MCCJ
P. Tarcisio Agostoni
STORIA dei MISSIONARI COMBONIANI DEL CUORE DI GESU
PARTE TERZA
Gli Istituti dal 1881 al 2003
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CAPITOLO NONO
Dal 1947 al 1959
FONDATORI
Messico, Brasile Settentrionale, Ecuador, Brasile Meridionale, Spagna.
PADRE ELIO SASSELLA:
“Homo Dei” era la sua massima.
Talamona, Sondrio 15/08/1910 – Rebbio 25/11/1970.
Fu durante un corso di Esercizi Spirituali a Rho (Milano) nel luglio 1936 che nell’anima di p. Sassella maturò l’idea che aveva ponderato per anni, di diventare missionario. Dopo lunghe preghiere e consigli egli decise di diventare missionario Comboniano. Il vescovo. Mons. Macchi, benché ben disposto verso la missione, non fu molto felice di lasciare andare p. Elio. Egli avrebbe preferito che finisse i suoi studi a Roma con un dottorato. Ma già il giovane sacerdote aveva le ali ai piedi. E non sopportava ritardi che riteneva non necessari. Perciò, nel settembre del 1936 con la benedizione del Vescovo, egli entrò nel Noviziato di Venegono.
Quando scoppiò la guerra, p. Sassella divenne cappellano degli Alpini fino al 1942.
Nel 1947, il Superiore generale lo mise a capo della nuova missione a Bajia California (Messico). Nell’aprile del 1948 era a La Paz ad aprire la nuova missione. Con intelligenza e senso di realismo, egli vide con chiarezza l’opportunità che il Messico stava dando all’Istituto dal punto di vista di animazione e promozione missionaria. Aprì un centro a Città del Messico e ritenne Sahuayo un luogo adatto a diventare il primo seminario Comboniano del Messico. A Bajia California iniziò a pubblicare una rivista, la quale, benché non avesse molte pagine era agile e molto leggibile. Chiamata “ADELANTE” che fu la base per “ESQUILA MISIONAL”.
Nel 1957 egli partì per l’Africa assegnato al Seminario di Lacor nell’Uganda come professore. Egli non si rifiutò di insegnare, ma la sua vera passione era il ministero, specialmente portato per le confessioni ed i sermoni. Questa era la fiamma che lo faceva andare avanti: rendersi utile al limite delle sue capacità.
Uno dei suoi collaboratori con lui sin dall’inizio di Baja California dice di lui:
“Un uomo semplice come un fanciullo. Buono come il pane, straordinariamente intelligente. Di indole buona, ma quando si trattava della Gloria di Dio, il bene delle anime, la perfezione religiosa sua e dei suoi confratelli, egli diventava intransigente e non lo si poteva imbrogliare in nessun modo”.
A volte si arrabbiava moltissimo, ma subito dopo riacquistava pace ed armonia.
Fino alla fine fu ossessionato dalla massima “Homo Dei” (Uomo di Dio), che ogni sacerdote e missionario dovrebbe incarnare; egli, tenacemente, fece sempre del suo meglio per viverla.
MONS. DIEGO PARODI:
Sacerdote del popolo.
Linarolo (PV) 08/10/1916 – Ischia (NA) 09/1/1983.
A seguito della richiesta del S. Padre, l’Istituto accettò di mandare alcuni confratelli in Brasile nel 1952. Fu così che l’8 maggio il primo gruppo di missionari Comboniani si misero in viaggio da Viseu per lo stato di Maranhão, guidati da p. Parodi.
Quando arrivarono a Balsas una cittadina di 5.000 anime dimenticate per così dire da Dio, p. Parodi e la sua “truppa” si dedicarono anima e corpo all’evangelizzazione e sviluppo umano. Dopo soli tre anni, lezioni di catechismo, la frequenza alla liturgia, l’Azione cattolica, settimane sociali, e tante altre attività si svolgevano e moltiplicavano nell’intero territorio. Nella missione di Balsas c’erano officine meccaniche e laboratori di falegnameria, una segheria, una fornace che produceva mattoni, un ospedale… Il risultato fu talmente sorprendente che nell’agosto del 1955, Balsas fu elevata a Prelatura Apostolica con p. Parodi come Amministratore.
Il nuovo quasi vescovo partì in quarta: fondò diverse nuove parrocchie, un centro per insegnanti, il Collegio Pio X, il CAER (Centro Educativo Sociale e Rurale). Balsas diventò una Prelatura il 21 giugno 1959, e mons. Parodi Il suo Vescovo.
Nel 1962 mons. Parodi ebbe la grande gioia di aprire il seminario e nel 1966 celebrò il primo Congresso Eucaristico di Balsas. Poco dopo, lasciò il Brasile per presenziare all’ultima sessione del Concilio Vaticano II e non tornò mai più in Brasile. La sua salute cagionevole e la visione della Chiesa che ne dava il Concilio lo convinsero a farsi da parte.
Nel 1966 tornò in Italia per sempre. Fu dapprima nominato Amministratore Apostolico della città di Gubbio e Città di Castello, fu poi mandato a Napoli come Ausiliare e infine ad Ischia come Vescovo. Morì inaspettatamente nel sonno il 9 gennaio 1983.
Al suo arrivo a Balsas p. Parodi assisté un povero vecchio del quale abbiamo già parlato, che divenne il simbolo della sua gente e del lavoro che svolgevano i missionari. La gente era contenta degli sforzi dei missionari per migliorare il loro standard di vita ed anche le autorità cittadine non furono da meno: “Preferiamo dare sussidi a voi piuttosto che ai Prefetti o ai Governatori perché sappiamo che qualsiasi aiuto che voi ricevete va alla povera gente”, disse il ministro socialista Neiva Monera.
Tuttavia fra i sacerdoti, alcuni obiettavano che lo sviluppo umano fosse un segno del capitalismo, mentre la gente comune non la vedeva allo stesso modo. Inoltre, se qualcosa doveva cambiare dopo il Concilio Vaticano II, doveva essere fatto a poco a poco, fornendo anche un’alternativa per far sì che la povera gente non perdesse il suo lavoro.
Il Vescovo Parodi, già minato nella salute non volle raccogliere la sfida e dette le dimissioni. Amava i suoi collaboratori, ma riteneva di seguire i suoi principi. Alcuni pensavano che il suo stile amministrativo fosse alquanto autoritario. Altri, amichevole ma energico.
Il vescovo Parodi non era contro i cambiamenti. P. Sirigatti, uno dei suoi collaboratori, organizzò, col permesso del Vescovo, l’interno del Maranhão, un’area immensa totalmente abbandonata. Iniziò il CAER o Centro per il Social Welfare e l’Istruzione della gente di campagna, per l’impiego di donne come insegnanti nei villaggi.
