Lectio divina

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Stella Morra
1. Giuseppe il nutritore dell’ambiguità
Commento a: Gen 45, 1-15

(…)

Giuseppe il nutritore

Il testo di oggi è Genesi, 45, 1-15 ovvero l’ultima parte della storia di Giuseppe, personaggio biblico che a volte rischiamo di conoscere più per il cartone animato che non per il testo biblico. Il mio consiglio è di ritagliarsi mezz’ora di tempo per leggere i capitoli 37 – 50 del libro di Genesi, non per pregare o riflettere, ma per leggere la storia, per vedere come funziona. È una vicenda molto bella, in cui si intessono i temi che trattiamo noi.

In quei capitoli Giuseppe viene definito attraverso due nomi: il Signore dei sogni (non si limita a interpretarli, li governa) e il Nutritore. Davvero due bei soprannomi. Riassumo brevemente i passaggi principali. Giuseppe e Beniamino sono i due figli di Rachele, l’ultima moglie di Giacobbe. A noi fa sempre un po’ impressione pensare che nella Bibbia ci sia la poligamia, ma così è. Rachele è la moglie più amata, la prediletta e muore dopo aver dato alla luce Beniamino per cui Giacobbe non potrà avere altri figli con lei. Giuseppe e Beniamino sono quindi i due figli prediletti del grande patriarca che al momento opportuno farà le parti giuste tra tutti e dodici figli, ma di fatto preferisce loro due ed è proprio questo il principio su cui si costruisce la storia di Giuseppe.

Come succede in tutte le famiglie sane, non solo in quelle poligamiche, i fratelli non vanno granché d’accordo ed è palese il loro rancore verso Giuseppe, di cui si dice all’inizio del racconto che gli era stata tessuta una tunica intera e con le maniche.

[Nota – È la stessa cosa che si dirà di Gesù quando al momento della crocifissione si dividono le vesti e dicono: la tunica è preziosa perché è senza cuciture per cui tiriamola a sorte, quindi la costruzione ci dice che a quel tempo non solo avere una tunica era già una certa ricchezza ma anche che c’è una costruzione simbolica, un collegamento tra la figura di Giuseppe sacrificato per salvare e Gesù che muore per salvare.]

Decidono dunque di uccidere Giuseppe, ma Ruben si oppone e alla fine scelgono di venderlo. Giuseppe finisce in Egitto, elemento fondamentale questo per giustificare in quella terra la presenza del popolo ebraico [Nota – Nel libro di Esodo sta scritto: “Sorse allora un Faraone che non aveva conosciuto Giuseppe”] e dunque l’esodo stesso, ovvero il patto con Dio, l’elezione e la salvezza. Giuseppe in Egitto vive alterna fortuna; dopo un primo periodo felice, finisce in carcere ma poi di nuovo ne esce perché il suo dono di interpretare i sogni non solo salva l’Egitto dalla carestia, ma gli consente di diventare il granaio anche per gli altri che invece non erano stati così accorti e dunque soffrono la fame. I fratelli di Giuseppe vanno in Egitto a cercare cibo. Sentono il peso di una grande colpa, quella di aver venduto il fratello.

Quando arrivano in Egitto, la storia ci presenta una strana dinamica perché Giuseppe non si fa riconoscere, poi cerca di metterli nei guai facendoli passare per ladri e diventa lui il bugiardo. Ed è proprio questo complicato gioco di espiazioni ad aver suggerito il titolo della lectio di oggi: Giuseppe il nutritore dell’ambiguità. Nutrire è anche un atto di ricatto, come sanno bene le madri, è al tempo stesso dono e furto di libertà. L’atto di nutrire fa vivere ma rende dipendenti e dunque il gesto del nutrire richiede un sovrappiù di libertà.

Più o meno alla fine di questa storia, quando finalmente Giuseppe decide di manifestarsi, si trova il testo che leggeremo un po’ velocemente.

