XIII Domenica
del Tempo ordinario – Anno A
Matteo 10,37-42
In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato […] Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».
(Letture: 2 Re 4,8-11.14-16; Salmo 88; Romani 6,3-4.8-11; Matteo 10,37-42)

La legge dell’amore in un bicchiere d’acqua
Ermes Ronchi
Un Dio che pretende di essere amato più di padre e madre, più di figli e fratelli, che sembra andare contro le leggi del cuore. Ma la fede per essere autentica deve conservare un nucleo sovversivo e scandaloso, il «morso del più» (Luigi Ciotti), un andare controcorrente e oltre rispetto alla logica umana.
Non è degno di me. Per tre volte rimbalza dalla pagina questa affermazione dura del Vangelo. Ma chi è degno del Signore? Nessuno, perché il suo è amore incondizionato, amore che anticipa, senza clausole. Un amore così non si merita, si accoglie.
Chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà! Perdere la vita per causa mia non significa affrontare il martirio. Una vita si perde come si spende un tesoro: investendola, spendendola per una causa grande. Il vero dramma per ogni persona umana è non avere niente, non avere nessuno per cui valga la pena mettere in gioco o spendere la propria vita.
Chi avrà perduto, troverà. Noi possediamo veramente solo ciò che abbiamo donato ad altri, come la donna di Sunem della Prima Lettura, che dona al profeta Eliseo piccole porzioni di vita, piccole cose: un letto, un tavolo, una sedia, una lampada e riceverà in cambio una vita intera, un figlio. E la capacità di amare di più.
A noi, forse spaventati dalle esigenze di Cristo, dall’impegno di dare la vita, di avere una causa che valga più di noi stessi, Gesù aggiunge una frase dolcissima: Chi avrà dato anche solo un bicchiere d’acqua fresca, non perderà la sua ricompensa.
Il dare tutta la vita o anche solo una piccola cosa, la croce e il bicchiere d’acqua sono i due estremi di uno stesso movimento: dare qualcosa, un po’, tutto, perché nel Vangelo il verbo amare si traduce sempre con il verbo dare: Dio ha tanto amato il mondo da dare suo Figlio. Non c’è amore più grande che dare la vita!
Un bicchiere d’acqua, dice Gesù, un gesto così piccolo che anche l’ultimo di noi, anche il più povero può permettersi. E tuttavia un gesto non banale, un gesto vivo, significato da quell’aggettivo che Gesù aggiunge, così evangelico e fragrante: acqua fresca.
Acqua fresca deve essere, vale a dire l’acqua buona per la grande calura, l’acqua attenta alla sete dell’altro, procurata con cura, l’acqua migliore che hai, quasi un’acqua affettuosa con dentro l’eco del cuore.
Dare la vita, dare un bicchiere d’acqua fresca, ecco la stupenda pedagogia di Cristo. Un bicchiere d’acqua fresca se dato con tutto il cuore ha dentro la Croce. Tutto il Vangelo è nella Croce, ma tutto il Vangelo è anche in un bicchiere d’acqua.
Nulla è troppo piccolo per il Signore, perché ogni gesto compiuto con tutto il cuore ci avvicina all’assoluto di Dio.
Amare nel Vangelo non equivale ad emozionarsi, a tremare o trepidare per una creatura, ma si traduce sempre con un altro verbo molto semplice, molto concreto, un verbo fattivo, di mani, il verbo dare.
Avvenire
Degni di Lui
Clarisse Sant’Agata
Se l’evangelo della scorsa domenica si apriva con la grande e rassicurante esortazione “non temete”, quello di questa settimana raccoglie una serie di detti di Gesù piuttosto duri, rivolti ai suoi discepoli. Non è una novità che talvolta il Signore si rivolga ai suoi con parole difficili da digerire. Nell’evangelo di Giovanni infatti, sono proprio i discepoli, dopo il lungo discorso del pane, ad affermare con forza: “questa parola è dura, chi può comprenderla?” (Gv 6,60). E la lettera agli Ebrei dice che “la Parola di Dio è viva ed efficace, più penetrante di ogni spada a doppio taglio” (Eb 4,4) . Anche nell’evangelo di oggi le Parole del Signore richiedono uno sforzo di comprensione per entrare in quel dinamismo nel quale vogliono condurre la vita di ogni discepolo.