Gli elogi alla sua umanità non furono pochi. Ecco alcune testimonianze di missionari:
“Nel suo diario scriveva la data di nascita di tutti i confratelli e tutti potevano contare su un suo biglietto d’auguri per il loro compleanno. Condivideva intensamente le loro gioie e dolori. Se ci fossero momenti di tensione fra di noi era sempre presente con grande attenzione e gentilezza.”
Un altro missionario scrisse:
“Era capace di incoraggiare i confratelli quando avevano difficoltà e di animarli sempre con ottimismo. Voleva bene ai confratelli prediligendo quelli di animo buono e che si adoperavano per il bene della missione. Voleva che tutti si sentissero completamente realizzati in quello che facevano. Aveva una buona parola per tutti, e diffondeva il buon odore di Cristo anche fra gli anticlericali.”
MONS. ANGELO BARBISOTTI:
Una motrice che trascinava anche gli altri.
Osio Sotto (BG) 31/10/1904 – Limones (Esmeraldas) 16/11/1972.
Nel 1931, p. Barbisotti fu mandato nel Bahr-el-Gebel (Sudan) presso il seminario di Okaru, dove si dedicò all’insegnamento per sedici anni. Le sue capacità e il suo ottimo lavoro furono apprezzati da tutti, e contribuirono a salvare le nostre scuole quando non erano viste di buon occhio dagli inglesi.
Il Vescovo Barbisotti era di natura impulsiva e a volte imprevedibile. Questa era la sua maggiore difficoltà, e allo stesso tempo la sua motrice spirituale.
Il Vescovo arrivò ad Esmeraldas il 13 aprile 1955 con il suo bagaglio di esperienze maturate nel Sudan. La Madre Chiesa era “La Merced” che comprendeva altre quattro parrocchie. In un solo anno, il 1958, egli fondò il Collegio “Sagrado Corazón” per ragazzi ed altre due missioni. Sviluppò officine e altre botteghe artigianali a Quinindé, aprì un ospedale a San Lorenzo, un Collegio di Maria Immacolata per ragazze, un centro di formazione per catechisti a San José Obrero e la “Città dei Ragazzi “ambedue ad Esmeraldas. Come tutti i nostri Vescovi, egli era molto attaccato all’Istituto Quando gli scolastici prepararono una festa d’addio nell’occasione della sua consacrazione, rivolse loro solo poche semplici parole: “Amate il nostro Istituto io le devo tutto.” Dimostrò il suo amore comprando di tasca sua la Casa Provinciale a Quito per l’Istituto.
Nel settembre del 1970 fu coinvolto in un incidente stradale sulla strada che porta da Quito ad Esmeraldas: Dall’ora iniziò a star male, avrebbe dovuto riposare, ma non era nella sua natura.
Il suo zelo, come quello dei Vescovi Negri ed Orler rimase ardente fino alla fine, difatti la mattina del 16 settembre i padri cercarono di persuaderlo a non partire ma non voleva mancare alla promessa fatta alla missione di San Lorenzo di benedire la cappella e amministrare le cresime il giorno seguente, la domenica. Dopo un viaggio di tre ore con la canoa, egli si sentì male e si pensò al mal di mare, ma al suo arrivo a Limones, non gli fu più possibile continuare il viaggio e fu portato in barella alla missione. Ebbe un attacco cardiaco il 17 settembre 1972 e la sua anima andò dal suo Signore.
MONS. GIUSEPPE DALVIT:
Un missionario di preghiera e di sofferenza.
Pressano (TN) 15/09/1919 – São Mateus (Brasile) 17/1/1977.
P. Dalvit partì per il Brasile nel 1953 ed iniziò la sua attività apostolica a Nova Venecia, diventò poi parroco sia a SãoMateus sia a São Paulo. Il 9 maggio 1959, fu consacrato come primo Vescovo della nuova Diocesi di São Mateus nello stato di Espírito Santo. In soli pochi anni, con Mons. Dalvit alla guida, la Diocesi si sviluppò notevolmente.
Nella sua lettera di nomina, Papa Giovanni XXIII° lo esortò ad erigere il Seminario, ciò che il nuovo Vescovo fece prontamente.
Non si dimenticò della gente, e fu così che ideò il CEFOLIR, il Centro di Formazione per Leader Ruralun centro conosciuto da tutti come Sacra famiglia. “Lo scopo del Centro”, scrisse il Vescovo Dalvit” è immensamente umano: è stato ideato apposta per aumentare lo standard di vita della nostra gente. Vogliamo che il centro funzioni come fulcro delle attività diocesane.”
Il suo cuore di pastore non poteva rimanere insensibile ai molti malati che incontrava durante le sue visite pastorali, i quali sparsi per tutta la diocesi erano per lo più abbandonati a se stessi e mancanti di cure mediche. Perciò, nonostante il parere contrario di alcuni esperti, egli fece costruire u ospedale nell’interno del paese che divenne l’ospedale di san Marco di Nova Venecia inaugurato il 25 aprile del 1967.
Fra le molte attività alle quale si dedicava questo Vescovo infaticabile, si vuole ricordare la tipografia ES.TI.Ma di São Mateus, che egli fondò nel 1961. L’idea era che dovesse servire per diffondere la parola di Dio e diventare il mezzo di comunicazione per le zone settentrionale di Espírito Santo.
Fedele figlio di Comboni, come il Vescovo Negri egli non era capace di evitare le croci. Arrivò anche per lui il Calvario. La calunnia che circolava era che “il vescovo è ricco “, e ciò fu per lui una grande sofferenza. Egli scrisse:
“Ciò che è stato fatto, è stato fatto solo per il bene della gente, con la massima cura nella scrupolosa amministrazione del danaro secondo le intenzioni dei benefattori, senza alcun interesse personale. Tutto è a nome della Diocesi di São Mateus, e se domani il vescovo se ne va per qualsiasi ragione, egli porterà con se soltanto alcuni libri, dei vestiti ed una macchina da scrivere. Sono francamente molto afflitto. Così tanto lavoro solo per sentire dire “il vescovo è ricco!”.
Un’altra ragione di grande sofferenza era, per uno come lui che amava la sua gente, vederla soffrire, maltrattata: vedere le loro piantagioni di caffè distrutte, l’esodo delle famiglie, lo scoraggiamento dei pochi che rimanevano perché non potevano far niente. Altra spina era il suo benamato seminario. “il suo fiore all’occhiello” che veniva attaccato e fu costretto a chiudere. Nella lunga lista di croci che dovette portare ci fu anche l’incendio della piccola segheria la notte del 19 aprile 1969… da parte di malviventi? Tutto ciò era sufficiente per scoraggiare anche l’uomo più forte.
Nel 1970 mons. Dalvit sentì che non poteva più adempiere il suo dovere di Vescovo e chiese alla Santa Sede di essere sollevato dal suo compito. Lasciò São Mateus il 28 giugno. Dopo un lungo periodo di riposo in Italia si rimise tanto da decidere di tornare in Brasile dove fu nominato Vescovo ausiliare di Belo Horizonte.
