Omelie di Papa Francesco sulle letture della XXIV settimana del Tempo Ordinario (anno dispari)
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| Lunedì 18 Settembre > (Feria – Verde) | Lunedì della XXIV settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari) 1Tm 2,1-8 Sal 27 Lc 7,1-10: Neanche in Israele ho trovato una fede così grande. |
| Martedì 19 Settembre > (Feria – Verde) | Martedì della XXIV settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari) 1Tm 3,1-13 Sal 100 Lc 7,11-17: Ragazzo, dico a te, alzati! |
| Mercoledì 20 Settembre > (Memoria – Rosso) | Santi Andrea Kim Taegon, Paolo Chong Hasang e compagni 1Tm 3,14-16 Sal 110 Lc 7,31-35: Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto. |
| Giovedì 21 Settembre > (FESTA – Rosso) | SAN MATTEO Ef 4,1-7.11-13 Sal 18 Mt 9,9-13: Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori. |
| Venerdì 22 Settembre > (Feria – Verde) | Venerdì della XXIV settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari) 1Tm 6,2-12 Sal 48 Lc 8,1-3: C’erano con lui i Dodici e alcune donne che li servivano con i loro beni. |
| Sabato 23 Settembre > (Memoria – Bianco) | San Pio da Pietrelcina 1Tm 6,13-16 Sal 99 Lc 8,4-15: Il seme caduto sul terreno buono sono coloro che custodiscono la Parola e producono frutto con perseveranza. |
| Domenica 24 Settembre > (DOMENICA – Verde) | XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A) Is 55,6-9 Sal 144 Fil 1,20-24.27 Mt 20,1-16: Sei invidioso perché io sono buono? |
Lunedì della XXIV settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari)
1Tm 2,1-8; Lc 7,1-10: Pregare per i politici
“Sembra che lo spirito patriottico non arrivi alla preghiera”
Punto di partenza della riflessione del Pontefice è stato il brano della prima lettera di Paolo a Timoteo (2, 1-8), nella quale l’apostolo «chiede a tutto il popolo di Dio di pregare». Si tratta anzitutto di una «richiesta universale», generica — «Figlio mio, raccomando, prima di tutto che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini» — alla quale poi si aggiungono dettagli: «per i re e per tutti quelli che stanno al potere perché possiamo condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio». E ancora, concludendo: «Voglio dunque che in ogni luogo gli uomini preghino, alzando al cielo le mani pure, senza collera e senza polemiche».
Paolo «sottolinea un po’ l’ambiente di una persona credente: è la preghiera». Si tratta di una preghiera di intercessione nella quale c’è un inciso da tenere in considerazione: «per i re e per tutti quelli che stanno al potere». Si tratta dunque di una «preghiera per i governanti, per i politici», per tutti coloro che guidano un’istituzione politica, o un’amministrazione nazionale o locale.
«Alle volte, io sento compassione per i governanti, perché le cose che ricevono sono adulazioni da parte dei loro favoriti o insulti. E anche i politici sono insultati». È vero che a volte «qualcuno se lo merita», così come «se lo meritano» anche alcuni «preti e vescovi». Resta però il fatto che questo atteggiamento appaia ormai come un’«abitudine»: ecco allora quel «rosario di insulti e di parolacce, di squalificazioni…» che accompagnano i politici.
Da qui la domanda che suona anche come una provocazione: ma quell’uomo che ha responsabilità di governo nazionale o locale «lo lasciamo solo, senza chiedere che Dio lo benedica»?
La Scrittura, invece, parla chiaro: pregare «Per i re e per tutti quelli che stanno al potere». E perché? «Perché tutti noi possiamo vivere una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio». Quindi: «Pregare per ognuno di loro, perché possano portare avanti una vita calma, tranquilla, dignitosa nel loro popolo».
Un’esortazione quasi sempre disattesa: «Io sono sicuro che non si prega per i governanti. Sì, li si insulta, sì, quello sì. Sembrerebbe che la preghiera ai governanti sia insultarli perché “non mi piace quello che fa”, perché “è un corrotto”»… Sembra che lo spirito patriottico non arrivi alla preghiera; sì, alle squalificazioni, all’odio, alle liti, e finisce così».
Invece l’apostolo Paolo auspica che «in ogni luogo gli uomini preghino alzando al cielo mani pure, senza collera e senza polemiche». E, in questo, si ritrova un consiglio alla politica stessa: «Si deve discutere e questa è la funzione di un parlamento, si deve discutere ma non annientare l’altro; anzi si deve pregare per l’altro, per quello che ha un’opinione diversa dalla mia»…
«Mentre ascoltavo la Parola di Dio mi è venuto in mente questo fatto tanto bello del Vangelo, il governante che prega per uno dei suoi, questo centurione che prega per uno dei suoi». Significa che «anche i governanti devono pregare per il loro popolo», così come quel centurione pregava «per un servo, forse per un domestico» per il quale si sentiva responsabile. E anche «i governanti sono responsabili della vita di un Paese». Perciò «è bello pensare che se il popolo prega per i governanti, i governanti saranno capaci pure di pregare per il popolo, proprio come questo centurione che prega per il suo servo».