Gesù sta parlando a coloro che sono stati inviati ad annunciare l’evangelo e dopo averli istruiti su come annunciare (Mt 10,5-16), e su come vivere la persecuzione (Mt 10,17-32), consegna loro le misure della Parola che annunciano: “Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada” (Mt 10,34), la stessa spada di cui appunto ci parla la lettera agli Ebrei. Dunque si ha a che fare con una Parola che separa, una spada a doppio taglio che chiede di prendere posizione. Una Parola che, messa sulla bilancia, ha un peso e chiede il suo corrispondente, “una misura buona, pigiata, scossa e traboccante”. (Lc 6,38)
A questa immagine della bilancia si riferisce il versetto con cui si apre il vangelo di oggi: “chi ama padre o madre più di me non è degno di me” (Mt 10,37). L’espressione “non è degno di me” ricorre tre volte nei primi due versetti, a conclusione di tre detti molto esigenti nell’ottica della sequela che ci pongono non poche domande. Prima fra tutte: cosa sta veramente dicendo Gesù? E’ forse possibile “essere degni di Lui”? Davvero è sufficiente di impegnarci ad amarlo più di padre e madre, più del figlio e della figlia, più della nostra stessa vita per essere degni di Lui? E lo scorrere dei nostri giorni, non ci testimonia forse che da questo sforzo immane ne usciamo sempre perdenti? Cosa dunque vuole veramente dire “essere degni di Lui”?
Il vocabolo “axios”, tradotto in italiano con “essere degno”, in greco non vuole dire in primo luogo sforzarsi di meritare qualcosa, come viene in mente immediatamente a ciascuno quando si pronuncia questa parola. Non è una prestazione da dare con quanta più cura è possibile per accedere ad un premio. Il vocabolo evoca piuttosto, come accennavamo all’inizio, l’immagine della bilancia. “Essere degni” vuol dire “pesare il giusto peso”. In una bilancia a due piatti, se da una parte il peso è l’Amore del Signore Gesù che ha dato la sua vita fino alla fine, dall’altra parte occorre un Amore altrettanto “pesante”, altrimenti la bilancia non trova equilibrio.
Questo allora vuole dire “essere degni”, pesare il giusto peso. Se l’amore di padre e madre, di figlio e figlia è “più di me”, la bilancia si ribalta perché il peso non è sufficiente. Se non si prende la nostra croce ogni giorno il “peso” della nostra sequela è insufficiente all’equilibrio della bilancia. Non che si parli di amore sbagliato, ma di amore non sufficiente. E’ una immagine molto bella e molto chiara che svela il senso di questi versetti, soprattutto se associata ad un altro testo nel Nuovo Testamento nel quale ritroviamo il nostro vocabolo: “Tu sei degno, o Signore e Dio nostro, di ricevere la gloria, l’onore e la potenza, perché tu hai creato tutte le cose, e per la tua volontà furono create e sussistono” (Ap 4,11). E ancora: “Tu sei degno di prendere il libro e di aprirne i sigilli, perché sei stato immolato e hai riscattato per Dio con il tuo sangue uomini di ogni tribù, lingua, popolo e nazione” (Ap 5,8). Il dono che il Signore fa della sua vita lo rende “sufficientemente pesante” per ricevere la gloria, l’onore e la potenza, ma soprattutto per aprire il libro della storia di ogni uomo e leggerlo.
Dunque non si tratta di ingaggiare una lotta che dura tutta la vita per sforzarci di essere quello che non siamo, ma di riconoscere a quale misura ci chiama l’Amore di Colui che per noi ha dato se stesso e vivere secondo questa misura. Cosa questo concretamente significhi ce lo rivelano i versetti del Vangelo di oggi che seguono: “chi avrà tenuto per sé la propria vita la perderà e chi avrà perduto la propria vita per causa mia e del vangelo la troverà”; e ancora: “chi accoglie me, accoglie Colui che mi ha mandato” e “chi avrà dato da bere anche solo un bicchiere d’acqua… riceverà la sua ricompensa” (Mt 10, 39-42). Perdere la vita, accogliere, dare un bicchiere d’acqua: gesti concreti che ci dicono che “pesare il giusto peso” non chiede grandi sforzi, ma solo un’attenzione alla vita concreta di cui sono fatte le nostre giornate e una consapevolezza maggiore che i nostri gesti quotidiani sono il luogo dove la bilancia torna in equilibrio oppure si ribalta.