Il 10 gennaio 1977, egli si recò a São Mateus per alcuni giorni dove fu stroncato da un attacco cardiaco la domenica 16. La memoria del Vescovo Dalvit è legata alle sue sofferenze. Come Vescovo egli fu sempre molto vicino all’Istituto. Un mese prima della sua morte egli scrisse al Consiglio Generale:
“Da parte mia, Vi dico che non mi sono mai dimenticato di essere un missionario Comboniano e sono fiero di appartenere a questo Istituto; specialmente dopo lo spettacolare esempio dato dall’Istituto nel riunire le due famiglie; quella italiana e quella tedesca.”
PADRE ANDREAS RIEDL:
Il cuore di un pastore amante della verità.
Jadock, Tirolo1903 – Brixen 9/1/1974.
Per alcuni anni p. Riedl si dedicò al ministero pastorale e dell’animazione missionaria. Dimostrò di essere uomo di profonda fede, convinzione ed amore che sgorgavano dal suo cuore tanto da affascinare coloro che lo ascoltavano. Il suo modo di predicare era semplice chiaro e interessante. Egli predicava la verità che aveva nel suo cuore e la proclamava senza paura. Questo suo modo di fare gli procurò non pochi nemici nel Regime Socialista nazionale tanto che dovette lasciare la Germania. Egli sapeva accettare le ideologie dei suoi tempi, ma alla luce della fede. Il suo grande zelo era in grado di difendere la fede cattolica anche contro il nazismo. Nel 1937 i superiori pensarono fosse saggio di rimuoverlo dagli artigli dei nazisti e lo trasferirono a Milland nel Sud Tirolo.
L’11 settembre 1939 p. Riedl andò ad iniziare la sua attività missionaria a Pozuzo nelle foreste peruviane assieme a due confratelli. Erano anche interessati agli emigrati provenienti dal Tirolo e dalla Renania. Nel 1939 fu anche nominato direttore del Seminario di San Toribio e in seguito superiore della casa.
P. Riedl visse una vita sobria, semplice e povera. Viveva con il minimo indispensabile, ma offriva agli altri tutto quanto poteva, cordialità, comprensione e disponibilità. Era sempre e ovunque, un uomo di Dio alla ricerca di anime. Visse in povertà con gioia focalizzando tutta la sua attenzione sugli indiani. Era convinto che Dio lo avesse mandato per essere il loro missionario.
Con la sua presenza e bontà egli rafforzò ed intensificò la vita comunitaria dei missionari. Egli era, sì, il loro superiore, ma anche un confratello, felice, affabile, alla mano con la gente semplice e sapeva affascinare gli ascoltatori quando predicava. Egli fu capace di attirare la gente a Cristo specialmente con l’esempio che dava nella vita.
A poco a poco gli indiani scoprirono l’amore immenso che egli aveva nei loro confronti e che era pronto ad offrire se stesso totalmente per la loro salvezza.
La vita degli indiani sulle montagne peruviane è molto difficile, sia per gli abitanti che per i missionari. Gli indiani vivevano una vita di povertà, oppressione ed abbandono, senza nessuna assistenza pastorale regolare. Colui che va fra questa gente deve aver fatto una scelta difficile e essere di animo buono. Questo era p. Riedl. Egli visse appieno e attuò il carisma di Comboni, che aveva sempre ammirato ed amato, l’apostolo dei più bisognosi ed abbandonati. Andreas imparò presto ad accoglierli con tutte le loro manchevolezze e debolezze umane. Egli sapeva che, come tutti gli esseri umani, gli indiani sono fondamentalmente buoni, bisognosi di amore disinteressato, grande compassione e comprensione.
Dopo un anno di lavoro pastorale fu nominato Rettore del Seminario. In questo ebbe molto successo: di 30 seminaristi 17 diventarono sacerdoti. Alcuni di questi sacerdoti rimasero impressionati dalla sua personalità. Lasciò il Seminario nel 1949 per tornare al lavoro pastorale che egli amava a Llata e Huanuco.
Superiore Provinciale. Fu il primo Superiore provinciale dei nostri confratelli in Perù dal 1952 al 1956. Eccelleva nella promozione ed organizzazione del lavoro pastorale sia nelle città che fra la gente delle montagne, dove a causa della scarsità di sacerdoti e religiosi, i buoni cattolici avevano atteso un prete per lunghi anni.
Tornò in Europa per il Capitolo dopo 17 anni di incessante lavoro in Perù e fu scelto come Assistente Generale nel Capitolo del 1961. Capì che era arrivata l’ora dell’America Latina, così come era arrivata l’ora dell’Africa centrale ai tempi di Comboni.
In Spagna. Preoccupato per la mancanza di missionari e di sacerdoti locali, durante il Capitolo P. Riedl promise di recarsi in Spagna per reclutare e preparare sacerdoti per il Perù. Non fu, però, fino al 1956 che il Superiore Generale p. Richard Lechner, lo mandò in Spagna con p. Anton Schöpt. Dopo alcuni anni di animazione missionaria egli si sentiva frustrato in quanto il metodo non dava i risultati sperati. Gli fu detto che la soluzione era un Seminario Minore.
Nel 1960 la prima comunità fu fondata a Palencia e poco dopo fu fondato il Seminario di Saldaña. Benché egli fosse il Superiore delle case in Spagna egli fu, in effetti, il fondatore del MFSC in quel paese.
Riedl aveva sempre riconosciuto Comboni come Fondatore dell’Istituto e come tale lo venerava. Il Fondatore era la sua guida sulla via della missione. Iniziò a mettere Comboni in primo piano e a parlare della possibile riunione delle due famiglie Comboniane. Fece mettere questi due temi sull’agenda del Capitolo del 1967. La sua esperienza in Spagna e i buoni rapporti che già esistevano fra i due Istituti, lo convinsero che il carisma di Comboni e il lavoro che i due Istituti svolgevano erano identici e per quello potevano, anzi, dovevano unirsi per formare un solo Istituto.
Questo desiderio era sempre nel suo cuore. Era stato presente quando era avvenuta la divisione nel 1923, e aveva pianto. Tenne sempre nel suo cuore, comunque, il ricordo di Comboni e seguì le sue orme ed esempio missionario. Nella preghiera come nell’azione fu sempre spiritualmente con il Fondatore.
Nel 1970 fu trasferito nella comunità di Brixen, dove, nel lontano 1917 aveva iniziato la sua vita missionaria. Era stanco ed aveva subito tre interventi chirurgici, ma offriva le sue sofferenze come incenso durante la preghiera preparandosi per il momento in cui avrebbe conosciuto il suo destino. Il 9 gennaio 1974 il Buon Dio venne a prenderlo a Brixen per portarlo a casa e ricompensarlo per il grande amore che aveva avuto per gli Indiani.
P. ENRICO FARÈ:
Un uomo determinato e re dell’animazione.
