Meditazione n. 2
“A casa in Dio e Dio a casa in noi”
Timothy Radcliffe
Speranza, casa, amicizia, conversazione: sono le quattro parole-chiave sulle quali si è soffermato il padre domenicano Timothy Radcliffe. Partecipante alla xvi Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi in qualità di assistente spirituale, padre Radcliffe ha tenuto quattro meditazioni durante il ritiro che i membri, i delegati fraterni e gli invitati speciali dell’Assise hanno avuto dal 1 al 3 ottobre, a Sacrofano, vicino Roma.
Giungiamo a questo Sinodo con speranze contrastanti. Ma ciò non deve essere un ostacolo insuperabile. Siamo uniti nella speranza dell’Eucaristia, una speranza che abbraccia e trascende tutto ciò che desideriamo.
Eppure c’è un’altra fonte di tensione. La nostra concezione della Chiesa come casa a volte è contrastante. Ogni creatura vivente ha bisogno di una casa per poter prosperare. I pesci hanno bisogno di acqua e gli uccelli di nidi. Senza una casa, non possiamo vivere. Le diverse culture hanno concezioni diverse di ciò che sia la casa. L’Instrumentum Laboris ci dice che “l’Asia ha offerto l’immagine della persona che si toglie le scarpe per varcare la soglia, come segno di umiltà per disporsi all’incontro con l’altro e con Dio; l’Oceania ha proposto l’immagine della barca; l’Africa ha insistito sull’immagine della Chiesa famiglia di Dio, capace di offrire appartenenza e accoglienza a tutti i suoi componenti, nella loro varietà” (B 1,2). Ma tutte queste immagini mostrano che abbiamo bisogno di un luogo in cui poter essere accettati e allo stesso tempo sfidati. A casa siamo ci affermiamo per quello che siamo e veniamo invitati a essere di più. La casa è il luogo in cui veniamo conosciuti e amati, dove siamo al sicuro, ma è anche il luogo anche in cui siamo sfidati a intraprendere l’avventura della fede.
Dobbiamo rinnovare la Chiesa intesa come casa comune se vogliamo parlare a un mondo che soffre di una crisi dovuta alla mancanza di casa. Stiamo consumando la nostra piccola casa planetaria. Ci sono più di 350 milioni di migranti in movimento, in fuga da guerre e violenze. Migliaia di persone muoiono attraversando i mari per provare a trovare una casa. Nessuno di noi può sentirsi completamente a casa se non lo sono loro. Anche nei Paesi ricchi, milioni di persone dormono per strada. I giovani spesso non possono permettersi una casa. Ovunque c’è una terribile mancanza di casa spirituale. L’individualismo spinto, la disgregazione della famiglia, le disuguaglianze sempre più profonde fanno sì che siamo afflitti da uno tsunami di solitudine. I suicidi sono in aumento perché senza una casa, fisica e spirituale, non si può vivere. Amare è tornare a casa da qualcuno.
Cosa ci insegna la scena della Trasfigurazione riguardo alla nostra casa, sia nella Chiesa che nel nostro mondo diseredato? Gesù invita la sua cerchia più intima di amici a separarsi da lui e a godere di questo momento di intimità. Anche loro saranno con lui nel Getsemani. Questa è la cerchia più intima di coloro con cui Gesù si sente più a suo agio. Sul monte concede loro la visione della sua gloria. Pietro vuole aggrapparsi a questo momento. “Rabbì, è bello per noi essere qui; facciamo tre dimore, una per te, una per Mosè e una per Elia”. È giunto e vuole che questo momento intimo duri.
Ma essi sentono la voce del Padre. “Ascoltatelo!”. Devono scendere dal monte e camminare verso Gerusalemme, senza sapere cosa li aspetta. Saranno dispersi e inviati ai confini della terra per essere testimoni della nostra dimora definitiva, il Regno. Vediamo quindi due concezioni di casa: la cerchia ristretta con Gesù sul monte e la chiamata alla nostra casa definitiva, il Regno, a cui tutti apparterremo.
Similmente, diverse concezioni della Chiesa come casa ci dividono oggi. Per alcuni questa è definita dalle sue antiche tradizioni e devozioni, dalle sue strutture e dal suo linguaggio ereditati, dalla Chiesa in cui siamo cresciuti e che amiamo. Essa ci dà una chiara identità cristiana. Per altri, la Chiesa attuale non sembra essere una casa sicura. Viene vissuta come esclusiva, emarginando molte persone, le donne, i divorziati e i risposati. Per alcuni è troppo occidentale, troppo eurocentrica. L’Instrumentum Laboris cita anche i gay e le persone che vivono in matrimoni poligami. Essi desiderano una Chiesa rinnovata in cui sentirsi pienamente a casa, riconosciuti, affermati e sicuri.