«Oggi sarebbe bello che ognuno di noi faccia un esame di coscienza: cosa penso io della politica?». E «non chiedo» di «discutere di politica», quanto invece: «Tu preghi per i governanti, tu preghi per i politici, perché possano portare avanti dignitosamente la loro vocazione»
L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLIX, n.210, 16-17/09/2019
Martedì della XXIV settimana del Tempo Ordinario
Lc 7,11-17: Ragazzo, dico a te, alzati!
Il brano del Vangelo di Luca che abbiamo ascoltato (7,11-17) ci presenta un miracolo di Gesù veramente grandioso: la risurrezione di un ragazzo. Eppure, il cuore di questo racconto non è il miracolo, ma la tenerezza di Gesù verso la mamma di questo ragazzo. La misericordia prende qui il nome di grande compassione verso una donna che aveva perso il marito e che ora accompagna al cimitero il suo unico figlio. È questo grande dolore di una mamma che commuove Gesù e lo provoca al miracolo della risurrezione.
Nell’introdurre questo episodio, l’Evangelista indugia su molti particolari. Alla porta della cittadina di Nain – un villaggio – si incontrano due gruppi numerosi che provengono da direzioni opposte e che non hanno nulla in comune. Gesù, seguito dai discepoli e da una grande folla sta per entrare nell’abitato, mentre da esso sta uscendo il mesto corteo che accompagna un defunto, con la madre vedova e molta gente. Presso la porta i due gruppi si sfiorano solamente andando ognuno per la propria strada, ma è allora che san Luca annota il sentimento di Gesù: «Vedendo [la donna], il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: “Non piangere!”. Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono» (vv. 13-14). Grande compassione guida le azioni di Gesù: è Lui che ferma il corteo toccando la bara e, mosso dalla profonda misericordia per questa madre, decide di affrontare la morte, per così dire, a tu per tu. E l’affronterà definitivamente, a tu per tu, sulla Croce.
Durante questo Giubileo, sarebbe una buona cosa che, nel varcare la Porta Santa, la Porta della Misericordia, i pellegrini ricordassero questo episodio del Vangelo, accaduto sulla porta di Nain. Quando Gesù vide questa madre in lacrime, essa entrò nel suo cuore! Alla Porta Santa ognuno giunge portando la propria vita, con le sue gioie e le sue sofferenze, i progetti e i fallimenti, i dubbi e i timori, per presentarla alla misericordia del Signore. Stiamo sicuri che, presso la Porta Santa, il Signore si fa vicino per incontrare ognuno di noi, per portare e offrire la sua potente parola consolatrice: «Non piangere!» (v. 13). Questa è la Porta dell’incontro tra il dolore dell’umanità e la compassione di Dio. Varcando la soglia noi compiamo il nostro pellegrinaggio dentro la misericordia di Dio che, come al ragazzo morto, ripete a tutti: «Dico a te, alzati!» (v. 14). A ognuno di noi dice: “Alzati!”. Dio ci vuole in piedi. Ci ha creati per essere in piedi: per questo, la compassione di Gesù porta a quel gesto della guarigione, a guarirci, di cui la parola chiave è: “Alzati! Mettiti in piedi, come ti ha creato Dio!”. In piedi. “Ma, Padre, noi cadiamo tante volte” – “Avanti, alzati!”. Questa è la parola di Gesù, sempre. Nel varcare la Porta Santa, cerchiamo di sentire nel nostro cuore questa parola: “Alzati!”. La parola potente di Gesù può farci rialzare e operare anche in noi il passaggio dalla morte alla vita. La sua parola ci fa rivivere, dona speranza, rinfranca i cuori stanchi, apre a una visione del mondo e della vita che va oltre la sofferenza e la morte. Sulla Porta Santa è inciso per ognuno l’inesauribile tesoro della misericordia di Dio!
Raggiunto dalla parola di Gesù, «il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre» (v. 15). Questa frase è tanto bella: indica la tenerezza di Gesù: “Lo restituì a sua madre”. La madre ritrova il figlio. Ricevendolo dalle mani di Gesù essa diventa madre per la seconda volta, ma il figlio che ora le è restituito non è da lei che ha ricevuto la vita. Madre e figlio ricevono così la rispettiva identità grazie alla parola potente di Gesù e al suo gesto amorevole. Così, specialmente nel Giubileo, la madre Chiesa riceve i suoi figli riconoscendo in loro la vita donata dalla grazia di Dio. E’ in forza di tale grazia, la grazia del Battesimo, che la Chiesa diventa madre e che ciascuno di noi diventa suo figlio.