Milano 10/07/1912 – Limone (BS) 29/03/1989.
Al suo arrivo in Spagna nel 1959, c’erano solo due case: San Sebastian nella regione Basca e Corella. San Sebastian era stata offerta dalle Suore Salesiane e aperta nel 1954. Era la sede di “Aguiluchos”, la rivista per ragazzi fondata nel 1957. I nostri lasciarono la casa nel 1983.
Dopo il Capitolo del 1959, fu nominato rappresentante del Superiore generale in Spagna.
Possiamo dire che P. Farè iniziò ad organizzare l’animazione missionaria e la promozione vocazionale che fece. Difatti, ovunque andasse, non dimenticava mai di parlarne. Quando fu economo generale a Verona, scrisse tre libri: “Il Fratello Missionario”. “Vorrei diventare Missionario ma…” e “Reclutamento Divino”. Produsse anche dieci set di cartoline su Comboni e uno sulla Vocazione. Egli scrisse: “Tutte le iniziative furono portate avanti nella miseria e nelle difficoltà che caratterizzarono la guerra”.
L’arido ufficio dell’economato non m’impedì di fare la mia missione di animazione vocazionale: era in effetti, il mio modo pratico e utile di sentirmi completamente identificabile come “missionario.”
Al suo ritorno dalla missione nel Sudan (1955) si dedicò all’Animazione Missionaria e la Promozione Vocazionale nei Seminari italiani. Il suo successo spinse i suoi Superiori a chiedergli di scrivere le sue esperienze.
Ecco alcuni stralci:
“Mi resi presto conto che l’entusiasmo iniziale suscitato dalla visita nei seminari non era sufficiente. I seminaristi avevano bisogno dell’opportunità di meditare e di ricordare spesso quelle verità fondamentali che li avevano colpiti e che facevano loro bene.
Fu così che durante le vacanze estive del 1956 decisi di raccogliere tutti i miei seminari e meditazioni in un libro esclusivamente per i seminaristi chiamato “Da Mihi Animas” (Dammi le Anime). Fu scritto nello stile che era in voga allora, usando il metodo Ignaziano di meditazione, con preludi, tre punti, riflessioni e proposte…
La sua accoglienza nei seminari andò al di là delle mie aspettative. Nel 1957 ci fu un’edizione riveduta di “Da Mihi Animas” che conteneva tutti i temi espressi nel “Fidei Donum” di Pio XII. Seguirono diverse ristampe ed edizioni ed il libro circolava in quasi tutti i seminari raccogliendo vocazioni.
Furono fatte delle traduzioni con titoli leggermente diversi “La Mas Noble Aventura” – La più Nobile Avventura, “Si quieres, …sigueme” – Se vuoi, …seguimi.
Il frutto di questa animazione intensa nei seminari italiani si evince dal fatto che ci furono annualmente circa 25-30 novizi in più per la filosofia e la teologia e dobbiamo renderne grazie a Dio!”.
Il segreto del suo successo non furono soltanto i viaggi e la sua dedizione totale al compito da svolgere ma lo stesso contenuto delle sue conferenze:
“C’erano, è vero, le Encicliche di Benedetto XV, Pio XI, e Pio XII, ma chi le conosceva? Era necessario diffondere la conoscenza del loro contenuto durante le mie conferenze.
La chiara, documentata, ed esemplificata conoscenza dei grandi problemi e temi missionari suscitarono grande entusiasmo ovunque e molti seminaristi meditarono sulla possibilità di una scelta missionaria.”
L’esempio è più istruttivo della parola. Il Padre era convinto che il metodo e contenuto dell’animazione e promozione potevano dare frutti. In Messico, nonostante la povertà del luogo egli migliorò le vendite di “Esquila Missional” che arrivarono a 23.000 copie. Non tutti i missionari erano d’accordo con lui e scrisse:
“La vicenda della rivista non finì con un fallimento, anzi, fu provvidenziale nella formazione della coscienza missionaria e strumentale nell’aumento di vocazioni missionarie per molti istituti non solo il nostro. Oggi ne sono tutti convinti!”
Egli fece in Spagna quello che aveva fatto in Messico; anche qui osò presentare “Mundo Negro” che arrivò a pubblicare 25.000 copie. Era consapevole della mancanza di fondi ma scrisse:
“Questa difficoltà non mi dissuase. La fede e l’esperienza mi avevano insegnato che la Provvidenza non ci avrebbe lasciato soli al momento giusto, ma sarebbe venuta in nostro aiuto nei modi più impensati. Credo fermamente che pubblicare una rivista missionaria (come avevamo il dovere di fare) non richiedeva capitale; questo sarebbe arrivato con la rivista. E così fu.
Come diceva un santo “Non evitiamo il buon lavoro solo perché non abbiamo i mezzi per farlo. Questi non mancheranno se ci applichiamo al nostro compito con fede!”.
Per diversi anni, dall’ora, facevamo una novena mensile a San Giuseppe, dal 10 al 19 di ogni mese chiedendo in particolare:
- a. La crescita del nostro spirito religioso.
- b. Vocazioni numerose e integre.
- c. I mezzi economici per portare a termine le nostre iniziative.
La Provvidenza rispose alle sue preghiere. Durante il secondo anno di pubblicazione della rivista, c’erano 18.999 abbonati, il terzo anno 25.000. Ne venivano però stampate 50.000 copie. In seguito furono pubblicati degli opuscoli che sarebbero stati l’inizio delle “Ediciones Combonianas”. Nel 1985 le “Ediciones Combonianas” contavano 85 titoli.
Il successo delle riviste di p. Farè era dovuto anche al loro approccio: missionarie ed africane, moderatamente comboniane, formative in special modo di una buona coscienza missionaria. La popolarità dei Missionari Comboniani crebbe grazie alle riviste ed il loro fondatore poté fondare case e riempirle di candidati.
L’unica cosa della quale si rammaricava p. Farè era di non poter portare a termine il progetto di un film su Comboni. Il progetto era in fase avanzata, ed era stato firmato un contratto con una casa di produzione “Eurofil”, ma l’Amministrazione Generale non poteva pagare il suo contributo alla casa di produzione e sciolse il contratto il 15 aprile 1966. “Perdemmo quindi un’opportunità irripetibile di produrre un mezzo straordinario di animazione missionaria che sarebbe stata molto utile all’Istituto.” – Scrisse poi.
La sua passione per i mezzi di Comunicazione Sociale era ispirata dalla sua devozione al Beato Comboni che aveva iniziato gli “Annali del Buon Pastore “che divenne poi “Nigrizia”.
P. Riedl e P. Farè: pionieri della Riunione
Quando i nostri confratelli italiani si recarono a San Sebastian in Spagna nel 1954, si facevano chiamare “Misioneros Combonianos” perché facevano parte della Provincia portoghese. Quando, nel 1956 arrivarono i missionari dalla Germania essi adottarono il nome “Misioneros Combonianos”.
