In un tempo di smarrimento, la forza del messaggio di Francesco è anche in questo: c’è una dimensione umana che può trovare ospitalità nel mistero di Dio.

di Sergio Di Benedetto
12 Settembre 2024
Per gentile concessione di
www.vinonuovo.it

In questi giorni (17 settembre) si ricordano gli 800 anni del mistero delle stigmate di Francesco d’Assisi; è un evento che, personalmente, mi ha sempre affascinato e stupito, spingendomi allo studio e all’indagine, fino a farne il nucleo di una mia drammaturgia: è un lavoro che mi ha richiesto non poco approfondimento delle fonti medievali, delle interpretazioni moderne e, infine, come sempre accade, mi ha penetrato, interrogandomi profondamente.
L’immagine di Francesco sconta secoli di devozione approssimativa, di comunicazione superficiale, di agiografie edificanti — a partire da quella di Bonaventura da Bagnoregio, che ha costruito una figura del santo molto rispondente ai canoni pedagogici, cercando di ‘controllarne’ la diffusione e cassando le altre fonti — che poi ne hanno restituito una fotografia un po’ monocromatica: il santo povero, il santo ambientalista, il santo folle, il santo giullare, quasi disincarnando l’uomo per esaltare il santo.

Invece, credo che il mistero delle stigmate ci obblighi a fermarci sull’umanità di Francesco d’Assisi, sulla concretezza e sulla verità della sua carne, delle sue ferite, delle sue crisi, dei suoi travagli, rimandando anche al grande mistero dell’Incarnazione del Cristo. Perché l’uomo che a La Verna incontra il crocifisso, fino a portarne i segni nella materialità della sua carne, è un uomo che sente tutto il peso della sua umanità fragile, debole, messa in ginocchio. Non dobbiamo dimenticare che quando Francesco sale nei boschi del Casentino è un uomo sconfitto: l’ordine che da lui è nato, ormai numeroso, gli è ‘sfuggito’ di mano; i fratelli non ne riconoscono più l’autorità, arrivando a criticarlo, dividendosi tra loro, favorendo un’interpretazione meno rigida della Regola. È un uomo che sente una paternità spirituale sfuggirgli, che vede i ‘figli’ intraprendere vie da lui non immaginate né volute, che percepisce una sconfitta. È un uomo, Francesco, e come tale sente tutta la debolezza e la tentazione del rifiuto, da subire o da compiere. È anche malato, invecchiato, con problemi di vista. Avverte la solitudine e, soprattutto, sa che la morte non è lontana: che senso dare a una vita come la sua, dopo la conversione radicale nell’osservanza del Vangelo, totalmente spesa per Cristo? Ne valeva la pena? Dare tutto, per cosa, per chi?
Questo è Francesco nel momento in cui sceglie di vivere la Quaresima di san Michele a La Verna, alla ricerca di un po’ di ristoro, ma soprattutto, intuisco, alla ricerca di risposte su quello che sta vivendo e che la sua vita, non lontano dalla conclusione, è stata. È un Francesco di dubbio e di lotta, di conflitto interiore e di buio.
Ed è lì, nell’abisso dell’abbandono, nella profondità della tenebra, che egli si identifica con il Crocifisso, cioè con il massimo dell’umiliazione kenotica del Figlio: esperienze analoghe e parallele, esperienze umanissime, concrete, carnali.

Qui, forse, sta un grande messaggio della vita di Francesco per noi, oggi: perché le stigmate non sono segni di gloria, ma primariamente di sconfitta. Per tutti coloro che vivono il dolore interiore, la sofferenza fisica, lo sbandamento, la lotta, per tutti coloro che attraversano nell’umanità lacerata la propria vicenda di fede, Francesco è figura di consolazione e di vicinanza. Non c’è un cristianesimo che possa essere vero senza essere umano, nei momenti di luce e nei momenti di fatica, fino all’angoscia. Francesco ha provato la medesima afflizione e il medesimo smarrimento del Figlio crocifisso, fino a farsi lui stesso crocifisso. Ma lì, nella vertigine del nulla, ha sperimentato che l’abbandono può divenire dolorosamente liberante, perché può condurre a un affidamento totale al Padre. Qui c’è la vera santità, che è personale conformazione al Cristo.
È perché Francesco non ha perso nulla della sua umanità che ha potuto arrivare a cantare, attraversando il fuoco della crisi, la grandezza del creato e delle creauture e, quindi, del creatore. Quel famoso “Laudato sì” nasce dalla pace che è stata vagliata dal crogiuolo della croce, del fallimento, del non senso; scaturisce dalla tentazione, dallo sguardo sul precipizio. La letizia che fa maturare in lui un nuovo orizzonte di significato è figlia della durezza della pietra de La Verna, dove le ferite di Francesco, numerose e profonde, sono state accolte nelle ferite del Crocifisso.

In un tempo di smarrimento, la forza del messaggio di Francesco è anche in questo: c’è una carne concreta, c’è un’umanità vera, di ogni uomo e donna, che possono trovare ospitalità nel mistero di Dio. Una fede che non abbraccia l’umano, ma lo astrae, lo ignora o lo tollera è una fede che si allontana dalla rivelazione che Gesù ha fatto del Padre. Qui si radica la parola de La Verna.