Da alcuni l’idea di un’accoglienza universale, in cui tutti siano accettati indipendentemente da chi siamo, è sentita come distruttiva dell’identità della Chiesa. Come in una canzone inglese del XIX secolo, “Se tutti sono qualcuno, allora nessuno è nessuno”[1]; essi credono che l’identità richieda dei confini. Per altri, invece, l’apertura è il cuore stesso dell’identità della Chiesa. Papa Francesco ha detto: “La Chiesa è chiamata ad essere la casa del Padre, con le porte sempre spalancate… dove c’è posto per tutti, per ognuno con i suoi problemi, per andare incontro a chi sente il bisogno di riprendere il proprio cammino di fede” [2].
Questa tensione è sempre stata al centro della nostra fede, fin da quando Abramo lasciò Ur. Nell’Antico Testamento ci sono due cose in perenne tensione tra loro: l’idea dell’elezione, del popolo eletto da Dio, del popolo con cui Dio dimora. Questa è un’identità che viene custodita. Ma ci sono anche l’universalismo, l’apertura a tutte le nazioni, un’identità ancora da scoprire.
L’identità cristiana è allo stesso tempo conosciuta e sconosciuta, data e da ricercare. San Giovanni dice: “Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1 Giovanni 3,1 -2). Sappiamo chi siamo e tuttavia non sappiamo chi saremo.
Per alcuni di noi, l’identità cristiana è soprattutto data, la Chiesa che conosciamo e amiamo. Per altri l’identità cristiana è sempre provvisoria, in cammino verso il Regno in cui cadranno tutti i muri. Entrambe sono necessarie! Se sottolineiamo solo che la nostra identità è data – questo è ciò che significa essere cattolici – rischiamo di diventare una setta. Se sottolineiamo solo l’avventura verso un’identità ancora da scoprire, rischiamo di diventare un vago movimento cristiano. Ma la Chiesa è segno e sacramento dell’unità di tutta l’umanità in Cristo (LG 1) nell’essere entrambe le cose. Dimoriamo sul monte e gustiamo la gloria ora. Ma camminiamo verso Gerusalemme, il primo sinodo della Chiesa.
Come vivere questa necessaria tensione? Tutta la teologia nasce dalla tensione che piega l’arco per scoccare la freccia. Questa tensione è al centro del Vangelo di San Giovanni. Dio fa la sua casa in noi: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (14.23). Ma Gesù ci promette anche la nostra casa in Dio: “Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto” (Giovanni 14,2).
Quando pensiamo alla Chiesa come a una casa, alcuni di noi pensano soprattutto a Dio che viene a casa da noi, e altri a noi che andiamo a casa in Dio. Entrambe le cose sono vere. Dobbiamo entrare in sintonia con chi la pensa diversamente. Abbiamo a cuore la cerchia ristretta sul monte, ma scendiamo e camminiamo verso Gerusalemme, vagabondi e senza casa. “Ascoltatelo”.
Così, per prima cosa, Dio fa la sua casa con noi. Il Verbo si fa carne in un ebreo palestinese del primo secolo, cresciuto negli usi e costumi del suo popolo. Il Verbo si fa carne in ognuna delle nostre culture. Nei dipinti italiani dell’Annunciazione, vediamo belle case di marmo, con finestre aperte su ulivi e giardini di rose e gigli. I pittori olandesi e fiamminghi mostrano Maria con un forno caldo, ben avvolta per tenere lontano il freddo. Qualunque sia la vostra casa, Dio viene ad abitare in essa. Per trent’anni di silenzio, Dio ha abitato a Nazareth: un insignificante luogo secondario. Nataniele esclamò disgustato: “Può forse uscire qualcosa di buono da Nazaret?” (Gv 1,46). Filippo risponde semplicemente: “Vieni e vedi”.
Tutte le nostre case sono Nazareth, dove Dio abita. San Charles de Foucauld ha detto: “Lasciate che Nazareth sia il vostro modello, in tutta la sua semplicità e apertura… La vita di Nazareth può essere vissuta ovunque. Vivila dove è più utile per il tuo prossimo”[3].Ovunque siamo e qualunque cosa abbiamo fatto, Dio viene a trovarci: “Ecco, io sto alla porta e busso: se qualcuno ascolta la mia voce e apre la porta, io entrerò da lui e cenerò con lui ed egli con me” (Ap 3,20).