Dato che ambedue gli istituti erano presenti per l’Animazione Missionaria e la Promozione Vocazionale, p. Adalberto Mohn, un missionario di ampie vedute, si sentì alquanto a disagio e scrisse al Superiore Generale p. Lechner per sapere da lui come comportarsi.
P. Lechner che era non solo un cristiano ma un gentiluomo rispose: “Dobbiamo amare tutti quanti specialmente coloro che sono i nostri fratelli: abbiamo tutti e due la stessa formazione e le stesse idee. Non dovreste evitare gli FSCJ, ma andare a cercarli”.
Fu così che nell’ottobre del 1960, dovendo recarsi a Madrid, cercò p. Farè il quale a sua volta colse l’opportunità per cercare un lotto di terreno e andare a visitare Saldaña. Le visite si infittirono. Madrid era aperta a tutti; diverse celebrazioni chiamavano a raccolta tutti i missionari Comboniani assieme. Il Superiore Generale p. Lechner stesso andò a Madrid due o tre volte.
P. Riedl si fermò nella nostra casa di Moncada per tre o quattro giorni. I Capitolari provenienti dal Perù si fermavano a Madrid accolti come fratelli nella casa.
P. Briani e il suo Vicario generale incoraggiavano questi contatti che nel 1975 portarono in Spagna alla riunione dei due Istituti in una sola provincia con un solo Superiore provinciale.
I due fondatori della provincia spagnola possono essere riconosciuti come i pionieri degli eventi storici che portarono alla Riunione. P. Riedl non fece in tempo a vedere l’attuazione della stessa, ma fu testimone dell’inizio del cammino. Non pianse più per la fatale separazione del 1923. Le lacrime sparse adesso erano di gioia che andavano a mescolarsi con quelle di p. Farè.
VESCOVI
MONS. DOMENICO FERRARA:
Una vita di altruismo.
Zeme Lomellina (PV) 11/07/1905 – Verona 21/09/1998.
Nel 1930 gli fu detto che sarebbe andato nel Bahr-el-Ghazal, Sudan, ma prima lavorò a Juba, Bahr-el-Gebel, e poi a Mupoi, Wau e Raffili, accumulando, così un bagaglio di esperienze enormi su luoghi e razze differenti. Scelto per andare negli Stati Uniti, dove si stava preparando lo stabilirsi del nostro Istituto, gli fu affidata la cura pastorale della Parrocchia della Holy Trinity a Cincinnati nell’Ohio, una specie di “Africa al di la dell’Oceano” per via della massiccia presenza di gente di colore.
Un particolare iniziativa pastorale – che fu notata dal Delegato Apostolico, Amleto Cicognani, e che egli incoraggiò – era la formazione di cori, composti inizialmente di sola gente di colore. Padre Domenico aveva insegnato musica nelle scuole e una volta aveva confidato ad una suora:
“Quand’ero più giovane presi lezioni di canto e pensavo ad una carriera nell’Opera o Musica Classica… ma avrebbe interferito con la mia vocazione di sacerdote e missionario. Ora, comunque, la mia passione è di grande aiuto nell’insegnamento della musica e canto nel mio ministero pastorale.”
Il coro divenne famoso in tutta la città, che non solo riempiva la Chiesa tutte le domeniche, ma fece accorrere coloro che di norma non si recavano in Chiesa.
Nel 1949, fu nominato Prefetto Apostolico di Mupoi, dove fu calorosamente accolto senza presagire quante difficoltà e tribolazioni avrebbe dovuto affrontare con le autorità mussulmane.
Come il Vescovo Mason, così anch’egli dovette difendere i diritti dei cattolici e dei missionari. Arrivò a far arrivare un avvocato da Khartoum per lottare contro le autorità per un arresto ingiusto, tortura e imprigionamento di p. Gabriele Dwatuka, il quale in seguito diventò Vescovo di Rumbek.
Aveva i suoi difetti, come tutti, era impetuoso e il fatto che perdeva la pazienza facilmente non lo rendeva simpatico. Ma quello che compensava queste manchevolezze del tutto umane – e non molto frequenti – erano la sua dedizione e sincerità e il suo generoso riconoscimento dei meriti dei suoi collaboratori. Quando il Papa gli mandò una lettera per il suo Giubileo, egli ne fece delle copie che mandò ai suoi collaboratori con una lettera di copertura di suo pugno:
“Queste espressioni lusinghiere si rivolgono a tutti i sacerdoti, Fratelli e Suore la cui meravigliosa collaborazione ha prodotto tali eccellenti risultati nella nostra prefettura di Mupoi. Ho ringraziato il S. Padre a nome di tutti i missionari.”
Alcuni potrebbero pensare che a causa di tutti i viaggi che faceva per cercare offerte per la gente del Sudan egli avesse perso il contatto con l’Istituto. Egli però, rimaneva sempre in contatto epistolare con i Superiori. Sue erano le relazioni che venivano inoltrate a Propaganda Fide. In risposta ad una lettera scrittagli da p. Agostoni il quale chiedeva cosa ne pensasse del referendum per la Riunione con i confratelli di lingua tedesca, egli rispose il 10/10/1976:
“Per quanto mi riguarda questa scissione è sempre stata un mistero. Ricordo che nel 1923 avevo appena ricevuto la veste talare, quando venimmo a sapere della divisione dalla rivista “Nigrizia” durante la lettura nel refettorio. Francamente, visto che ero nuovo, la cosa non fece una buona impressione, Al termine del pasto il Padre maestro ci disse di non parlare fra di noi della faccenda. Pensai che cose simili succedevano anche in altri istituti … Ho votato per la Riunione.”
Il 29 maggio 1966, fu consacrato vescovo con il compito specifico di occuparsi dei profughi sudanesi che allora erano ben 175.000; per questo motivo si spostò nella Repubblica Centrafricana.
Il suo impegno per il Sudan non ebbe mai fine. Passò i suoi ultimi anni a Verona dove morì il 21 settembre 1998.
MONS. ANGELO TARANTINO:
Un amico e un grande iniziatore di scuole.
Portogruaro (VE) 08/04/1908 – Arua – Uganda 15/04/1990.
Dopo 27 anni di apostolato fra la gente della tribù Lango, fu nominato Vescovo di Arua (1959-1984). Nel 1984 dette le sue dimissioni rimanendo comunque ad Arua fino alla sua morte.
I missionari che operavano in Uganda allora, erano consci della grande necessità di sviluppare il sistema educativo sia per l’evangelizzazione sia per l’avanzamento sociale del popolo ugandese. P. Tarantino conosceva a fondo il problema e non si dette pace finché non fu in grado di aprire una rete di scuole in tutto il territorio Lango. Nel campo educativo era capace di fare miracoli.
