Lectio divina

Quando vi chiederanno: Voi dove eravate?
Lectio Deuteronomio 32,1-12

1 «Ascoltate, o cieli: io voglio parlare:
oda la terra le parole della mia bocca!
2 Stilli come pioggia la mia dottrina,
scenda come rugiada il mio dire;
come scroscio sull’erba del prato,
come spruzzo sugli steli di grano.
3 Voglio proclamare il nome del Signore:
date gloria al nostro Dio!
4 Egli è la Roccia; perfetta è l’opera sua;
tutte le sue vie sono giustizia;
è un Dio verace e senza malizia;
Egli è giusto e retto.
5 Peccarono contro di lui i figli degeneri,
generazione tortuosa e perversa.
6 Così ripaghi il Signore,
o popolo stolto e insipiente?
Non è lui il padre che ti ha creato,
che ti ha fatto e ti ha costituito?
7 Ricorda i giorni del tempo antico,
medita gli anni lontani.
Interroga tuo padre e te lo farà sapere,
i tuoi vecchi e te lo diranno.
8 Quando l’Altissimo divideva i popoli,
quando disperdeva i figli dell’uomo,
egli stabilì i confini delle genti
secondo il numero degli Israeliti.
9 Perché porzione del Signore è il suo popolo,
Giacobbe è sua eredità.
10 Egli lo trovò in terra deserta,
in una landa di ululati solitari.
Lo circondò, lo allevò,
lo custodì come pupilla del suo occhio.
11 Come un’aquila che veglia la sua nidiata,
che vola sopra i suoi nati,
egli spiegò le ali e lo prese,
lo sollevò sulle sue ali,
12 Il Signore lo guidò da solo,
non c’era con lui alcun dio straniero.

Nel contesto di questi giorni, in cui tre elementi si sono incrociati: parole, silenzi e presenza
di parresia, ho pensato di leggere con voi un testo ben conosciuto da chi celebra l’Ufficio
divino, personalmente o in comunità, ma poco sfruttato nelle meditazioni e nella conoscenza
della Scrittura: il Cantico di Mosè prima di morire, verso la fine del Deuteronomio. Fra gli
ultimi Papi l’unico che sembra averne parlato è stato Giovanni Paolo II, che ne ha fatto
oggetto di una bella catechesi.
Questo cantico è come il testamento spirituale di Mosè che ha condotto, con quanta fatica!,
il suo popolo alle soglie della terra promessa da Dio, dal momento della chiamata a uscire
dall’Egitto.
Vuole essere al tempo stesso una azione di grazie per quanto Dio ha fatto, una profezia e un
esame di coscienza del popolo. Il cantico è lunghissimo e molto ricco, anche dal punto di
vista storico; ma questo ci interessa meno.
Quello che voglio meditare, pregare e anche un po’ studiare è questo brano iniziale in cui
Mosè, rimproverando la stoltezza del popolo, che dimentica i doni ricevuti, vuole riportarlo
al vero Dio e renderlo saldo nella fede, proprio nel momento in cui lui lascia la guida e il
popolo entrerà nella terra promessa, cioè diventerà definitivamente il popolo di Dio.
Avete davanti voi un brano di dodici versetti, ma la prima e l’ultima parte servono solo per
inquadrare i versetti a cui voglio volgere la mia e la vostra attenzione.

Faccio mia l’introduzione di GPII che ci aiuta a puntare l’obbiettivo:
“Il cantico di Mosè è più ampio del brano proposto dalla Liturgia delle Lodi, che ne
costituisce soltanto il preludio. Alcuni studiosi hanno pensato di individuare nella
composizione un genere letterario che tecnicamente viene definito col vocabolo ebraico rîb,
cioè “contesa”, “lite processuale”. L’immagine di Dio presente nella Bibbia non appare
affatto come quella di un essere oscuro, un’energia anonima e bruta, un fato
incomprensibile. E’, invece, una persona che prova sentimenti, agisce e reagisce, ama e
condanna, partecipa alla vita delle sue creature e non è indifferente alle loro opere. Così,
nel nostro caso, il Signore convoca una sorta di assise giudiziaria, alla presenza di
testimoni, denuncia i delitti del popolo imputato, esige una pena, ma lascia permeare il suo
verdetto da una infinita misericordia.”