Il testo

1Allora Giuseppe non poté più trattenersi dinanzi a tutti i circostanti e gridò: «Fate uscire tutti dalla mia presenza!». Così non restò nessun altro presso di lui, mentre Giuseppe si faceva conoscere dai suoi fratelli. 2E proruppe in un grido di pianto. Gli Egiziani lo sentirono e la cosa fu risaputa nella casa del faraone. 3Giuseppe disse ai fratelli: «Io sono Giuseppe! È ancora vivo mio padre?». Ma i suoi fratelli non potevano rispondergli, perché sconvolti dalla sua presenza. 4Allora Giuseppe disse ai fratelli: «Avvicinatevi a me!». Si avvicinarono e disse loro: «Io sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto. 5Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. 6Perché già da due anni vi è la carestia nella regione e ancora per cinque anni non vi sarà né aratura né mietitura. 7Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione. 8Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio. Egli mi ha stabilito padre per il faraone, signore su tutta la sua casa e governatore di tutto il territorio d’Egitto. 9Affrettatevi a salire da mio padre e ditegli: «Così dice il tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha stabilito signore di tutto l’Egitto. Vieni quaggiù presso di me senza tardare. 10Abiterai nella terra di Gosen e starai vicino a me tu con i tuoi figli e i figli dei tuoi figli, le tue greggi e i tuoi armenti e tutti i tuoi averi. 11Là io provvederò al tuo sostentamento, poiché la carestia durerà ancora cinque anni, e non cadrai nell’indigenza tu, la tua famiglia e quanto possiedi». 12Ed ecco, i vostri occhi lo vedono e lo vedono gli occhi di mio fratello Beniamino: è la mia bocca che vi parla! 13Riferite a mio padre tutta la gloria che io ho in Egitto e quanto avete visto; affrettatevi a condurre quaggiù mio padre».14Allora egli si gettò al collo di suo fratello Beniamino e pianse. Anche Beniamino piangeva, stretto al suo collo.15Poi baciò tutti i fratelli e pianse. Dopo, i suoi fratelli si misero a conversare con lui.

1Allora Giuseppe non poté più trattenersi dinanzi a tutti i circostanti e gridò: «Fate uscire tutti dalla mia presenza!».

Giuseppe era nel pieno del suo potere, plenipotenziario del Faraone, quindi riceveva, come usava nelle corti antiche, tutti insieme in un grande caos. Nel versetto 1 vi è il colpo di scena in cui Giuseppe rivela la sua identità ai fratelli e questi credono di vedere un fantasma, ovvero vedono materializzata la loro colpa. Da cosa “Giuseppe non poté più trattenersi”? Di primo acchito potremmo pensare che non riesce a trattenersi dal rivelare chi è. D’altra parte lo abbiamo già visto fare questo giochetto un paio di volte. Da cos’è che non può più trattenersi? Lo dico per fare un po’ in fretta ma spero sia chiaro. I nostri legami con il mondo, con l’esterno, con quel che non siamo noi e di cui il cibo come ho già detto è il grande simbolo radicale e mentale, sono legati a noi o dai diritti o dai doveri. Il fatto è però che le verità della vita, le cose fondamentali, non passano né per i diritti né per i doveri, ma per un terzo tipo di relazioni che è quello dello scambio, ovvero del dono gratuito che nutre e fa crescere o del ricatto, il dono che rende dipendenti e imprigiona.

La prima cosa che il testo ci dice è che Giuseppe non ce la fa più a rimanere nella logica dei diritti e dei doveri. Non riesce a trattenersi, cambia registro. Il cambiamento di registro nell’AT è quasi sempre segnato da due elementi: il sogno o il pianto. Quando nel racconto si incontra qualcuno che sogna o che piange significa che si passa da una logica di diritti e doveri, cioè dalla logica della giustizia (così va il mondo) e del buon senso comune, alla logica della misericordia, cioè non diritti e doveri ma scambio, non buon senso ma controsenso. Perfino Gesù piange prima della crocifissione perché a quel punto si cambia registro.

Ed è proprio quel che succede nel passo che abbiamo scelto, si passa a un altro livello. Noi, che abbiamo perso il linguaggio elementare, tendiamo a leggere le situazioni secondo un ordine moralistico: i diritti e i doveri ci spiegano il reale e ci dicono come si fa per essere giusti. L’altro livello, quello dato dalla carità, da quel sovrappiù talmente eroico che non funziona secondo giustizia e ci crea un sacco di conflitti (ad esempio “porgi l’altra guancia”), è talmente vero che non lo mettiamo in pratica. Questo testo ci dice che non funziona così, poiché riesce a presentare entrambi i livelli in un contesto reale; lo scambio non è necessariamente buono, a volte è un ricatto o comunque è ambiguo, perché solo Dio è capace di donazione totale.