I missionari beneficiarono di tutto questo lavoro al momento dell’indipendenza, in quanto allora molti cattolici istruiti e qualificati furono in grado di entrare nell’arena politica.
Egli amava il contatto umano – gli insegnanti lo stimavano molto, nonostante a volte venissero rimproverati. Aveva una buona parola di incoraggiamento per tutti. Insisté sul fatto che i catechisti dovessero insegnare il catechismo anche se a volte non ne fossero all’altezza. Gli piaceva chiacchierare con gli anziani per poter conoscere i loro usi e costumi. Aveva imparato la loro lingua alla perfezione facendosi un grande bagaglio etnologico. Scrisse diversi articoli sull’argomento e sia le autorità locali che britanniche lo stimavano.
Il suo compito come supervisore delle scuole cattoliche locali lo portava spesso in contatto con funzionari governativi che aiutava con la sua sagacia e conoscenza profonda della popolazione locale.
Gli veniva spesso chiesto di tenere lezioni di lingua locale ai funzionari britannici appena arrivati. Quando si trattava di sapere come trattare la gente, si rivolgevano a lui e non ci furono mai problemi seri nel distretto.
Alcuni missionari criticarono la sua amicizia con le autorità, sia coi capi tradizionali che con le autorità governative, ma non lo faceva per interesse personale, né compromise mai i suoi principi sul progresso della Chiesa, nonostante ambedue le autorità, locali e coloniali, fossero protestanti.
Era il buon nome della Chiesa stessa e dei Missionari che lo motivavano, ma alcuni missionari criticavano il suo metodo pastorale che dava preminenza alle scuole e i suoi rapporti con il Governo coloniale. Era consapevole degli errori fatti dai colonialisti nell’imporre i capi scelti da loro: credevano che ciò facendo avrebbero sminuito l’autorità dei capi locali. Le autorità coloniali, comunque non ottennero i risultati voluti in quanto le loro interferenze portarono ad un doppio sistema giudiziario. In seguito, da Vescovo Mons. Tarantino non ebbe difficoltà a rivolgersi alle autorità per l’assegnazione di terreni per scuole e cappelle.
Le autorità Britanniche protestanti avevano cercato di introdurre la loro religione in Uganda. Quando il Vescovo Tarantino dette il via ad una campagna per la costruzione di scuole, le autorità locali protestanti e cittadini laici si opposero fermamente. Ma egli continuò senza incontrare ostacoli o incomprensioni da parte delle autorità politiche.
MONS. GIOVANNI BATTISTA CESANA:
Una sete insaziabile e attività incessante per le conversioni.
Castello di Lecco (CO) 14/0/1899 – Verona 12/06/1991.
Vescovo di Gulu (Uganda) 1951 – 1969.
Padre Cesana visse personalmente i disagi del servizio militare. Nel 1917 egli fu chiamato alle armi e fu uno dei famosi “ragazzi del ’99”. Non fu mandato al fronte perché era troppo giovane e piccolo di statura. Rimase a Milano impiegato al comando centrale.Nel 1968, il 50° anniversario della vittoria del 1918, fu insignito con la medaglia di “cavaliere di Vittorio Veneto”.
Una autentica vocazione religiosa e missionaria, fu uno dei giovani sacerdoti del gruppo della Diocesi di Milano che rimase incantato dall’animazione del grande missionario p. Giuseppe Beduschi.
Il suo primo incarico fu in Uganda, a Gulu dove rimase per 10 anni. Membro del Capitolo del 1937 in veste di Superiore Regionale. fu eletto Assistente Generale.
Nel frattempo, gli fu chiesto di lavorare nella casa di formazione di Brescia prima, e poi di Crema. Tornò a Gulu in Uganda nel 1948. Durante il periodo in cui era formatore insisteva sulla necessità di nutrire lo spirito missionario per perseverare. Difatti, di ritorno nelle missioni scrisse ad uno scolastico:
“Quando un giovane tiene costantemente davanti a se l’ideale missionario e vive nello sforzo giornaliero della preparazione, il cuore di questo giovane possiede una forza immensa per superare le difficoltà della sua età e della sua formazione. Uno dei segreti per una formazione che porta alla vita religiosa e missionaria positiva e sito nell’abilità di far sì che i giovani amino gli ’ideali’ del lavoro apostolico nelle missioni intensamente e li desiderino impazientemente.”
Dopo la sua consacrazione egli scrisse ai missionari della diocesi di Gulu:
“Il 1 aprile 1951, dopo il solenne rito che mi ha consacrato vescovo, mentre scendevo i gradini dell’altare, la mia povertà spirituale, la mia miseria e incapacità mi si rivelavano in contrasto con la grande dignità e tremendo potere che mi sono stati dati.”
Queste sue espressioni non erano vane parole al vento: solo un anno dopo la sua consacrazione iniziò a pensare a delle divisioni nella diocesi, per limitare -diceva- le possibilità di causare danni alla “Santa Madre Chiesa” a causa della sua povertà spirituale. Riuscì solo nel 1958 ad ottenere l’erezione della Diocesi di Arua e nel 1965 la Diocesi di Moroto, infine, nel 1968 la Diocesi di Lira con un Vescovo ugandese Mons. C. Asili.
Nel campo dell’assistenza medica prese l’iniziativa già nel 1952 insistendo presso il Superiore Generale di destinare p. Ambrosoli, il primo medico Comboniano, all’ospedale di Kalongo. Egli fu un pioniere in questo servizio sociale tenendo ben a mente l’amore di Dio. Parlando una volta con il Ministro della Sanità, Mr. Croot, egli disse “Noi missionari vogliamo dare la prova dell’amore di Cristo per i malati.” L’Ufficio Medico cattolico che a nome della Conferenza Episcopale Ugandese coordina le attività mediche della Chiesa cattolica in Uganda, fu fondata su sua iniziativa e richiesta nel 1953.
Egli apprezzava ed incoraggiava l’operato dei nostri padri per altri ospedali come per esempio, il lavoro di p. Romanò per l’ospedale della Missione di Kitgum, p. Bertinazzo per l’ospedale di Angal e p. Marcabruni per la maternità e l’Ospedale di Aber, Lira.
Riconobbe anche la primaria importanza che potevano avere le scuole cattoliche Egli basava il suo apprezzamento sulla loro capacità di formare leader Cristiani in tutti i settori della vita pubblica così che essi potessero agire come lievito per le masse Cristiane. Trovò in p. Tupone, il Segretario dell’Educazione, un leale collaboratore pieno di idee che soleva dire: “La mia attività di promuovere l’istruzione deriva dall’ideale missionario. La scuola è un meraviglioso mezzo per arrivare all’evangelizzazione.”
Si preoccupava della formazione del sacerdoti Diocesani, egli chiedeva molto da loro, in qualche modo inconsapevole dei loro ritmi di lavoro ed il loro zelo. Aveva una salute di ferro, morì all’età di 92 anni, e non capiva la ragione per cui gli altri missionari si ammalassero. Egli si sentì male soltanto negli ultimi anni della sua vita quando era a Verona.
