Lectio divina
COME PAOLO GENERA LA COMUNITÀ
(1) «L’amore del Cristo ci possiede» (2Cor 5,14)
d. Lorenzo Zani
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Premessa
Sappiamo quanto sia ricco il pensiero di Paolo. Perciò è importante individuare il punto di partenza della sua teologia. La persona di Gesù sta assolutamente al centro dell’esperienza di Paolo e del suo messaggio. Ma è opportuno chiederci quale aspetto della vita di Gesù ha conquistato Paolo, con quali sottolineature egli lo propone: di tutto l’abbondante materiale riferito dai vangeli circa la vita pubblica di Gesù, Paolo riporta solo piccoli frammenti. L’intonazione all’intera vita e teologia di Paolo è data dall’evento pasquale di Gesù, dall’evento salvifico della sua morte e della sua risurrezione. Paolo prescinde dalle motivazioni storiche della morte di Gesù e va subito a coglierne il valore teologico e antropologico: quella morte rivela l’amore di Dio e ci procura la salvezza dal peccato, dalla legge e dalla morte. Di conseguenza, tutto il discorso su Dio, sull’uomo, sul mondo è ricondotto da Paolo nell’ottica della pasqua.
In questo incontro cerchiamo di capire come l’evento della morte e risurrezione di Gesù Cristo ha spinto l’apostolo Paolo a generare nuove comunità cristiane e come ha svolto in diverse città la plantatio ecclesiae, come ha generato la Chiesa nelle diverse città. La riflessione si articola in cinque punti.
Anzitutto cerchiamo di focalizzare come Paolo è stato afferrato dall’amore, dalla sollecitudine di Dio per l’uomo peccatore.
In secondo luogo cerchiamo di vedere come è nata in Paolo e come è stata vissuta da lui la tensione ad annunciare il vangelo fino ai confini della terra.
In terzo luogo analizziamo l’altra tensione che ha incalzato l’apostolo: il senso del tempo che è stato portato a pienezza da Gesù Cristo.
In quarto luogo analizziamo l’apertura globale, cosmica alla quale Cristo ha reso attento l’apostolo: Paolo ha percepito che il Risorto opera anche fuori della Chiesa e che tutto il cosmo viene ricondotto a lui.
Infine cerchiamo di vedere come la sollecitudine organizzativa, istituzionale ha portato l’apostolo a visitare in vari modi le comunità da lui generate e a valorizzare i carismi e i ministeri che Dio dispensa ai fedeli.
I. «L’amore del Cristo ci possiede» (2Cor 5,14)
Per Paolo il modo di concepire Dio e di concepire l’uomo sono strettamente collegati. Basta ricordare la frase: «Dio è per noi»! (Rm 8,31). In 2Cor 5,14 l’apostolo afferma che l’amore del Cristo ci possiede, ci avvolge, ci spinge(synechei). Questo verbo ha vari significati; uno è circolare: «avvolgere, tenere insieme, abbracciare, stringere»; un altro è lineare: «stimolare, spingere, urgere», un terzo è quasi costrittivo: «contenere, catturare, possedere, violentare». L’amore di Dio e di Cristo per noi è la fonte segreta del modo di pensare e di agire di Paolo, da qualcuno giudicato come fuori di senno, del suo nuovo modo di rapportarsi a Dio e agli uomini. Paolo ha sperimentato che l’amore di Cristo è così potente, così straordinario che non possiamo resistergli, quando lo incontriamo veramente.
1. Dio e l’uomo vanno visti in stretta relazione
L’amore di Dio e di Cristo ha fatto diventare Paolo nuova creatura, strappata da un vecchio modo di vivere, di giudicare. Avvolto dall’amore di Cristo, non conosce più se stesso e gli uomini secondo categorie terrene, basate sull’egoismo, sull’orgoglio o sulla paura della morte. Sperimentando la gratuità con cui è amato, la filiazione divina ricevuta in dono, Paolo capisce che tutti hanno bisogno e diritto di sentire questa lieta notizia che trasforma la vita. Paolo parte dalla situazione concreta, spesso drammatica, in cui vive l’uomo senza Cristo per annunciargli quella nuova, donata da Dio, e che noi riceviamo mediante la fede in Cristo, Figlio di Dio.