Di fronte al ragazzo tornato in vita e restituito alla madre, «tutti furono presi da timore e glorificavano Dio dicendo: “Un grande profeta è sorto tra noi” e “Dio ha visitato il suo popolo”. Quanto Gesù ha fatto non è dunque solo un’azione di salvezza destinata alla vedova e al suo figlio, o un gesto di bontà limitato a quella cittadina. Nel soccorso misericordioso di Gesù, Dio va incontro al suo popolo, in Lui appare e continuerà ad apparire all’umanità tutta la grazia di Dio. Celebrando questo Giubileo, che ho voluto fosse vissuto in tutte le Chiese particolari, cioè in tutte le chiese del mondo, e non solo a Roma, è come se tutta la Chiesa sparsa nel mondo si unisse nell’unico canto di lode al Signore. Anche oggi la Chiesa riconosce di essere visitata da Dio. Per questo, avviandoci alla Porta della Misericordia, ognuno sa di avviarsi alla porta del cuore misericordioso di Gesù: è Lui infatti la vera Porta che conduce alla salvezza e ci restituisce a una vita nuova. La misericordia, sia in Gesù sia in noi, è un cammino che parte dal cuore per arrivare alle mani. Cosa significa, questo? Gesù ti guarda, ti guarisce con la sua misericordia, ti dice: “Alzati!”, e il tuo cuore è nuovo. Cosa significa compiere un cammino dal cuore alle mani? Significa che con il cuore nuovo, con il cuore guarito da Gesù posso compiere le opere di misericordia mediante le mani, cercando di aiutare, di curare tanti che hanno bisogno. La misericordia è un cammino che parte dal cuore e arriva alle mani, cioè alle opere di misericordia.
Mercoledì, 10 agosto 2016, udienza generale
Mercoledì della XXIV settimana del Tempo Ordinario
Lc 7,31-35: Vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, abbiamo cantato un lamento e non avete pianto.
Gesù traccia «proprio un riassunto di tutta la storia di salvezza: è il dramma di non volere essere salvati; è il dramma di non accettare la salvezza di Dio». È come se dicessimo: «Salvaci, Signore, ma a modo nostro!».
Gesù stesso ricorda tante volte «come questo popolo abbia respinto i profeti, abbia lapidato quelli che sono stati loro inviati perché risultavano scomodi». Il pensiero è sempre lo stesso: «Vogliamo la salvezza, ma come noi la vogliamo! Non come la vuole il Signore».
Siamo davanti al «dramma della resistenza a essere salvati». Si tratta di «una eredità che tutti noi abbiamo ricevuto», perché «anche nel nostro cuore c’è questo seme di resistenza a essere salvati come il Signore vuole salvarci»…
Certo «il Signore ci salva nella nostra libertà» però «noi vogliamo essere salvati non con la libertà, ma con l’autonomia nostra: le regole le facciamo noi».
Proprio «questo è il dramma delle storie della salvezza, dal primo momento». È anzitutto «un dramma del popolo», perché «il popolo si ribella tante volte, nel deserto per esempio»…
È proprio la classe dirigente quella che chiude le porte al modo col quale Dio vuole salvarci. E così si capiscono i dialoghi forti di Gesù con la classe dirigente del suo tempo: litigano, lo mettono alla prova, gli tendono trappole per vedere se cade, perché è la resistenza a essere salvati. Gesù dice loro: ‘Ma, io non vi capisco! Voi siete come quei bambini: vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato; vi abbiamo cantato un lamento e non avete pianto. Ma cosa volete?’; ‘Vogliamo la nostra: vogliamo fare la salvezza a modo nostro!’. E’ sempre questa chiusura al modo di Dio. (S. Marta 3 ottobre 2014)
Giovedì 21 Settembre (FESTA – Rosso) SAN MATTEO
Mt 9,9-13: Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori.
Vorrei iniziare da un episodio evangelico in qualche modo emblematico lo abbiamo sentito: la chiamata dell’apostolo Matteo, e lui stesso la racconta nel suo Vangelo, nel brano che abbiamo ascoltato (cfr 9,9-13).