Il nostro problema non è né quello dei diritti e doveri né quello di decidere se meritiamo lo scambio oppure no, ma è quello di decidere quanta libertà riusciamo a mettere nello scambio. Tradotto in termini di cibo, la questione non è di passare dall’obesità all’anoressia o, in termini meno patologici, dal mangiare qualsiasi cosa a scelte radicali come il veganesimo, il bio totale o la macrobiotica, scelte che rientrerebbero nella logica dei diritti e dei doveri; la questione è quanta libertà conquistiamo in un rapporto tra noi e il mondo che passa anche attraverso il cibo.

Nel momento in cui Giuseppe entra in un’altra logica fa uscire tutti, perché la logica dello scambio ha tre caratteristiche che qui sono evidenti:
1. Una sorta di intimità, perché lo scambio non si fa con chiunque, né con il mondo in generale; è sempre una questione profondamente personale.
2. Richiede una certa conoscenza, ovvero bisogna rischiare di farsi conoscere e di riconoscere.
3. In genere costa, cioè fa piangere.

Di per sé non esiste una logica di scambio a buon mercato perché altrimenti sarebbe uno scambio falso, ricattatorio. L’acquisto della libertà nel rapporto con il mondo, nell’atto di affidarsi agli altri, ha un costo. In questo aveva ragione Oscar Wilde che diceva: “Tutto quel che è buono nella vita, o fa male, o fa ingrassare, o è peccato”. Perché l’aumento di libertà, il nutrirsi, il crescere, costano, sono un problema. Infatti la parte più importante della nostra crescita, fra gli zero e i tre anni, è totalmente sottratta al nostro controllo, se no non cresceremmo. Se potessimo decidere, lasceremmo proprio perdere. E non a caso tutti conserviamo una nostalgia infantile, tanto che ci viene da dire: “Adesso piango e qualcuno si prende cura di me, mi nutre, mi coccola, mi consola e tutto passa”.

Il testo dice che la cosa fu risaputa nella casa del Faraone. Significa che per quanto lo scambio richieda una sorta di intimità, è sempre pubblico. Si sente piangere, qualcosa si vede. Nessun dono che esca dalla logica dei diritti-doveri può rimanere privato.

3Giuseppe disse ai fratelli: «Io sono Giuseppe! È ancora vivo mio padre?». Ma i suoi fratelli non potevano rispondergli, perché sconvolti dalla sua presenza.

Non sanno se aspettarsi una botta in testa o una predica, non sanno neppure se sia davvero lui. È una questione che li supera, perché la vita in una logica di scambio ci sorprende. Quando usciamo dalla logica dei diritti-doveri, succede l’inatteso. Tra l’altro questa è un’esperienza che tutti noi abbiamo fatto almeno una volta nella vita: uscire dalla logica del calcolo, presto o tardi provoca sempre qualcosa di nuovo.

4Allora Giuseppe disse ai fratelli: «Avvicinatevi a me!».

Dei tre elementi iniziali – una certa intimità, la conoscenza e il pianto – viene ripreso quello dell’intimità. La riduzione della distanza è il tema grande dello scambio. Il problema è definire l’intimità, altro tema su cui non abbiamo più un linguaggio credente, spirituale, capace di dire qualcosa. Pensiamo all’intimità soprattutto in relazione alla sessualità e al pudore, quando in realtà è una delle dinamiche forti della vita, come il desiderio o il potere, è una di quelle cose che regge la nostra esistenza; è una questione di distanze e vicinanze, di scoprirsi non solo materialmente e di coprirsi con maschere. Intimità significa “chi, quanto, di me può essere mostrato e quando”. E come tutte queste dinamiche profonde non è una linea retta bensì complessa, perché a volte mostrare troppo fa male, bisogna mostrare meno, ma proprio perché non è sopportabile il troppo. Non è detto che “di più” sia meglio.