Questo comportamento di Paolo ci ricorda che per testimoniare il vangelo dobbiamo sempre tenere presente anche la condizione degli uomini nel nostro mondo. Siamo in un’epoca di profondo mutamento sociale: tutto questo produce smarrimento, perché non permette di ancorarsi a delle abitudini, a riferimenti precisi. Viviamo in un diffuso pluralismo e questo rende sempre più difficile l’orientarsi. Il nostro mondo occidentale è improntato al consumismo: i tanti beni a disposizione all’inizio procurano soddisfazioni anche lecite, ma che poi condizionano. Forse la caratteristica più diffusa e più tipica della coscienza contemporanea è il gusto della opposizione. Non si accetta la supremazia della verità e dei valori sui sentimenti, dell’intelligenza sulla volontà, dell’unità sul pluralismo, dell’eternità sulla temporalità. La conseguenza è il gonfiarsi canceroso della soggettività e della libertà.
Questa situazione non è del tutto negativa, non è solo un ostacolo. Il vangelo ha la possibilità di mostrare meglio il suo carattere di sfida, di realismo, di dono, di esercizio della vera libertà, di religione legata alla vita del corpo e non solo a quella della mente; il cristianesimo appare più vicino all’uomo, più bello, più vero; il mistero dell’amore trinitario appare come fonte di significato per la vita, luce per comprendere il mistero dell’esistenza umana, per trovare risposta al bisogno di relazioni e di compassione che tutti sperimentiamo.
Approfondiamo come Paolo parte dalla condizione umana per annunciare la salvezza compiuta da Dio in Gesù Cristo accostando tre testi: Rm 1,18-3,31 (lo completiamo con un accenno a Rm 5,1-5); Gal 4,1-7; Ef 2,11-21. In tutti e tre i testi Paolo sottolinea, anche grammaticalmente, la svolta realizzata da Dio in Gesù Cristo: in Rm 3,21 e in Ef 2,13 usa l’espressione avversativa «ora invece», in Gal 4,4 usa la congiunzione avversativa «ma».
2. Il vangelo della giustizia salvifica o dell’amore di Dio (Rm 1,18-3,31; 5,1-5)
In Rm 1,16-17 Paolo espone la tesi principale di tutta la Lettera ai Romani: «Io non mi vergogno del vangelo, poiché è potenza di Dio per la salvezza di chiunque crede, del giudeo prima e poi del greco. È in esso che si rivela la giustizia di Dio di fede in fede, come sta scritto: Il giusto vivrà mediante la fede». In questa frase risaltano solo termini positivi: potenza, salvezza, fede, giustizia, vita. Il vangelo consiste essenzialmente nell’annuncio di ciò che Dio ha compiuto in favore dell’uomo: egli sta dalla parte dell’uomo per promuoverne la dignità e, in quanto perduta, per restituirgliela appieno. L’evangelo è incentrato sulla realtà operata da Dio in Cristo.
Per Paolo la giustizia di Dio non è retributiva, ma è salvifica, indica il suo intervento fatto di misericordia, di grazia, di bontà, di benedizione, con il quale nell’uomo avviene un trasferimento di signoria: non è più né sotto il peccato, né sotto la legge, né sotto la morte, ma è in Cristo, crocifisso e risorto. Paolo sa che non è facile parlare della giustizia o della misericordia di Dio nei confronti dell’uomo: da un lato l’amore di Dio può venir banalizzato con espressioni retoriche che lo riducono a formule; dall’altro lato questo amore sembra negato dai problemi e dai dolori della vita. Per questo motivo prima di parlare della giustizia di Dio, Paolo parla dell’ira di Dio per la condizione negativa di coloro che vivono nel dramma del rifiuto di Dio (Rm 1,18-31) e per la condizione del credente che approfitta per così dire della sua fede per sentirsi a posto e per condannare gli altri, quindi per usurpare il posto di Dio e per comportarsi in modo ateo (Rm 2,1-3,8). In Rm 3,9-20 Paolo tira le conclusioni, espresse in maniera perentoria sia nella frase iniziale («tutti sono sotto il dominio del peccato»: Rm 3,9) come in quella finale («nessun vivente sarà giustificato davanti a Dio»: Rm 3,20). Paolo fa una constatazione amara sulla drammatica situazione di peccato in cui si trova tutta l’umanità.