Tutto inizia da Gesù, il quale “vede” – dice il testo – «un uomo». In pochi vedevano Matteo così com’era: lo conoscevano come colui che stava «seduto al banco delle imposte» (v. 9). Era infatti esattore delle tasse: uno, cioè, che riscuoteva i tributi per conto dell’impero romano che occupava la Palestina. In altre parole, era un collaborazionista, un traditore del popolo. Possiamo immaginare il disprezzo che la gente provava per lui: era un “pubblicano”, così si chiamava. Ma, agli occhi di Gesù, Matteo è un uomo, con le sue miserie e la sua grandezza. State attenti a questo: Gesù non si ferma agli aggettivi, Gesù sempre cerca il sostantivo. “Questo è un peccatore, questo è un tale per quale…” sono degli aggettivi: Gesù va alla persona, al cuore, questa è una persona, questo è un uomo, questa è una donna, Gesù va alla sostanza, al sostantivo, mai all’aggettivo, lascia perdere gli aggettivi. E mentre tra Matteo e la sua gente c’è distanza – perché loro vedevano l’aggettivo, “pubblicano” – , Gesù si avvicina a lui, perché ogni uomo è amato da Dio; “Anche questo disgraziato?”. Sì, anche questo disgraziato, anzi Lui è venuto per questo disgraziato, lo dice il Vangelo: “Io sono venuto per i peccatori, non per i giusti”. Questo sguardo di Gesù che è bellissimo, che vede l’altro, chiunque sia, come destinatario di amore, è l’inizio della passione evangelizzatrice. Tutto parte da questo sguardo, che impariamo da Gesù.
Possiamo chiederci: com’è il nostro sguardo verso gli altri? Quante volte ne vediamo i difetti e non le necessità; quante volte etichettiamo le persone per ciò che fanno o ciò che pensano! Anche come cristiani ci diciamo: è dei nostri o non è dei nostri? Questo non è lo sguardo di Gesù: Lui guarda sempre ciascuno con misericordia anzi con predilezione. E i cristiani sono chiamati a fare come Cristo, guardando come Lui specialmente i cosiddetti “lontani”. Infatti, il racconto della chiamata di Matteo si conclude con Gesù che dice: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori» (v. 13). E se ognuno di noi si sente giusto, Gesù è lontano, Lui si avvicina ai nostri limiti e alle nostre miserie, per guarirci.
Dunque, tutto inizia dallo sguardo di Gesù “Vide un uomo”, Matteo. A questo segue – secondo passaggio – un movimento. Prima lo sguardo, Gesù vide, poi il secondo passaggio, il movimento. Matteo era seduto al banco delle imposte; Gesù gli disse: «Seguimi». Ed egli «si alzò e lo seguì» (v. 9). Notiamo che il testo sottolinea che “si alzò”. Perché è tanto importante questo dettaglio? Perché a quei tempi chi era seduto aveva autorità sugli altri, che stavano in piedi davanti a lui per ascoltarlo o, come in quel caso, per pagare il tributo. Chi stava seduto, insomma, aveva potere. La prima cosa che fa Gesù è staccare Matteo dal potere: dallo stare seduto a ricevere gli altri lo pone in movimento verso gli altri, non riceve, no: va agli altri; gli fa lasciare una posizione di supremazia per metterlo alla pari con i fratelli e aprirgli gli orizzonti del servizio. Questo fa e questo è fondamentale per i cristiani: noi discepoli di Gesù, noi Chiesa, stiamo seduti aspettando che la gente venga o sappiamo alzarci, metterci in cammino con gli altri, cercare gli altri? È una posizione non cristiana dire: “Ma che vengano, io sono qui, che vengano.” No, vai tu a cercarli, fai tu il primo passo.
Uno sguardo – Gesù vide – , un movimento – si alza – e terzo, una meta. Dopo essersi alzato e aver seguito Gesù, dove andrà Matteo? Potremmo immaginare che, cambiata la vita di quell’uomo, il Maestro lo conduca verso nuovi incontri, nuove esperienze spirituali. No, o almeno non subito. Per prima cosa Gesù va a casa sua; lì Matteo gli prepara «un grande banchetto», a cui «partecipa una folla numerosa di pubblicani» (Lc 5,29) cioè gente come lui. Matteo torna nel suo ambiente, ma ci torna cambiato e con Gesù. Il suo zelo apostolico non comincia in un luogo nuovo, puro, un luogo ideale, lontano, ma lì, comincia dove vive, con la gente che conosce. Ecco il messaggio per noi: non dobbiamo attendere di essere perfetti e di aver fatto un lungo cammino dietro a Gesù per testimoniarlo; il nostro annuncio comincia oggi, lì dove viviamo. E non comincia cercando di convincere gli altri, convincere no: ma testimoniando ogni giorno la bellezza dell’Amore che ci ha guardati e ci ha rialzati e sarà questa bellezza, comunicare questa bellezza a convincere la gente, non comunicare noi, ma lo stesso Signore. Noi siamo quelli che annunciano il Signore, non annunciamo noi stessi, né annunciamo un partito politico, una ideologia, no: annunciamo Gesù. Bisogna mettere in contatto Gesù con la gente, senza convincerli, ma lasciare che il Signore convinca. Come infatti ci ha insegnato Papa Benedetto, «la Chiesa non fa proselitismo. Essa si sviluppa piuttosto per attrazione» (Omelia nella Messa inaugurale della V Conferenza Generale dell’Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi, Aparecida, 13 maggio 2007). Non dimenticare questo: quando voi vedrete dei cristiani che fanno proselitismo, che ti fanno una lista di gente per venire… questi non sono cristiani, sono pagani travestiti da cristiani ma il cuore è pagano. La Chiesa cresce non per proselitismo, cresce per attrazione. Una volta ricordo che in ospedale a Buenos Aires sono andate via le suore che lavoravano lì perché erano poche e non potevano portare avanti l’ospedale ed è venuta una comunità di suore dalla Corea e sono arrivate, pensiamo lunedì per esempio, non ricordo il giorno. Hanno preso possesso della casa delle suore dell’ospedale e il martedì sono scese a visitare gli ammalati dell’ospedale, ma non parlavano una parola di spagnolo, soltanto parlavano il coreano e gli ammalati erano felici, perché commentavano: “Brave queste suore, brave, brave” – Ma cosa ti ha detto la suora? “Niente, ma con lo sguardo mi ha parlato, hanno comunicato Gesù”. Non comunicare se stessi, ma con lo sguardo, con i gesti, comunicare Gesù. Questa è l’attrazione, il contrario del proselitismo.
