutti noi abbiamo autorità, ma in maniera diversa. Newman ha scritto che se l’autorità del governo diventa assoluta, è tirannica. Se la ragione diventa l’unica autorità, cade nell’arido razionalismo. Se l’esperienza religiosa diventa la sola autorità, allora vince la superstizione. Un sinodo è come un’orchestra con i diversi strumenti, ognuno con la propria musica. È per questo che la tradizione gesuita del discernimento è tanto feconda. Alla verità non si giunge per voto maggioritario, proprio come non si guidano un’orchestra o una squadra di calcio votando!

L’autorità della guida certamente assicura che la conversazione della Chiesa sia feconda, che nessuna voce prevalga sulle altre e le soffochi. Discerne l’armonia nascosta. Jonathan Sacks, rabbino capo della Gran Bretagna, ha scritto: “In tempi turbolenti, per i leader religiosi c’è la tentazione quasi irrefrenabile di essere conflittuali. Non solo occorre proclamare la verità, ma bisogna anche denunciare la falsità. Le scelte devono essere presentate come divisioni nette. Non condannare significa condonare”. Tuttavia, afferma, “un profeta non ascolta un solo imperativo, ma due: guida e compassione, l’amore per la verità e una continua solidarietà con coloro per i quali la verità è diventata oscura. Preservare la tradizione e al tempo stesso difendere coloro che altri condannano è il compito difficile e necessario della guida religiosa in un’epoca secolare” (7).

Tutto il potere proviene dal nostro Dio Uno e Trino, colui nel quale tutto è condiviso. Il teologo italiano Leonardo Paris afferma: “Il Padre condivide il suo potere. Con tutti. E configura tutto il potere come condiviso… Non è più possibile citare Paolo – ‘Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù’ (Galati 3, 28) – e fare appello alla sinodalità, senza riconoscere che ciò significa trovare forme storiche concrete, di modo che ognuno si riconosca come avente il potere che il Padre ha voluto affidargli” (8).

Se la Chiesa diventerà davvero una comunità di conferimento reciproco di poteri, allora parleremo con l’autorità del Signore. Diventare una tale Chiesa sarà doloroso e bello. È questo che approfondiremo nell’ultima meditazione.

Note:

(1) The Golden Echo (L’eco d’oro)

(2) ST III, 45

(3) An Interrupted Life: The Diaries and Letters of Etty Hillesum 1941 – 43, Persephone Books, London, 2007, p. 276

(4) Orthodoxy, London 1996, p. 134

(5) Benotti, p. 66

(6) Citato dal cardinale Murphy O’Connor, “Fiftieth Anniversary of Priesthood”, in Daniel P. Cronin, Priesthood: A Life Open to Christ (St Pauls Publishing, London, 2009), p. 134.

(7) “Elijah and the Still, Small Voice”, http://www.rabbisacks.org/covenant conversation/pinchas/elijah-and-the-still-small-voice

(8) cfr. Leonardo Paris, L’erede. Una cristologia, Queriniana, 2021, pp. 220-221. Prossimamente pubblicato anche in inglese da Brill, con una prefazione di Massimo Faggioli