È così che i confratelli del Centro medico di Verona lo ricordano:
“Si è sempre comportato come religioso e sacerdote di profonda carità, un apostolo di quella libertà che Cristo ha donato a tutti gli uomini, di questo era profondamente convinto. Non dette mai segno di scoraggiamento, glorificando Dio per tutto quanto aveva passato e continuamente ringraziando il personale per i loro servigi. Era contento del cibo, dell’attenzione che riceveva, le cure mediche ricevute. L’unica sua lamentela, se così si può chiamare, era per le sue gambe che non funzionavano come una volta e limitavano le sue passeggiate. Vedeva in questo un segno della Divina Provvidenza che gli chiedeva di unirsi in modo particolare con Cristo per l’evangelizzazione del mondo.
Mons. Cesana fu molto paziente durante tutta la sua malattia, accettò le sue condizioni umilmente, sentendosi uno fra i tanti ospiti del centro, senza chiedere mai attenzioni o privilegi speciali. Il suo attaccamento all’istituto cresceva di giorno in giorno manifestandosi nelle preghiere con i confratelli e la devozione per nostra Madre in Paradiso, che onorava incessantemente dicendo il Rosario e brevi preghiere. Si lamentava raramente tanto chi i dottori ebbero difficoltà a diagnosticare di cosa soffrisse.”
MONS. SISTO MAZZOLDI:
Salvare l’Africa con gli africani.
Nago (TN) 13/01/1898 – Nairobi (Kenya) 27/07/1987.
Fu ordinato sacerdote il 29 giugno 1922 e nel 1928 lasciò la sua parrocchia di Lavis per entrare nel Noviziato di Venegono. Fece i primi voti il 2 febbraio 1930.
Nel Sudan Mons, Mazzoldi fondò due Istituti religiosi: le Suore del Sacro Cuore (Istituto già progettata dal suo predecessore Mons. Stephen Mlakic) e i Fratelli di San Martino de Porres. Nel frattempo, però, il Sudan che stava andando verso l’indipendenza cominciò ad avere problemi. Problemi che presto diventarono persecuzioni, restrizioni e espulsioni. Il 24 febbraio 1964, mons. Mazzoldi fu espulso assieme a tutti gli altri missionari.
A giugno del 1965 chiese di poter tornare nelle missioni e fu nominato Vescovo di Moroto. Fondò immediatamente un Seminario, aprì nuove stazioni, fece costruire un ospedale a Matany, aprì dispensari, campi per lebbrosi e orfanotrofi. Accolse calorosamente p. Marengoni e la sua iniziativa di fondare gli Istituti religiosi degli Apostoli di Gesù e delle Suore Evangelizzatrici di Maria. Non contento, incoraggiò p. Marengoni a fondarne un’altro: I Missionari Contemplativi del Cuore di Gesù.
All’età di 83 anni, mons. Mazzoldi lasciò Moroto per stabilirsi in Kenya, in una casa di proprietà degli Apostoli di Gesù. Morì il 27 luglio 1987.
Il Vescovo Mazzoldi suscitava sempre ammirazione fra i laici che ebbero modo di incontrarlo. Un famoso giornalista italiano fu veramente impressionato da lui, primo perché dopo lo scambio di saluti mons. Mazzoldi lo portò nella cappella a far visita al proprietario nascosto della casa; secondariamente dal suo modo sciatto di vestirsi, specialmente perché calzava scarpe che sembravano troppo grandi per lui, probabilmente di seconda mano.
Nei suoi momenti di tempo libero lo si poteva trovare in fondo alla Chiesa a pregare. Ogni tanto lo si sentiva dire ad alta voce “Dio ti amo! Venga il tuo Regno!”
Quando gli fu diagnosticato un tumore al fegato, ringraziò Dio per avergli fatto la grazia di morire in Africa e chiese di poter essere sepolto in quella terra che era diventata sua. Un altro principio della sua filosofia missionaria era “Il missionario e come un seme anche quando è morto. Per dare frutti, deve essere sepolto dove egli muore.”
Il Vescovo Mazzoldi fu un eccezionale missionario Comboniano.
MONS. EDOARDO MASON:
Un leader, solido, coraggioso, e dedicato.
Limena (PD) 08/11/1903 – Verona 15/03/1989.
Una volta in possesso del Certificato del Corso Coloniale, egli fu mandato negli Stati Uniti con il compito di aprire una comunità fra gli afro-americani. L’autore di “Defining Mission” (Definizione di Missione) (University Press of America 1999), Patricia Durcholz, nella sua storia dei Missionari Comboniani negli Stati Uniti, scrisse che nonostante il suo breve soggiorno negli USA, p. Mason aveva lasciato un segno:
“Il suo diario ci lascia una figura indelebile di un uomo che ebbe il coraggio di esplorare una nazione a lui praticamente sconosciuta, con la necessaria audacia di presentare il suo caso ai più grandi leader della Chiesa americana, e con la determinazione di persistere nonostante le avversità incontrate. Mason sarebbe ritornato in America, ma solo con quei comboniani che poi lo accompagnarono. P. Amleto Accorsi, che aveva sopportato i rigori della vita nelle missioni dell’Africa, in seguito avrebbe ammesso che era stato più duro stabilire la fondazione comboniana in America.”
Fu Vicario Apostolico di Wau del 1947 al 1964. Era orgoglioso di p. Ireneo Dud, il primo Vescovo africano delle nostre missioni. Ricordava ancora il giorno che Ireneo, allora solo un ragazzo, entrò nel seminario eludendo, quasi, sua madre la quale non voleva che suo figlio diventasse prete: “Se mio figlio entra in seminario,” aveva urlato la donna, “mi buttero nel fiume”.
Durante la subdola persecuzione perpetrata dal governo di Khartoum, Mons, Mason fu sempre pastore coraggioso e intrepido difensore dei suoi missionari: “Sono io il responsabile dei missionari” diceva alle autorità sudanesi: “Se avete qualcosa contro di loro, venite da me, rispondo io per loro.”
Nel 1958 mons. Mason dovette tornare in Italia per motivi di salute. Le autorità mussulmane rifiutarono di aderire alla sua richiesta di tornare a Wau nel 1960, per cui fu nominato a capo del nuovo Vicariato di El Obeid, dove ebbe il grande piacere di costruire la cattedrale. Nel 1964 avvennero le famigerate espulsioni in massa e dovette di nuovo lasciare il Sudan.
Siccome p. Agostoni stava pagando le rette scolastiche per circa trecento studenti sudanesi che frequentavano la scuola secondaria, il Vescovo Mason gli fece avere più di $ 60.000 U.S. dal 1965 al 1969. La maggior parte degli studenti provenivano da Equatoria non da Wau. Lo stesso missionario stava anche ricevendo aiuti da lui per assistere il defunto p. Saturnino Lohure ed altri rifugiati che lavoravano per la pace nel Sudan. Il coraggio da lui dimostrato nella lotta per i diritti del popolo e della Chiesa, nonché in difesa dei missionari era forte quanto quello dimostrato durante il periodo coloniale.