Questa testimonianza attraente, questa testimonianza gioiosa è la meta a cui ci porta Gesù con il suo sguardo di amore e con il movimento di uscita che il suo Spirito suscita nel cuore. E noi possiamo pensare se il nostro sguardo assomiglia a quello di Gesù per attrarre la gente, per avvicinare alla Chiesa. Pensiamo questo.
Mercoledì, 11 gennaio 2023, udienza generale
Venerdì della XXIV settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari)
1Tm 6,2-12; Lc 8,1-3
Le quattro vicinanze del pastore
Ieri al centro di questi consigli vi era l’esortazione a non trascurare il «ministero come un dono». Oggi il cuore della riflessione è il denaro, ma anche il pettegolezzo, «le chiacchiere, le discussioni stupide», tutte cose che indeboliscono la vita ministeriale. «Quando un ministro — sia sacerdote, diacono, vescovo — incomincia ad attaccarsi ai soldi», si lega alla radice di tutti i mali. Paolo ricorda, appunto, che l’avidità del denaro è la radice di tutti i mali (1 Tm 6, 2c-12). «Il diavolo entra dalle tasche», dicevano «le vecchiette del mio tempo».
Vediamo i consigli che l’apostolo Paolo dà a Timoteo e a tutti i ministri nelle due Lettere. A essere vicini sono, infatti, chiamati non solo i vescovi ma anche sacerdoti e diaconi. Sono quattro le “vicinanze”. Prima di tutto il vescovo «è un uomo di vicinanza a Dio». Quando gli apostoli per meglio servire vedove e orfani hanno “inventato” i diaconi, per spiegarlo Pietro afferma che «a noi», cioè agli Apostoli, spetta «la preghiera e l’annuncio della Parola». «Il primo compito di un vescovo» è dunque pregare: «dà la forza», spiega, e risveglia anche «la coscienza di questo dono, che non dobbiamo trascurare, che è il ministero».
La seconda vicinanza alla quale è chiamato il vescovo è quella ai suoi sacerdoti e diaconi, i suoi collaboratori, che sono i vicini più prossimi. «Tu devi amare prima il più prossimo, che sono i tuoi sacerdoti e i tuoi diaconi». «È triste quando un vescovo si dimentica dei suoi sacerdoti. È triste sentire lamentele di sacerdoti che ti dicono: “Ho chiamato il vescovo, ho bisogno di un appuntamento per dire qualcosa, e la segretaria m’ha detto che tutto è pieno fino a tre mesi…”». «Un vescovo che sente questa vicinanza ai sacerdoti, se vede che un sacerdote lo ha chiamato oggi, al massimo domani dovrebbe richiamarlo, perché lui ha il diritto di conoscere, di sapere che ha un padre. Vicinanza ai sacerdoti. E i sacerdoti, vivano la vicinanza tra loro, non le divisioni. Il diavolo entra lì per dividere il presbiterio, per dividere».
Così infatti iniziano i gruppetti che «dividono per ideologie», «per simpatie».
Infine, la quarta vicinanza è quella al popolo di Dio. «Nella seconda Lettera, Paolo incomincia, dicendo a Timoteo di non dimenticarsi la sua mamma e la sua nonna, cioè di non dimenticarsi da dove sei uscito, da dove il Signore ti ha tolto. Non dimenticarti del tuo popolo, non dimenticarti delle tue radici! E adesso, come vescovo e come sacerdote, occorre essere sempre vicino al popolo di Dio», perché «quando un vescovo si stacca dal popolo di Dio finisce in un’atmosfera di ideologie che non hanno niente a che fare con il ministero: non è un ministro, non è un servitore. Ha dimenticato il dono — gratuito — che gli è stato dato».
«Bisogna pregare per i sacerdoti e per i vescovi, perché tutti noi — il Papa è un vescovo — sappiamo custodire il dono — non trascurare questo dono che ci è stato dato — con questa vicinanza».