A questa descrizione segue la parte molto bella del discorso di Giuseppe. Sarebbe interessante che ciascuno di noi provasse a scrivere cosa avrebbe detto se si fosse trovato al posto di Giuseppe. Io credo che molti inveirebbero contro i fratelli, con un po’ di rancore, perché il nostro istinto è di rimanere molto legati al passato. Altri forse farebbero un discorso buonista, che include il perdono, con parole consolatorie come: “Tutto sommato invece di fare il pastore nel deserto sono governatore dell’Egitto che è erto meglio, quindi nonostante voi mi è anche andata bene e per questo vi perdono”. In entrambi i casi non usciremmo dal registro dei diritti e dei doveri.

E invece Giuseppe il nutritore fa un discorso di scambio e dice:

«Io sono Giuseppe, il vostro fratello, quello che voi avete venduto sulla via verso l’Egitto. 5Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita. 

È un capolavoro. Parte dalla realtà, non nega il gesto dei fratelli e non li scusa troppo facilmente ma al tempo stesso ricorda loro: “Non siete voi a governare la storia e il vostro gesto non vi ha dato potere né su di me né sulla storia. Voi potete anche essere cattivi secondo la regola della giustizia, ma quello che sta succedendo è altro”. Io trovo che questo dovrebbe essere il modello primario di ogni modo spirituale di guardare al reale, che non vuol dire essere buonisti o negare gli aspetti negativi, né significa far finta che tutto vada bene. Non è questa la questione. Una lettura spirituale porta a essere realisti e a rendersi conto di cosa è che governa davvero la storia, smascherando ogni idolo. Giuseppe dice chiaramente: non avrete mica creduto che la vostra scelta fosse in grado di governare la storia?

6Perché già da due anni vi è la carestia nella regione e ancora per cinque anni non vi sarà né aratura né mietitura. 7Dio mi ha mandato qui prima di voi, per assicurare a voi la sopravvivenza nella terra e per farvi vivere per una grande liberazione.

È il presupposto per l’esodo. Giuseppe dice: guardate, la storia sta andando in una logica di dono in cui la vostra scelta non ha nessuna importanza. Per questo dovete pagare – e in effetti lo hanno fatto finendo in prigione a seguito dell’accusa di furto – ma non crucciarvi, perché tanto non conta nulla.

8Dunque non siete stati voi a mandarmi qui, ma Dio. Egli mi ha stabilito padre per il faraone, signore su tutta la sua casa e governatore di tutto il territorio d’Egitto.

Ecco la seconda verità. La prima era “voi mi avete venduto” e la lettura spirituale è “non siete stati voi ma Dio”. L’altra realtà è: Giuseppe è il signore della casa del Faraone, il governatore dell’Egitto, ovvero anche se i fratelli avevano fatto dei piani e lui stesso ne aveva fatti, è successa un’altra cosa. Giuseppe sa di avere un potere.

Dopodiché fa seguire la lettura spirituale su di sé e sulla sua capacità di mettersi in una logica di scambio e rivela la realtà dei fratelli, nonché la lettura spirituale della loro scelta. Infine esprime la sua realtà che è molto realistica, quella in cui lui dice “io sono molto potente”.

9Affrettatevi a salire da mio padre e ditegli: «Così dice il tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha stabilito signore di tutto l’Egitto. Vieni quaggiù presso di me senza tardare. 10Abiterai nella terra di Gosen e starai vicino a me tu con i tuoi figli e i figli dei tuoi figli, le tue greggi e i tuoi armenti e tutti i tuoi averi. 11Là io provvederò al tuo sostentamento, poiché la carestia durerà ancora cinque anni, e non cadrai nell’indigenza tu, la tua famiglia e quanto possiedi».

Giuseppe chiede un’uscita, perché ogni scambio lo richiede. Il tema dell’uscita è costante in tutte le storie dei patriarchi. Entrare nella logica dello scambio e del dono e volerci entrare in libertà e non con il ricatto, è un tema di uscita. “Esci, vai, muoviti, fatti provocare”. Poi arriva la piccola conclusione.

9Affrettatevi a salire da mio padre e ditegli: «Così dice il tuo figlio Giuseppe: Dio mi ha stabilito signore di tutto l’Egitto. Vieni quaggiù presso di me senza tardare. 10Abiterai nella terra di Gosen e starai vicino a me tu con i tuoi figli e i figli dei tuoi figli, le tue greggi e i tuoi armenti e tutti i tuoi averi. 11Là io provvederò al tuo sostentamento, poiché la carestia durerà ancora cinque anni, e non cadrai nell’indigenza tu, la tua famiglia e quanto possiedi».