Facciamo quindi tesoro dei luoghi in cui abbiamo incontrato l’Emmanuele. “Dio con noi”. Amiamo le liturgie in cui abbiamo intravisto la bellezza divina, le chiese della nostra infanzia, le devozioni popolari. Io amo la grande abbazia benedettina della mia scuola, dove per la prima volta ho percepito le porte del cielo aperte. Ognuno di noi ha il proprio monte Tabor, sul quale ha intravisto la gloria. Ne abbiamo bisogno. Così, quando le liturgie vengono cambiate o le chiese demolite, le persone provano un grande dolore, come se la loro casa nella Chiesa venisse distrutta. Come Pietro, vogliamo restare.
Ogni Chiesa locale è una casa per Dio. Nostra Madre Maria è apparsa in Inghilterra a Walsingham, il grande santuario medievale, a Lourdes, a Guadalupe in Messico, a Czestochowa in Polonia, a La Vang in Vietnam e a Donglu in Cina. Non c’è una competizione mariana. In Inghilterra diciamo: “La buona notizia è che Dio ti ama. La cattiva notizia è che ama anche tutti gli altri”. Sant’Agostino diceva: “Dio ama ciascuno di noi come se ce ne fosse uno solo”[4] . Nella Basilica di Notre Dame d’Africa, ad Algeri, è inciso: “Priez pour nous et pour les Musulmans”, “Pregate per noi e per i musulmani”.
Spesso i sacerdoti trovano il cammino sinodale più difficile da abbracciare. Noi sacerdoti curiamo questi luoghi di culto e ne celebriamo le liturgie. I sacerdoti hanno bisogno di un forte senso di identità, di un esprit de corpo. Ma chi saremo in questa Chiesa liberata dal clericalismo? Come può il clero abbracciare un’identità che non sia clericale? Questa è una grande sfida per una Chiesa rinnovata. Accogliamo senza paura una nuova comprensione fraterna del sacerdozio ministeriale! Forse possiamo scoprire come questa perdita di identità sia in realtà una parte intrinseca della nostra identità sacerdotale. È una vocazione che va al di là di ogni identità, perché “ciò che saremo non è stato ancora rivelato” (1 Giovanni 3,2).
Dio costruisce la sua casa ora in luoghi che il mondo disprezza. Il nostro fratello domenicano Frei Betto descrive come Dio sia diventato la sua casa in una prigione in Brasile. Alcuni domenicani furono imprigionati per la loro opposizione alla dittatura (1964-1985). Betto scrive: “Il giorno di Natale, festa del ritorno a casa di Dio, la gioia è incontenibile. La notte di Natale in prigione… Ora tutto il carcere canta, come se il nostro canto, felice e libero, dovesse risuonare in tutto il mondo. Le donne cantano nella loro sezione e noi applaudiamo… Tutti qui sanno che è Natale, che qualcuno sta rinascendo. E con il nostro canto testimoniamo che anche noi siamo rinati per lottare per un mondo senza lacrime, odio e oppressione. Fa un certo effetto vedere questi giovani volti schiacciati contro le sbarre e cantare il loro amore. Indimenticabile. Non è uno spettacolo per i nostri giudici, o per il pubblico ministero, o per la polizia che ci ha arrestato. Troverebbero intollerabile la bellezza di questa notte. I torturatori temono un sorriso, anche se debole”.
Così intravediamo la bellezza del Signore nel nostro monte Tabor, dove, come Pietro, vogliamo piantare le nostre tende. Bene! Ma “Ascoltatelo!”. Godiamo di quel momento e poi scendiamo dalla montagna e camminiamo verso Gerusalemme. Dobbiamo diventare in un certo senso dei senzatetto. “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. (Luca 9,58). Camminano verso Gerusalemme, la città santa dove risiede il nome di Dio. Ma lì Gesù muore fuori dalle mura per il bene di tutti coloro che vivono fuori dalle mura, come Dio si è rivelato al suo popolo nel deserto fuori dall’accampamento. James Alison scrisse: “Dio è in mezzo a noi come uno scacciato”[5]. “Perciò anche Gesù, per santificare il popolo con il proprio sangue, patì fuori della porta della città. Usciamo dunque anche noi dall’accampamento e andiamo verso di lui, portando la sua stessa umiliazione”. (Ebrei 12,12s).
L’arcivescovo Carlos Aspiroz da Costa scriveva alla Famiglia domenicana quando era Maestro: “Fuori dal campo, tra tutti quegli ‘altri’ relegati in un posto fuori dal campo, è dove incontriamo Dio. L’itineranza richiede di uscire dall’istituzione, dalle percezioni e dalle credenze culturalmente condizionate, perché è ‘fuori dal campo’ che incontriamo un Dio che non può essere controllato. È ‘fuori dal campo’ che incontriamo l’Altro che è diverso e scopriamo chi siamo e cosa dobbiamo fare”[6]. È uscendo fuori che raggiungiamo una casa in cui “non c’è più giudeo né greco, non c’è più schiavo né libero, non c’è più maschio né femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Galati 3,26).