(da: http://www.osservatoreromano.va)
Sabato della XXIV settimana del Tempo Ordinario
Luca 8,4-15
La parabola del seminatore la “madre” di tutte le parabole
Gesù racconta a una grande folla la parabola – che tutti conosciamo bene – del seminatore, che getta la semente su quattro tipi diversi di terreno. La Parola di Dio, simboleggiata dai semi, non è una Parola astratta, ma è Cristo stesso, il Verbo del Padre che si è incarnato nel grembo di Maria. Pertanto, accogliere la Parola di Dio vuol dire accogliere la persona di Cristo, lo stesso Cristo.
Ci sono diversi modi di ricevere la Parola di Dio. Possiamo farlo come una strada, dove subito vengono gli uccelli e mangiano i semi. Questa sarebbe la distrazione, un grande pericolo del nostro tempo. Assillati da tante chiacchiere, da tante ideologie, dalle continue possibilità di distrarsi dentro e fuori di casa, si può perdere il gusto del silenzio, del raccoglimento, del dialogo con il Signore, tanto da rischiare di perdere la fede, di non accogliere la Parola di Dio. Stiamo vedendo tutto, distratti da tutto, dalle cose mondane.
Un’altra possibilità: possiamo accogliere la Parola di Dio come un terreno sassoso, con poca terra. Lì il seme germoglia presto, ma presto pure si secca, perché non riesce a mettere radici in profondità. È l’immagine di quelli che accolgono la Parola di Dio con l’entusiasmo momentaneo che però rimane superficiale, non assimila la Parola di Dio. E così, davanti alla prima difficoltà, pensiamo a una sofferenza, a un turbamento della vita, quella fede ancora debole si dissolve, come si secca il seme che cade in mezzo alle pietre.
Possiamo, ancora – una terza possibilità di cui Gesù parla nella parabola – accogliere la Parola di Dio come un terreno dove crescono cespugli spinosi. E le spine sono l’inganno della ricchezza, del successo, delle preoccupazioni mondane… Lì la Parola cresce un po’, ma rimane soffocata, non è forte, muore o non porta frutto.
Infine – la quarta possibilità – possiamo accoglierla come il terreno buono. Qui, e soltanto qui il seme attecchisce e porta frutto. La semente caduta su questo terreno fertile rappresenta coloro che ascoltano la Parola, la accolgono, la custodiscono nel cuore e la mettono in pratica nella vita di ogni giorno.
Questa del seminatore è un po’ la “madre” di tutte le parabole, perché parla dell’ascolto della Parola. Ci ricorda che essa è un seme fecondo ed efficace; e Dio lo sparge dappertutto con generosità, senza badare a sprechi. Così è il cuore di Dio! Ognuno di noi è un terreno su cui cade il seme della Parola, nessuno è escluso. La Parola è data a ognuno di noi. Possiamo chiederci: io, che tipo di terreno sono? Assomiglio alla strada, alla terra sassosa, al roveto? Se vogliamo, con la grazia di Dio possiamo diventare terreno buono, dissodato e coltivato con cura, per far maturare il seme della Parola. Esso è già presente nel nostro cuore, ma il farlo fruttificare dipende da noi, dipende dall’accoglienza che riserviamo a questo seme. Spesso si è distratti da troppi interessi, da troppi richiami, ed è difficile distinguere, fra tante voci e tante parole, quella del Signore, l’unica che rende liberi. Per questo è importante abituarsi ad ascoltare la Parola di Dio, a leggerla. E torno, una volta in più, su quel consiglio: portate sempre con voi un piccolo Vangelo, un’edizione tascabile del Vangelo, in tasca, in borsa… E così, leggete ogni giorno un pezzetto, perché siate abituati a leggere la Parola di Dio, e capire bene qual è il seme che Dio ti offre, e pensare con quale terra io lo ricevo.
La Vergine Maria, modello perfetto di terra buona e fertile, ci aiuti, con la sua preghiera, a diventare terreno disponibile senza spine né sassi, affinché possiamo portare buoni frutti per noi e per i nostri fratelli.
Angelus 16 luglio 2020
14 settembre, festa dell’esaltazione della santa croce
Nm 21,4-9; Fil 2,6-11; Gv 3,13-18
Come il diavolo è stato vinto
«Non abbiamo paura di contemplare la croce come un momento di sconfitta»
«Oggi sarà bello se a casa, tranquilli, prendiamo cinque, dieci, quindici minuti davanti al crocifisso, o quello che abbiamo a casa o quello del rosario», per «guardarlo» e ricordare che «è il nostro segno di sconfitta che provoca le persecuzioni, che ci distruggono», ma «è anche il nostro segno di vittoria, perché Dio ha vinto lì».