In un rapporto inviato a Roma all’allora Delegato Apostolico mons. Matthews, dichiarava che i due Vescovi che le autorità coloniali più rispettavano erano mons. Blomjous dei Padri Bianchi in Tanzania e mons. Mason dei Missionari Comboniani nel Sudan. Non dimentichiamoci che i “contrasti” tra il vescovo Mason e le autorità britanniche nel Sudan sono passati alla storia del Bahr-el-Ghazal come “memorabili”.
Il Vescovo era determinato a sostenere i diritti dei cristiani anche presso il governo mussulmano di Khartoum. Mons. Baroni paragona il suo confratello vescovo ad un nuovo Mosè che passò 40 anni della sua vita lottando per la liberazione del popolo del Sudan:
“Negli anni nei quali i fondamentalisti islamici volevano distruggere la Chiesa, il Vescovo Mason fu un coraggioso difensore dei diritti dei Cristiani e di tutti gli oppressi. Fu testimone di vergognose ingiustizie e barbare uccisioni.
Di volontà ferrea, leale e onesto, egli era particolarmente ordinato e diligente nei lavori che doveva svolgere. Grazie a queste sue qualità, poté dare un impulso decisivo all’evangelizzazione e la promozione umana. Anche il Concilio Vaticano II raccomandò queste metodologie.” (Baroni, Arcivescovo di Khartoum)
TESTIMONI
FRATEL GUGLIELMO RICHLY:
Acqua zampillante ma nascosta.
Katowice – Polonia 1869 – Verona 12/05/1951.
Se si volesse scrivere la vita di Frate Guglielmo basandosi unicamente sulle sue azioni e sul lavoro da lui svolto, basterebbero poche righe. Ma così facendo avremmo descritto il nostro fratello per quello che fece, non per quello che era. Essere è molto più importante che fare o avere.
Era il quarto di sette figli di una famiglia proveniente dal nord industriale della famosa città polacca di Katowice. Sua madre creò un’atmosfera serena a casa perché insegnava ai suoi figli la religione e i Dieci Comandamenti. Era una buona protestante e voleva che i suoi figli crescessero amando Dio e i loro vicini.
Dopo la morte del padre all’età di 40 anni, egli imparò il mestiere del sarto per aiutare la famiglia economicamente. Venne a sapere che l’istituto delle suore aveva bisogno di un sarto e quando si presentò fu ben accolto.
A seguito di un incontro provvidenziale con p. F.X: Geyer (in seguito Vicario Apostolico di Khartoum) egli si rese conto del progetto che Gesù aveva per lui. Mandò, quindi una lettera di richiesta di ammissione a Verona che fu accettata.
Si sentì male durante il viaggio ma si rimise abbastanza velocemente tanto da avere abbastanza energia per arrivare a Verona dove lo aspettava un Padre che lo portò alla Casa Madre.
D’allora non vide più la sua famiglia, ma non per questo la dimenticò. Non ne parlava, evitando così di rinnovare il dolore della separazione. Dopo la sua professione egli avrebbe voluto recarsi in Africa ma la sua salute cagionevole non lo permise. Soleva descrivere la sua vita con la semplicità di una colomba: “Colombella, colombella, sii felice di restare nella tua gabbia. Dopo la morte potrai sorvolare tutte le missioni.”
La sua gabbia era la sartoria delle nostre case di Verona e Roma. A quei tempi i nostri Fratelli sarti erano occupati a cucire le tonache bianche e nere per i missionari che indossavano sin dal loro noviziato.
La sartoria era come un pulpito in una specie di santuario, pieno di serenità, umiltà, bontà e pace. Per tutti egli era nascosto ma irradiava santità. Avevamo l’impressione che le qualità naturali di Fr. Guglielmo fossero la sorgente dalle quali esso traeva quella semplicità spirituale e sensitività che lo rendevano capace di cogliere il senso del divino nelle cose più semplici ed umili e lo mostrava con una semplicità quasi fanciullesca. Quello che è vero è che egli poté sopportare le sue croci con l’amore che viene dalla preghiere e l’amore per il volto di Gesù.
L’ attrattiva che egli aveva per la semplicità, la bontà, la gentilezza e la sua inclinazione a vedere la bontà, la sincerità, l’onestà; il piacere che traeva da tutto ciò che lo distaccava dall’umano, e la sua capacità di imitare le voci delle creature non può essere ritenuto solo il frutto di una capacità naturale, ma derivava da una sorgente sovrannaturale, come una partecipazione di quel senso del divino, che solo quelle anime che sono intimamente unite a Dio possono provare.
Se effettivamente fosse così, ci troveremmo davanti ad uno di quei fenomeni che meriterebbero uno studio approfondito in quanto essi percorrono quella strada di infanzia spirituale che è un preludio alla vita in Paradiso.
Anche il modo in cui pregava, l’attrazione che aveva per lui l’Eucarestia facevano parte di quel dono che troviamo in quelle anime che sono eccezionalmente intime con Dio. Era abbastanza che si trovasse davanti ad un altare, ad una immaginetta del Bambin Gesù, o del Sacro Volto, da essere portato alle più tenere effusioni del suo cuore. Era abbastanza parlagli di qualche rivelazione divina o dei Santi a qualche anima privilegiata che ne rimaneva talmente contento da esserne trasportato. Viveva nel suo mondo spirituale e ne traeva gioia.
Non dobbiamo credere, però che la sua vita religiosa fosse tutta rose e fiori. Anche Fratel Guglielmo ebbe le sue tribolazioni, e neanche poche. La sofferenza si poteva vedere sia nel suo fisico che nella sua inclinazione morale. Conobbe l’amarezza delle lacrime che però ricacciava indietro per uniformarsi alla volontà di Dio.
Sapeva far buon uso delle sue sofferenze. Sul suo letto di morte disse: “Ho fatto riparazione al Cuore di Gesù e al suo Santo Volto, e non ho paura di presentarmi davanti al trono di Dio”.
Era specialmente devoto alla Madonna di Cestochova. Per suo tramite egli implorava Gesù che gli fosse concessa la saggezza dello Spirito Santo per poter giudicare la sua vita ed opere alla luce di Dio come segno del suo amore. Quello che rimaneva impresso di lui era che diceva sempre che bisognava essere buoni e sorridere. Sembra che la Madonna ripagò la sua devozione quando il 12 maggio 1951 lo guidò al cospetto di Gesù.
Fu la morte di un santo, di un testimone silente del Cuore Trafitto di Gesù. Egli è adesso una luce vivente misteriosa che sparge su di noi l’amore che proviene dalla comunione dei Santi.