Quello dell’evangelo di oggi è allora un invito ad avere uno sguardo attento non a ciò che immediatamente ed evidentemente lo attira, ma a quei gesti silenziosi e nascosti nei quali possiamo trattenere la vita per noi o possiamo invece scegliere di donarla, i piccoli gesti che ci fanno “degni di Lui”.
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Il radicalismo cristiano
Enzo Bianchi
Il brano evangelico di questa domenica contiene l’ultima parte del discorso missionario rivolto da Gesù ai suoi discepoli, ai dodici inviati ad annunciare il regno dei cieli ormai vicino (cf. Mt 10,7) e a far arretrare il potere del demonio (cf. Mt 10,1). Diverse parole di Gesù sono state raccolte qui da Matteo, parole dette probabilmente in circostanze diverse ma che nel loro insieme determinano il contenuto e lo stile della missione, e preannunciano anche le fatiche e le persecuzioni che i discepoli dovranno subire, perché accadrà loro ciò che Gesù stesso, loro maestro e rabbi, ha sperimentato (cf. Mt 10,24-25).
Ma cosa mai potrà dare al discepolo la forza di resistere di fronte a ostilità, calunnie, contraddizioni che minacciano anche le relazioni più comuni e quotidiane, quelle familiari? L’amore, solo l’amore per il Signore! Ecco perché Gesù ha fato risuonare delle parole forti, che ci scuotono: “Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me”. Questa sentenza di Gesù può sembrare innanzitutto una pretesa inaudita e irricevibile, ma è una sua parola autentica che va compresa in profondità. Gesù non insinua che non si debbano amare i propri genitori o i propri figli – come d’altronde richiede il quinto comandamento della legge santa di Dio (cf. Es 20,12; Dt 5,16) – e neppure esige un amore totalitario per la sua persona, ma richiama l’amore che deve essere dato al Signore, amore che richiede di realizzare la sua volontà. Gesù si rallegra quando ciascuno di noi vive le sue storie d’amore e quindi sa custodire e rinnovare l’amore per l’altro – coniuge, genitore o figlio –, ma chiede semplicemente che a lui, alla sua volontà, non sia preferito niente e nessuno da parte del discepolo.
Seguire Gesù, infatti, può destare l’opposizione proprio da parte di quelli che il discepolo ama, può far emergere una divisione, una differenza di giudizio e di atteggiamenti rispetto a Gesù stesso. In queste situazioni il discepolo, la discepola, dovrà avere la forza e il coraggio di fare una scelta e di dare il primato a Gesù, alla sua presenza viva e operante. Sì, va detto con chiarezza: se i genitori, o chiunque altro sia legato a noi da un vincolo di parentela e di amore umano, diventano un impedimento alla sequela del Signore, allora occorre che l’amore di Cristo abbia una preminenza anche sugli amori generati dal vincolo familiare. Con un linguaggio maggiormente segnato dalla cultura semitica, abituata a utilizzare immagini più concrete e a farlo attraverso una lingua ricca di antitesi e di forti contrasti, nel passo parallelo di Luca queste espressioni risuonano con ancora maggior durezza: “Se uno viene a me e non odia (cioè, non ama meno di me) suo padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). Se una persona diventa ostacolo alla nostra sequela, se contraddice il nostro amore per Cristo, allora va odiato, cioè non va ritenuto qualcuno che possa determinare la nostra vita.
Questa rinuncia dovuta a un’azione di discernimento ha un solo nome – continua Gesù –: prendere, abbracciare la propria croce, cioè lo strumento dell’esecuzione del proprio uomo vecchio, della propria condizione di creatura soggetta al peccato e sotto l’influsso del demonio. Significativamente un discepolo dell’Apostolo Paolo attualizzerà queste parole di Gesù con un’espressione altrettanto esigente e forte: “Fate morire le vostre membra che appartengono alla mondanità” (Col 3,5). Si tratta di rinnegare se stessi, di smettere di conoscere soltanto se stessi, per conoscere Gesù Cristo e solo in lui anche noi stessi. Comunicare al mistero della morte di Cristo, perdendo la vita, spendendo la vita nel fare la volontà di Dio, cioè nell’amore dei fratelli e delle sorelle in umanità, è imprescindibile per l’autentico discepolo di Gesù.