Negli anni ‘80, riflettendo sulla risposta della Chiesa all’Aids, visitai un ospedale di Londra. Il medico mi disse che c’era un giovane che chiedeva un sacerdote di nome Timothy. Per la provvidenza di Dio, riuscii a ungerlo poco prima che morisse. Chiese di essere sepolto nella Cattedrale di Westminster, il centro del cattolicesimo in Inghilterra. Era circondato dalla gente comune che veniva a quella Messa feriale, oltre che da malati di Aids, infermieri, medici e amici gay. Colui che era stato in periferia, per la sua malattia, per il suo orientamento sessuale e soprattutto perché era morto, era al centro. Era circondato da coloro per i quali la Chiesa era casa e da coloro che normalmente non sarebbero mai entrati in una chiesa.
La nostra vita si nutre di tradizioni e devozioni amate. Se si perdono, ci addoloriamo. Ma dobbiamo anche ricordare tutti coloro che non si sentono ancora a casa nella Chiesa: le donne che si sentono non riconosciute in un patriarcato di vecchi uomini bianchi come me! Persone che sentono che la Chiesa è troppo occidentale, troppo latina, troppo coloniale. Dobbiamo camminare verso una Chiesa in cui non siano più ai margini ma al centro.
Quando Thomas Merton divenne cattolico scoprì “Dio, quel centro che è ovunque e la cui circonferenza non è da nessuna parte, mentre trova me”. Rinnovare la Chiesa, quindi, è come fare il pane. Si raccolgono i bordi dell’impasto al centro e si allarga il centro ai margini, riempiendo il tutto di ossigeno. Si fa la pagnotta rovesciando la distinzione tra i bordi e il centro, facendo la pagnotta di Dio, il cui centro è ovunque e la cui circonferenza non è da nessuna parte, trovandoci.
Un’ultima brevissima parola. Più volte, durante la preparazione di questo Sinodo, è stata posta la domanda: “Ma come possiamo essere a casa nella Chiesa con l’orribile scandalo degli abusi sessuali?”. Per molti è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Hanno fatto le valigie e se ne sono andati. Ho posto questa domanda a una riunione di presidi cattolici in Australia, dove la Chiesa è stata orribilmente sfigurata da questo scandalo. Come hanno fatto a rimanere? Come hanno potuto essere ancora a casa?
Uno di loro ha citato Carlo Carretto (1910-1988), un Piccolo fratello di Charles de Foucauld. Le parole di Carretto riassumono l’ambiguità della Chiesa, mia casa ma non ancora casa mia, che rivela e nasconde Dio.
“Quanto devo criticarti, mia Chiesa, eppure quanto ti amo! Mi hai fatto soffrire più di chiunque altro, eppure devo a te più che a chiunque altro. Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza. Mi hai scandalizzato molto, eppure solo tu mi hai fatto capire la tua santità. … Innumerevoli volte ho avuto voglia di sbatterti in faccia la porta della mia anima eppure, ogni notte, ho pregato di poter morire tra le tue braccia sicure! No, non posso liberarmi di te, perché sono un tutt’uno con te, anche se non completamente. E poi, dove andrei? A costruire un’altra chiesa? Ma non potrei costruirne una senza gli stessi difetti, perché sono i miei difetti”.
Alla fine del Vangelo di Matteo, Gesù dice: “Ecco io sono con voi fino alla fine dei tempi”. Se il Signore rimane, come potremmo andarcene? Dio si è messo a casa nostra, con tutti i nostri scandalosi limiti, per sempre. Dio rimane nella nostra Chiesa, anche con tutta la corruzione e gli abusi. Dobbiamo quindi rimanere. Ma Dio è con noi per condurci negli spazi più ampi del Regno. Abbiamo bisogno della Chiesa, della nostra casa attuale con tutte le sue debolezze, ma anche di respirare l’ossigeno pieno di Spirito della nostra futura casa senza confini.
[1] W. S. Gilbert, The Gondoliers [I Gondolieri], 1889
[2] Evangelii Gaudium par. 47.
[3] Cathy Wright LSJ, St Charles de Foucauld: His Life and Spirituality [San Charles de Foucauld: La sua vita e la sua spiritualità], p. 111
[4] Confessioni. Libro 3
[5] Knowing Jesus [Conoscere Gesù] p.71
[6] Letter to the Order on Itinerancy [Lettera all’Ordine sull’itineranza]