«Oggi la Chiesa ci invita a contemplare la croce del Signore, la santa croce, che è il segno del cristiano». La croce «è quel segno che da bambini forse per primo abbiamo imparato a farci sul petto e le spalle, la santa croce di Dio». E «contemplare la croce per noi cristiani è contemplare un segno di sconfitta e un segno di vittoria, ambedue».
«La predica di Gesù, i miracoli di Gesù, tutto quello che Gesù aveva fatto nella vita, è finito in un “fallimento”, fallì lì, nella croce». «Tutte le speranze che i discepoli avevano in lui sono venute meno: noi speravamo che questo fosse il messia, ma è stato crocifisso». E «la croce è quel patibolo, quello strumento di tortura crudele. Lì è finita tutta la speranza della gente che seguiva Gesù. Una vera sconfitta».
«Non abbiamo paura di contemplare la croce come un momento di sconfitta, di fallimento» (vedi lettera di san Paolo ai Filippesi 2, 6-11, proposta come seconda lettura). «Paolo quando fa la riflessione sul mistero di Gesù Cristo ci dice cose forti, ci dice che Gesù svuotò se stesso, annientò se stesso, assunse tutto il peccato nostro, tutto il peccato del mondo: era uno “straccio”, un condannato». Dunque, «Paolo non aveva paura di far vedere questa sconfitta e anche questo può illuminare un po’ i nostri momenti brutti, i nostri momenti di sconfitta».
Ma la croce è anche «un segno di vittoria per noi cristiani». Tanto che «nella tradizione c’era quell’apparizione: “con questo segno tu vincerai”, segno di vittoria per noi». E «la lettura di oggi (vedi libro dei Numeri (21, 4-9, rilanciato anche dal brano evangelico di Giovanni 3, 13-17) parla del momento nel quale il popolo per la mormorazione è stato punito dai serpenti; parla dei serpenti come strumento di morte». E «dietro c’è la memoria di Israele, il serpente antico, quello del paradiso terrestre. Satana, il grande Accusatore. Era profetico perché ha detto il Signore a Mosè di alzare un serpente, alzare. Ma quello che ti dava la morte, quello che era peccato, tutto sarà alzato e questo darà la salute. Questa è una profezia».
«Gesù fatto peccato ha vinto l’autore del peccato, ha vinto il serpente». Satana, infatti, «era felice il venerdì santo, era felice; era tanto felice che non se n’è accorto che c’era il grande tranello della storia nel quale sarebbe caduto. Vide Gesù così disfatto, stracciato e come il pesce affamato che va all’esca attaccata all’amo lui è andato lì e ingoiò Gesù. Questo lo dicono i padri della Chiesa».
«La sua vittoria lo fece cieco, ingoiò questo “straccio”, questo Gesù distrutto. Era felice ma in quel momento ingoiò pure la divinità perché era l’esca attaccata all’amo col pesce. In quel momento Satana è distrutto per sempre. Non ha forza. La croce, in quel momento, divenne segno di vittoria».
«La nostra vittoria è la croce di Gesù, la sconfitta di quello che aveva preso su di sé tutti i nostri peccati, era quasi distrutto, tutte le nostre colpe; e la vittoria davanti al nostro nemico, al grande serpente antico, al grande Accusatore». Per questo «la croce è segno di vittoria per noi, nella croce siamo stati salvati, in quel percorso che Gesù ha voluto fare fino al più basso, al più basso, ma con la forza della divinità».
«“Quando sarò alzato, attirerò tutti a me”. Gesù alzato e Satana distrutto. La croce di Gesù deve essere per noi l’attrazione: guardarla, perché è la forza per continuare avanti». E «il serpente antico distrutto ancora abbaia, ancora minaccia, ma, come dicevano i padri della Chiesa, è un cane incatenato: non avvicinarti e non ti morderà; ma se tu vai ad accarezzarlo perché il fascino ti porta lì come fosse un cagnolino, preparati, ti distruggerà». E «così, con questa vittoria della croce, con Cristo risorto, che ci invia lo Spirito Santo, ci fa andare avanti, avanti, sempre; e quel cane incatenato, lì, al quale non devo avvicinarmi perché mi morderà, va la nostra vita avanti».
«La croce ci insegna questo, che nella vita c’è il fallimento e la vittoria». «Dobbiamo essere capaci di tollerare le sconfitte, di portarle con pazienza, le sconfitte, anche dei nostri peccati perché lui ha pagato per noi. Tollerarle in lui, chiedere perdono in lui ma mai lasciarci sedurre da questo cane incatenato».
da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVIII, n.209, 15/09/2018
15 settembre Beata Maria Vergine Addolorata
Eb 5,7-9; Gv 19,25-27
Partorì la Chiesa
Maria sotto la croce di Gesù è un’icona da «contemplare»
Maria sotto la croce di Gesù è un’icona da «contemplare»: non servono tante parole per riconoscere l’essenza della testimonianza di «una donna» che è «madre di tutti noi».