Come dimenticare al riguardo, il prezzo della sequela del Signore Gesù pagato dai cristiani martiri, a causa della persecuzione di Satana, “il principe di questo mondo” (Gv 12,31; 16,11)? Nella passione di una donna e madre cristiana dell’inizio del III secolo, per esempio, si legge:
Il procuratore Ilariano, avendo il potere della spada, mi disse: “Abbi pietà dei capelli bianchi di tuo padre e della tenera età di tuo figlio. Sacrifica agli dèi per la salute degli imperatori. Ma io risposi: “Non faccio sacrifici agli dèi”. Ilariano mi chiese: “Sei cristiana?”. Risposi: “Sì, sono cristiana”. (Passione di Perpetua e Felicita 6,3-4)
Ecco l’amore per il Signore, preferito a un amore pur legittimo, santo e buono per i legami familiari.
Certamente queste parole di Gesù che chiedono di dare il primato al suo amore su ogni nostro amore non giustificano mai le nostre mancanze d’amore, il nostro evadere la carità verso i familiari, come Gesù stesso ha detto in polemica con alcuni farisei: “Mosè disse: ‘Onora tuo padre e tua madre’ (Es 20,12; Dt 5,16), e: ‘Chi maledice il padre o la madre sia messo a morte’ (Es 21,17; Lv 20,9). Voi invece dite: ‘Se uno dichiara al padre o alla madre: Ciò con cui dovrei aiutarti è korbàn, cioè offerta a Dio’, non gli consentite di fare più nulla per il padre o la madre. Così annullate la parola di Dio con la tradizione che avete tramandato voi. E di cose simili ne fate molte” (Mc 7,10-13). L’amore per il Signore, dunque, conferma i nostri amori, se questi sono trasparenti, all’insegna della vera carità e vissuti con giustizia; non è mai totalitario – lo ripeto –, ma chiede di essere collocato al primo posto. Come dice la Regola di Benedetto (4,21), “nulla preferire all’amore di Cristo” è ciò che caratterizza la sequela cristiana, la quale non si esaurisce nell’accoglienza della dottrina del maestro né nelle osservanze del suo insegnamento: è amore, amore per lui, il Cristo, il Signore, fino a smettere di riconoscere solo se stessi o quelli che amiamo naturalmente e con i quali viviamo le nostre relazioni.
Dobbiamo essere sinceri: questa istanza decisiva nel cristianesimo è dura, soprattutto oggi, in un tempo e in una cultura che rivendicano la realizzazione della persona, che ci chiedono l’affermazione di sé, anche senza o contro gli altri. Ma le parole di Gesù, che non hanno nessun carattere masochistico o negativo, in verità ci rivelano che, dimenticando di affermare noi stessi e accettando di perdere e spendere la vita per gli altri, accresciamo la nostra gioia e diamo senso e ragioni al nostro vivere quotidiano.
Ai discepoli in missione, infine, Gesù preannuncia anche che potranno contare sull’accoglienza da parte di uomini e donne che vedranno in loro dei profeti, dei giusti, dei piccoli. Costoro avranno una ricompensa grazie al loro discernimento e alla loro capacità di accoglienza: nel giorno del giudizio, certamente, ma anche già qui e ora, cominciando a sperimentare il centuplo sulla terra (cf. Mc 10,30).
Questo è il radicalismo cristiano! La sequela vissuta nell’amore per Cristo rende il discepolo degno di stare tra i testimoni del Regno che viene. Il saper non guardare a se stessi ma tenere fisso lo sguardo su Gesù (cf. Eb 12,2) per vivere i suoi sentimenti (cf. Fil 2,5) e agire come lui (cf. 1Gv 2,6), è la sequela cristiana. Profeti e giusti vanno dunque accolti e venerati, ma significativamente Gesù pone accanto a loro anche i piccoli, quelli sui quali altrove dice che si giocherà il giudizio finale (cf. Mt 25,40.45). I piccoli e i poveri, che Gesù ha sempre accolto e confermato nella loro prossimità al regno dei cieli, devono dunque essere accolti in modo preferenziale dalla comunità cristiana: anche e soprattutto così si mostra di amare in modo privilegiato il Signore Gesù! Ma oggi la comunità cristiana è capace di accogliere i poveri e di rendersi soggetto di magistero ecclesiale? È capace di rendere vicini i lontani?