Il tono processuale è frequente nella Bibbia, particolarmente nei profeti e nei salmi: ma non
siamo davanti a un Giudice distaccato con un codice in mano, che pronuncia una sentenza
secondo la lettera, perché Dio è sempre un Padre che vuole la vita dei suoi figli (anche se li
chiama degeneri, stolti e insipienti; ma qualunque padre, pur amando teneramente i figli,
può usare questo linguaggio!) E, anche se con stile processuale, incoraggia i suoi figli in una
scelta che porta alla salvezza. Anzi il rimprovero può essere acerbo e accorato: “Non è lui il
padre che ti ha creato, che ti ha fatto e ti ha costituito?
” E’ un linguaggio che troviamo
spesso nei profeti e la liturgia romana ne ha un eco commovente il Venerdì santo nei cosiddetti “improperi” o lamenti:

Popolo mio, che male ti ho fatto? In che ti ho provocato? Dammi risposta.
Io ti ho guidato fuori dall’Egitto, e tu hai preparato la Croce al tuo Salvatore.
Io per te ho flagellato l’Egitto e i primogeniti suoi e tu mi hai consegnato per esser flagellato.
Io ti ho guidato fuori dall’Egitto e ho sommerso il faraone nel Mar Rosso,
e tu mi hai consegnato ai capi dei sacerdoti.
Io ho aperto davanti a te il mare, e tu mi hai aperto con la lancia il costato
Io ti ho fatto strada con la nube, e tu mi hai condotto al pretorio di Pilato
Io ti ho nutrito con manna nel deserto, e tu mi hai colpito con schiaffi e flagelli.
Io ti ho dissetato dalla rupe con acqua di salvezza, e tu mi hai dissetato con fiele e aceto.

Sarà pur una specie di processo, ma ciò che ne esce è insieme un profonda amarezza e un
accorato appello.
Anche nel nostro testo il Signore ricorda i tanti benefici in favore del suo popolo ed è un
richiamo a ricordare. Il cantico comincia con una parola, frequente anche nei libri
sapienziali: Ascoltate. Ciò che Mosè ha da dire da parte del Signore è di capitale importanza
e la disattenzione, come anche l’amerimnia o dimenticanza, sono peccati gravissimi,
blasfemi, perché non riconoscono nulla del Signore, né l’autorità, né la bontà, né la storia,
né la provvidenza, né la pazienza, né la grandezza. La Parola scende come uno scroscio
sull’erba, come uno spruzzo sugli steli di grano, abbondanza e potenza con i forti,
delicatezza con i deboli. Per sottolineare l’importanza Mosè parla ai cieli e alla terra, ma il
destinatario è sempre l’uomo. Va ascoltata: l’uomo deve essere presente nella storia, anche
in quella divina che non è altra dall’umana.
L’entrata in gioco della Parola di Dio non può essere accolta con disinvoltura, non può
essere presa sotto gamba, anche se poi alla fine del nostro brano Dio parlerà con tale
tenerezza che permetterà la parresia del bimbo piccolo, cullato e accudito dalla madre:
“Lo circondò, lo allevò, lo custodì come pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la
sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali”.

Al centro di questo quadro solenne è riportato il cuore del messaggio, ciò che sarà il cuore
della devozione, in senso forte, del popolo, qualcosa da custodire. E noi ascoltiamo non una
storiella, una notizia più o meno falsa o truccata per piacere al pubblico, ma una parola che
viene dalla Roccia – Gesù dirà che chi ascolta la sua Parola e la mette in pratica costruisce
la sua casa sulla roccia e San Paolo ci dice che la Roccia che dissetava il popolo nel deserto
è Cristo. Ecco una prima parola che ci dà la certezza di non diventare lo zimbello dei
trafficanti di idee e di opinioni, ma di qualcuno che è un Dio verace e senza malizia. Si tira
un sospiro. Non è una verità astratta e dimostrabile, ma una persona che si offre come
garante del cammino, come presente nella storia di ciascuno. Questo è confermato da ciò
che viene detto in seguito:
7 Ricorda i giorni del tempo antico, medita gli anni lontani.
Interroga tuo padre e te lo farà sapere, i tuoi vecchi e te lo diranno.
8 Quando l’Altissimo divideva i popoli, quando disperdeva i figli dell’uomo.

Abbiamo qui tre verbi capitali, in forma imperativa, ma non è una costrizione; piuttosto un
consiglio paterno, una indicazione per riuscire la vita. E’ anche un piano di Lectio divina:

Ricorda i giorni del tempo antico: ho già parlato del dovere della memoria. Si dice che le
nuove generazioni sono senza memoria; non posso giudicare, ma sarebbe una grandissima
povertà. La memoria ci costruisce, ci costituisce. Per essere padri dobbiamo essere figli,
nulla nasce dal niente, dopo che dal nulla Dio ha creato tutte le cose. La nostra cultura non è
un sapere, ma una esperienza trasmessa e da trasmettere. Questo ricordare non è un
crogiolarsi nell’illusione di una età dell’oro, ma con la saggezza che si acquista negli anni
essere ricchi non di un sapere, ma di un discernere, accompagnata dalla libertà che dà l’aver
provato tutto e il contrario di tutto.
Per l’autore del cantico certo questa memoria era quella del passaggio del Mar Rosso e della
traversata del deserto, fino al guado del Giordano, vero battesimo del popolo, che Gesù
rivivrà in prima persona, per darci lo Spirito disceso su di Lui. Per noi, senza escludere
quello, momento fondante anche della nostra fede, è soprattutto la Pasqua di Gesù che,
ricordata, dà forza al nostro vivere, pensare e agire.