Lo scorso anno abbiamo parlato del tema della conversazione, che appunto esula dalla questione dei diritti e dei doveri. Conversare per dovere è impossibile, toglie ogni piacere, così come è impossibile pretendere la conversazione come diritto; posso avere il piacere di chiacchierare, ma se il mio interlocutore ha la testa altrove o non è nella disposizione d’animo giusta, non succede nulla. Conversare è un atto di scambio e lo sappiamo bene e dunque molte conversazioni possono anche essere atti di ricatto. Possono strumentalizzare le tue parole o mancare di intimità, mentre all’opposto vi sono le conversazioni gratuite, quelle con gli amici in cui si crea una atmosfera di rilassatezza, in cui si percepisce una storia condivisa, vi è la giusta vicinanza e la giusta distanza; sono momenti magici in cui dici “abbiamo passato insieme il tempo in modo davvero piacevole, è stato molto bello”, perché una buona conversazione nutre.

La sapienza cristiana sa bene che la conversazione ha molti registri: chiacchiera, maldicenza, condivisione, ascolto… Molte sono le parole per definire questa cosa.

Alla fine della narrazione dell’incontro, i fratelli si mettono a conversare con Giuseppe ed è lì che si guarisce la ferita della rottura, non certo nel gesto con cui Giuseppe procura il cibo, perché quello potrebbe essere ancora un gesto di potere, ovvero di ricatto. Solo con la conversazione che accompagna il cibo procurato è possibile sanare la ferita.

Concludo con la citazione di uno scritto di Salmann che mi pare possa legarsi bene al discorso che abbiamo fatto:

Senza questa tensione e tenzone dialettiche tra grazia e peccato, tra vita e morte, tra diritto umano e giustizia divina, tra crisi e salvamento, la fede cristiana perderebbe ogni rapporto alle esperienze più traumatiche e belle dell’umanità, l’umanesimo della quale non sussiste e si ricrea mai in sé e di per sé, non è una conquista pacifica, ma si ricupera solo mediante il sacrificio, la preghiera, l’espiazione. Si paga sempre troppo per ogni bene – e solo il bene sofferto può promettere un sollievo e un riscatto. Pensiamo alla storia quanto mai umanistica del Giuseppe biblico che subisce diverse forme di purificazione (per poi poter diventare il Nutritore dell’Egitto) e che non può non imporre la sofferenza dell’espiazione ai suoi fratelli per diventare degni del perdono, cioè solo rispettando la profondità del loro delitto, del loro destino fallimentare, potrà salvaguardare la loro libertà e dignità.

Mi sembra quindi che lo sfondo intorno a cui la questione del cibo si pone sia questo e la Bibbia lo colloca proprio all’inizio, nelle storie dei patriarchi, con tutta la lunga storia di Giuseppe. Il cibo è un segno di affidamento per cui noi scommettiamo ogni volta che introduciamo qualcosa in noi, che l’esterno non ci uccida, non ci avveleni, ma ci nutra e dobbiamo ogni volta fare un gesto di affidamento. In questo gesto apparentemente semplice nel suo compiersi, c’è però il grande tema che dobbiamo recuperare e che rischiamo di non vedere più. Recuperare un linguaggio elementare non vuol dire essere elementari, anzi per recuperare un linguaggio elementare bisogna fare un passaggio molto complicato per riuscire a tornare al semplice perché una volta perso è molto difficile ritrovarlo. Quel che dobbiamo ritrovare in questo gesto semplice è la dinamica dello scambio, dell’uscire dalla logica dei diritti e dei doveri che per esempio nella logica cristiana si traduce nella logica moralistica del giusto e dello sbagliato, della grazia e del peccato troppo rigidamente separati, in quanto elementi considerati giusti o sbagliati in sé, in cui non c’è spazio per l’ambiguità. Mi sembra invece che la grande questione sia recuperare la logica dello scambio, che può condurre a una conversazione, non a una soluzione o a un risultato, ma a uno scambio che nutre.

Fossano, 11 ottobre 2014

(testo non rivisto dal relatore)