‘http://www.monasterodibose.it
Missione come accoglienza: di Gesù e dei Suoi
Romeo Ballan mccj
Nella conclusione del “discorso missionario” (Mt 10), Gesù dispone l’animo dei suoi discepoli ad assumere due atteggiamenti necessari per chiunque è inviato ad annunciare il Regno: la vocazione con le sue esigenze e la missione come accoglienza. Un messaggio che tocca da vicino ogni cristiano, non soltanto i ‘missionari’. Anzitutto, la vocazione vissuta nell’amore. Gesù parla chiaramente di amore (v. 37) e di vita (v. 39). È in gioco la scelta per un amore più grande. L’amore ai familiari – doveroso, legittimo e benedetto – va visto insieme e confrontato con l’amore per Gesù. Solo alla luce dell’amore e della vita hanno senso le esigenze di una vocazione di servizio alla missione di Gesù; solo per amore è possibile fare scelte ardue, che risultano incomprensibili per chi è fuori di questa logica. Davanti al bene supremo – che è sempre e solo Dio – si dà il giusto peso anche a valori umani importanti, quali gli affetti familiari o gli interessi professionali, riservando, però, a Dio il primo posto, la prima scelta.
Il linguaggio di Gesù (‘prendere la croce’, ‘perdere la vita’) è scandaloso, sembra addirittura crudele, ma è l’unica parola che libera dalle illusioni e che ci fa trovare veramente la vita (v. 39); la via della croce è l’unica che sbocca nella vita vera: la risurrezione. Sono sempre attuali le parole di San Giovanni Paolo II: “Non abbiate paura di Cristo! Egli non toglie nulla, e dona tutto. Chi si dona a lui, riceve il centuplo. Sì, aprite, spalancate le porte a Cristo e troverete la vera vita”. Questo messaggio riguarda sia il missionario che annuncia il Vangelo sia coloro ai quali egli lo annuncia. A questa radicalità fa appello anche S. Paolo (II lettura): per il Battesimo siamo chiamati a “camminare in una vita nuova” (v. 4), perché “siamo morti con Cristo” e “vivremo con Lui” (v. 8.11).
Il secondo grande tema missionario di questa domenica è l’accoglienza. È esemplare l’ospitalità che la donna di Sunem e suo marito offrono al profeta Eliseo (I lettura), ma lo è anche la gratitudine di questo ‘uomo di Dio’ verso quella coppia sterile: dopo aver consultato il suo servo Giezi, Eliseo profetizza che presto avranno un figlio. Si tratta di uno scambio di doni, offerti nella gratuità. Gesù loda il gesto semplice, gratuito, di “chi avrà dato anche solo un bicchiere di acqua fresca” (Mt 10,42). Da notare il dettaglio dell’acqua fresca, particolarmente gradita nei paesi caldi. La missione come accoglienza ha il suo fondamento nell’identità che Gesù stabilisce tra Sé e i suoi: “Chi accoglie voi accoglie me” (v. 40); parole che riecheggiano il test del giudizio finale: “Avevo sete e mi avete dato da bere” (Mt 25,35).
Accogliere in casa o nel proprio paese chi è nel bisogno, o chi scappa da guerre, o è alla ricerca di condizioni più dignitose per sé e la famiglia, è sempre stata una meritevole opera di misericordia, ancora secondo le parole di Gesù: “ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35). Oggi, purtroppo, il complesso problema dell’accoglienza ai migranti-rifugiati-profughi è diventato un acceso tema politico a livello nazionale, europeo e mondiale, materia di continui dibattiti pubblici, carichi spesso di ideologie contrapposte. Lo scarso coinvolgimento di privati, associazioni e governi nel cercare soluzioni adeguate alle migrazioni è, almeno in parte, alla base di numerose tragedie e morti in terra e in mare, anche di donne, mamme e bambini.