L’apostolo parte dal riconoscimento della comune condizione di peccato che tocca tutti gli uomini per proclamare e far comprendere l’incommensurabile dono della grazia che Dio ci fa in Gesù Cristo. Infatti, dopo aver evidenziato in Rm 1,18-3,20 la situazione di peccato in cui si trovano tutti gli uomini, Paolo presenta la giustizia o la fedeltà di Dio, realizzata per mezzo di Gesù Cristo a nostro vantaggio (Rm 3,21-26). L’uomo si trova in un cumulo di lacunosità e di insufficienze: è peccatore, non riesce a essere se stesso, a realizzarsi. Ma Dio non rimane indifferente a questa situazione, non accetta la degradazione nella quale l’uomo si colloca, non lo abbandona. Per testimoniarci concretamente la sua fedeltà, Dio ci dona il Figlio, diventato eguale a noi, morto e risorto per noi. Donandoci il Figlio, il Padre continua a donare se stesso al mondo. Gesù ha preso su di sé tutto il peccato che pesa sull’umanità; nella sua obbedienza e nel suo amore tutti i comandamenti sono adempiuti, perciò in quell’obbedienza e in quell’amore si apre un nuovo orizzonte all’esistenza umana. La morte di Gesù, accolta con fiducia, libera l’uomo dalle sue scelte sbagliate, annulla il suo peccato. La risurrezione di Gesù irrobustisce e moltiplica i germi di bene, che sono nel cuore dell’uomo.
Per presentare l’opera realizzata da Dio per mezzo di Gesù Cristo l’apostolo ricorre a un triplice vocabolario: a quello commerciale del riscatto o della redenzione, a quello cultuale dell’espiazione, a quello delle relazioni interpersonali, espresso con la parola riconciliazione.
Il vocabolario commerciale della redenzione è adoperato in Rm 3,24: tutti quelli che credono «sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione che è in Cristo Gesù». Alla base di questo vocabolario commerciale c’è un riferimento alla liberazione d’Israele dall’Egitto, come si legge in Es 15,13: «Guidasti con il tuo amore questo popolo che hai riscattato». Paolo non dice mai che il proprietario precedente dell’uomo era il diavolo, ma indica questo proprietario con termini impersonali, come la carne, la legge, il peccato, la maledizione, la paura: sono le condizioni negative che schiavizzano l’uomo e da esse Gesù Cristo con la sua morte lo ha liberato, lo ha sottratto, riscattato, prosciolto. Per riscattare gli uomini dal peccato, dalla maledizione della legge, Cristo ha pagato un caro prezzo: il versamento del suo sangue sulla croce (1Cor 6,20).
In Rm 3,25 Paolo passa al linguaggio cultuale dell’espiazione: «Dio ha stabilito apertamente Gesù come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati». Lo strumento di espiazione fa riferimento al propiziatorio, cioè al coperchio d’oro dell’arca dell’alleanza, considerato segno, luogo della misteriosa presenza di Dio e del suo perdono (Es 25,17). Lì nel giorno del kippur con il sangue degli animali i peccati venivano gettati nella misericordia divina e veniva ristabilito il rapporto di alleanza con Dio infranto dai peccati. «Paolo accenna a questo rito, espressione del desiderio che si potessero realmente mettere tutte le nostre colpe nell’abisso della misericordia divina e così farle scomparire. Ma col sangue degli animali non si realizza questo processo. Era necessario un contatto più reale tra colpa umana e amore divino. Questo contatto ha avuto luogo nella croce di Cristo. Cristo, Figlio vero di Dio, fattosi uomo vero, ha assunto in sé tutta la nostra colpa. Egli è il luogo di contatto tra miseria umana e misericordia divina; nel suo cuore si scioglie la massa triste del male, compiuto dall’umanità, e si rinnova la vita. Con la croce di Cristo – l’atto supremo dell’amore divino divenuto amore umano – il vecchio culto con i sacrifici degli animali nel tempio di Gerusalemme è finito» (Benedetto XVI). L’espiazione, cioè il totale perdono dei peccati, è data da Dio non più per mezzo dell’effusione di sangue animale versato sul coperchio dell’arca dell’alleanza, ma esclusivamente per mezzo del sangue versato da Gesù Cristo.