«Questo passo del Vangelo è più per contemplare che per riflettere» (19, 25-27), proposto oggi dalla liturgia, che presenta Maria sotto la croce di Gesù. Sì, «contemplare la madre di Gesù, contemplare questo segno di contraddizione, perché Gesù è il vincitore ma sulla croce». E questa «è una contraddizione, non si capisce: ci vuole fede per capire» o «almeno per avvicinarsi a questo mistero». E la madre di Dio «sapeva», «perché tutta la vita ha vissuto con l’anima trafitta, l’aveva detto Simeone». E «seguiva Gesù e sentiva le parole che la gente diceva: “Che grande!” — “Ma questo non è di Dio!” — “Questo no, non è un vero credente!”». Maria «sentiva tutto: tutte le parole pro e contro» Gesù.
Del resto Maria era «sempre dietro a suo Figlio: per questo diciamo che è la prima discepola». E «sempre con l’inquietudine che faceva nascere nel suo cuore questo segno di contraddizione». Sempre fino «alla fine è lì, in piedi, guardando il Figlio». E «forse, lei sentì i commenti: “Guarda, quella è la madre di uno dei tre delinquenti”». Ma rimase «zitta: è la madre, non rinnegò il Figlio, mostrò la faccia per il Figlio».
«Questo che io dico adesso sono piccole parole per aiutare a contemplare, in silenzio, questo mistero: in quel momento, lei partorì tutti noi, partorì la Chiesa». Gesù chiama sua madre «donna» e le dice «ecco i tuoi figli». Sì, Gesù «non dice “madre”, dice “donna”». E Maria è una «donna forte, coraggiosa: una donna che era lì per dire “questo è mio Figlio: non Lo rinnego”».
Siamo invitati «soltanto, in silenzio, a contemplare, a guardare: che sia lo Spirito Santo a dire a ognuno di noi quello di cui abbiamo bisogno».
(da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVII, n.212, 16/09/2017)
Giovedì della XXIV settimana del Tempo Ordinario (Anno dispari)
1Tm 4,12-16; Lc 7,36-50
Il ministero è un dono non una funzione
“Dalla mancanza di contemplazione del dono scaturiscono tutte quelle deviazioni, dalle più brutte a quelle più quotidiane”
«Non è un patto di lavoro “Io devo fare”, il fare è in secondo piano; io devo ricevere il dono e custodirlo come dono e da lì scaturisce tutto, nella contemplazione del dono». Quando dimentichiamo questo «ci appropriamo del dono e lo trasformiamo in funzione, si perde il cuore del ministero, si perde lo sguardo di Gesù che ha guardato tutti noi e ci ha detto: “Seguimi”, si perde la gratuità».
«Da questa mancanza di contemplazione del dono, del ministero come dono, scaturiscono tutte quelle deviazioni che noi conosciamo, dalle più brutte, che sono terribili, a quelle più quotidiane, che ci fanno centrare il nostro ministero in noi stessi e non nella gratitudine del dono e nell’amore verso Colui che ci ha dato il dono, il dono del ministero».
Un dono come dice Paolo «conferito mediante una parola profetica con l’imposizione delle mani da parte dei presbiteri» e che vale per i vescovi ma anche «per tutti i sacerdoti» perché «è stato un dono della comunità presbiterale». Quindi «l’importanza della contemplazione del ministero come dono e non come funzione». Facciamo quello che possiamo, con buona volontà, intelligenza, «anche con furbizia», ma sempre per custodire questo dono, «per non trascurarlo».
Dimenticare la centralità di un dono è una cosa umana, e porta l’esempio del fariseo che nel Vangelo di Luca ospita Gesù nella sua casa, trascurando «tante regole di accoglienza», trascurando i doni. Gesù glielo fa notare, indicando la donna che dona tutto quello che l’ospite ha dimenticato: l’acqua per i piedi, mentre lei «mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i capelli», il bacio di accoglienza, «lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi», e l’unzione del capo con l’olio.
«C’è quest’uomo che era buono un fariseo buono ma aveva dimenticato il dono della cortesia, il dono della convivenza, che pure è un dono». «Sempre si dimenticano i doni quando c’è qualche interesse dietro, quando io voglio fare questo, fare, fare… Noi sacerdoti, tutti noi dobbiamo fare cose e il primo compito è annunciare il Vangelo, ma occorre custodire il centro, la fonte, da dove scaturisce questa missione, che è proprio il dono che abbiamo ricevuto gratuitamente dal Signore».
Che il Signore «ci aiuti a custodire il dono, a vedere il nostro ministero primariamente come un dono, poi un servizio», per non rovinarlo «e non diventare ministri imprenditori, faccendieri», e tante cose che allontanano dalla contemplazione del dono e dal Signore, «che ci ha dato il dono del ministero».
(da: http://www.osservatoreromano.va)