Medita gli anni lontani: Non basta far memoria di un avvenimento storico, ricco di
significato, occorre saper leggere la nostra storia dentro quell’avvenimento, scoprire che è
una Parola attuale, detta oggi e per noi del XXI secolo. Le Parole diventano presente, luce
per i nostri passi e responsabilità. Dove siamo quando ascoltiamo la parola di Dio?
“La fede biblica è, infatti, un “memoriale”, cioè un riscoprire l’azione eterna di Dio
disseminata nel fluire del tempo; è un rendere presente ed efficace quella salvezza che il
Signore ha donato e continua a offrire all’uomo. Il grande peccato di infedeltà coincide,
allora, con la “smemoratezza”, che cancella il ricordo della presenza divina in noi e nella
storia”, dice ancora GPII. Non abbiamo altro luogo in cui esistere se non l’oggi. Conoscere
la Scrittura a memoria non serve a nulla se non ci rende presenti a Dio e nello stesso
movimento ai fratelli, perché Dio è eterno, non cambia e non passa e i fratelli nella loro
mutevolezza ne sono il sacramento e ci insegnano cosa vuol dire l’eternità di Dio che è
eternamente misericordia e tenerezza e che quindi nella sua immutabilità muta per essere il
nostro Dio, il nostro Amante, la nostra Via, Vita e (in questa luce) Verità.
Meditare è non stancarsi di ascoltare e osservare questa Parola per poterne scoprire pian
piano e senza fine l’infinito gusto e nutrimento.

A questo punto voglio inserire una riflessione sulla responsabilità che abbiamo nella
preghiera, responsabilità verso gli altri.
E’ uno dei luoghi in cui possiamo sentirci dire: Tu dov’eri? Mi rifaccio a un testo di Matteo
il Povero, monaco egiziano morto qualche anno fa che afferma che la preghiera
d’intercessione è una delle più gravi responsabilità che Dio abbia affidato a chi vuole
progredire nella preghiera. Commentando due versetti di San Giacomo: “Chi dunque sa
fare il bene e non lo fa, commette peccato. … la preghiera fatta con fede salverà il malato:
il Signore lo solleverà e, se ha commesso peccati, gli saranno perdonati.” (Gc 4,17 e 5,15) ,
dice: “Con la preghiera l’uomo diventa sacerdote, nel senso che diventa responsabile della
salvezza degli altri e capace, nell’amore, nel dono di sé e nella partecipazione al sacrificio e
al sacerdozio di Cristo, di liberare gli uomini dalla condanna a morte dovuta la peccato.
Caricandosi del loro peccato e gemendo dal fondo del cuore sotto il suo peso e facendo
penitenza, diventa capace, facendosi peccatore al loro posto, di chiedere perdono e di
ottenerlo per loro”. (San Paolo dice questo di Gesù). Ne dà poi una prova attraverso un
versetto evangelico molto conosciuto: Gesù, vedendo la loro fede, disse al paralitico:
“Coraggio, figlio, ti sono perdonati i peccati” (Mt 9,2).
Dov’è chi prega? E soprattutto chi prega per gli altri: assente o presente? E’ difficilissimo
per la nostra mentalità convertirsi alla fede a tal punto, ma il Vangelo è chiaro.

Interroga tuo padre e te lo farà sapere, i tuoi vecchi e te lo diranno: Ecco il terzo passo
di importanza capitale. Senza l’interrogazione siamo degli assenti, fantasmi che volteggiano
sulla realtà. Interrogare è riconoscere che gli altri esistono e che la storia non è una cosa
mia. La persona intelligente interroga e con l’interrogazione acquista la sapienza.
Nonostante la nostra era di una tecnologia sconosciuta ai padri, se dimentichiamo di essere
figli ed eredi di una saggezza, di una storia, di una esperienza, di una tradizione, orfani
diventiamo sterili, servi inutili, assenti all’umanità, anche se forse premi Nobel che fanno
crescere il mondo, perché la vita non è nelle cose ma nella relazione.

Cerchiamo, è stato detto nella presentazione di questo seminario, di esplorare un po’
l’universo di parole responsabili che si fanno vite in cerca di verità. Queste parole sono
antichissime e nuove, vengono dai padri e fanno ogni cosa nuova. Interroga tuo padre e te lo
farà sapere i tuoi vecchi e te lo diranno: è la nostra ricchezza di vita, è il lentissimo apparire
alla luce della Verità, che splenderà agli occhi di tutti quando l’oscurità avrà avvolto
definitivamente le cose nella loro evoluzione e vedremo Cristo sorgere da esse nella sua
verità e lo vedremo così come egli è.
Per ora nel cammino riceviamo una parola e la trasmettiamo in questa lunga staffetta della
vita verso di lui che, come ci dice Mosè, è giusto e retto.

7 Luglio 2019
Padre Cesare Falletti
http://www.atriodeigentili.it