In Rm 5,10-11 l’apostolo descrive l’amore di Dio e la nostra salvezza ricorrendo al vocabolario della riconciliazione: «Se quand’eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo, molto più, ora che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo pure in Dio, per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo, grazie al quale ora abbiamo ricevuto la riconciliazione». Anche in 2Cor 5,18-20 Paolo usa cinque volte la terminologia della riconciliazione: tre volte adopera il verbo riconciliare, due volte il sostantivo riconciliazione. La riconciliazione non è solo la normalizzazione dei rapporti dopo un litigio, ma comporta il superamento di una eterogeneità. Le scelte sbagliate rendono l’uomo peccatore e lo mettono in un disagio oscuro rispetto a Dio, proprio come se ci fosse stato un litigio. In questo senso l’uomo che pecca è nemico di Dio che invece vuole la reciprocità. La morte del Figlio di Dio libera l’uomo dalla sua eterogeneità e lo colloca in uno stato di faccia a faccia amichevole con Dio. Questo passaggio a una reciprocità tra l’uomo e Dio è chiamato da Paolo riconciliazione. Noi ora possediamo l’inizio della riconciliazione, ma ci troviamo nell’ambito operativo del mistero pasquale di Cristo e la vitalità del Risorto ci porterà alla salvezza intesa come riconciliazione piena, definitiva. Perciò possiamo davvero vantarci, cioè porre la fiducia, in Dio e sperare: Dio sta davanti a noi in un atteggiamento di reciprocità amorosa; questa situazione ci fa sfiorare l’assoluto della trascendenza, ci riempie di entusiasmi, ci permette di gloriarci in Dio.
Per quanto riguarda la redenzione, l’espiazione e la riconciliazione noi di solito pensiamo a uno schema ascendente, riteniamo che Cristo ha pagato al Padre al nostro posto e che espiare e riconciliarsi con Dio significa accattivarsi Dio, renderlo favorevole, portarlo dalla propria parte. Paolo pensa invece sempre secondo uno schema discendente. Noi pensiamo di dover riparare un torto fatto a Dio, mediante il pentimento e opportuni atti di contrizione. Paolo è convinto che dalla croce scaturisce l’infinita grandezza dell’amore di Dio e di Cristo per noi. La croce di Cristo non è il parafulmine nella tempesta dell’ira di Dio, ma è la rivelazione del folle amore di Dio per tutti, senza distinzioni razziali, religiose o sessuali. Paolo è evangelizzatore dell’azione con cui Dio misericordioso purifica l’uomo cancellando il suo peccato, rendendolo capace di crescere come figlio suo; Paolo annuncia che Dio ha preso l’iniziativa di realizzare la nuova alleanza, di ricomporre in modo nuovo e definitivo il rapporto degli uomini con lui. Dio è misericordioso senza limiti e senza ragioni: la nostra salvezza non sta nella nostra riparazione del peccato, ma nell’accoglienza dell’amore divino. Dobbiamo accettare questa rivoluzione copernicana annunciata da Paolo e da tutto il Nuovo Testamento. La giustificazione, la redenzione, l’espiazione, la riconciliazione è pura grazia divina.
Il messaggio di Paolo sulla iniziativa gratuita di Dio può sembrare rischioso, perché può condurre a un’etica passiva. Tuttavia è un rischio che bisogna correre, perché prima di tutto va annunciato il dono che viene da Dio: è stato lui a riconciliarci con sé nella morte e risurrezione di Gesù Cristo. Dopo che Gesù ha rivelato sulla croce l’amore di Dio, il mondo appare nella sua profonda verità e nella sua validità. Per vivere in modo adeguato, occorre essere coscienti della misericordia di Dio, della gratuità nella quale siamo immersi, occorre anzitutto immedesimarsi in ogni istante nella misericordia di Dio e porsi dal fondo dell’anima a sua disposizione.
Per capire in che senso noi siamo ministri della riconciliazione possiamo tenere presenti diversi modelli. Questo ministero può essere compreso in senso teologico, alla luce di chi è Dio, delle Persone divine: è sostenuto dal modello dell’amore trinitario. Può essere inteso in senso antropologico o soteriologico: è per la salvezza degli uomini, è sostenuto dalla passione per gli uomini. Può venir inteso come una realtà ecclesiologica: la Chiesa è sacramento dell’incontro di Dio con gli uomini e degli uomini tra loro. Può venir inteso in senso escatologico: il mondo è il luogo delle promesse di Dio e va portato allo shalom biblico, al regno, che è anticipato dove c’è la rivelazione di Dio come Abbà e si vive la comunione fraterna. Ognuno di questi modelli dice che la riconciliazione e il suo annuncio investono tutta la coscienza e la fede cristiana.
Con la sua vita, morte e risurrezione il Figlio ci riconduce al Padre, noi possiamo diventare come Dio ci voleva, possiamo conoscere e accogliere il suo amore e vivere in pace con lui, aperti a un futuro di gloria. Perché la pace tra noi e Dio sia stabile, perché il suo amore venga sempre più apprezzato e accolto, perché noi ci sentiamo continuamente raggiunti, sostenuti e ricreati dal suo amore, il Padre effonde con abbondanza e continuità nei nostri cuori il suo Spirito, in modo che pervada tutta la nostra vita (Rm 5,1-5). Dio non si limita, quindi, a qualche atto di benevolenza; Dio ci dona il meglio di sé: assieme al Figlio ci dona il suo Spirito. L’amore di Dio non è una cosa che egli regala all’uomo, ma è lo stesso Spirito Santo.
Grazie alla presenza dello Spirito, Dio ama in noi, il suo amore diventa il nostro amore: la nostra vita è alimentata dall’amore di Dio. L’amore di Dio non ci esenta dalle contraddizioni che lacerano la storia personale e di tutti gli uomini. Ma Dio non ci lascia soli: il suo Spirito opera in noi soprattutto nel momento della prova, in tutte le circostanze che disturbano la nostra vita, impedisce che le sofferenze nelle loro varie forme ci portino a dubitare dell’amore di Dio, a rifiutarlo; lo Spirito ci assicura interiormente che il Padre ci ama e perciò ci permette di vivere anche le situazioni difficili, accettando la loro severa pedagogia, facendole diventare momenti che irrobustiscono la nostra fede, che verificano e consolidano la nostra speranza. Restiamo deboli, ma lo Spirito di Dio ci dà energie sufficienti per abbandonarci a Dio e gloriarci in lui, per porre cioè in lui il nostro appoggio.
3. Nella pienezza del tempo Dio mandò il suo Figlio per liberarci dalla legge e renderci figli suoi (Gal 4,1-7)
Nella Lettera ai Galati l’apostolo Paolo qualifica il tempo che precede la venuta di Gesù Cristo come quello dell’età minorile, aggiungendo che era il periodo della schiavitù dell’uomo agli elementi del mondo, cioè alle energie, ai poteri interni ed esterni che lo ingabbiano (possono essere le leggi biologiche, psicologiche, economiche, sociali, politiche, le presunte leggi astrali), al legalismo che lo tiene quasi in carcere e come sotto tutela (Gal 4,1-3).
Quando è giunto il momento da lui fissato, Dio ha dato pienezza al tempo mediante due missioni complementari: ha mandato il proprio Figlio e ha mandato lo Spirito del Figlio suo.
Anzitutto ha mandato il proprio Figlio. L’invio del Figlio comporta un duplice movimento: discendente e ascendente. Il movimento discendente è espresso dalle due caratteristiche della venuta di Gesù: è nato da donna ed è nato sotto la legge. È entrato nel mondo come ogni altro essere umano, attraverso il grembo di una donna. L’espressione «nato da donna» connota la fragilità: il Figlio di Dio è divenuto fragile, mortale, ha preso un corpo nel grembo di una donna. L’espressione «nato sotto la legge» sottolinea che è nato come membro del popolo ebraico, in una condizione di sudditanza alla legge che caratterizza l’erede minorenne. Con due «affinché» Paolo esprime la finalità di questo invio del Figlio, cioè il dono fatto agli uomini di poter compiere un movimento ascendente. In primo luogo il Figlio è venuto per riscattarci, per liberarci dalla sudditanza della legge, vissuta come una schiavitù e come pretesa di autosalvezza e diventata perciò fonte di peccato. La seconda finalità completa la prima: il Figlio è venuto, è disceso tra noi per darci il dono massimo, per farci diventare figli di Dio.
Poi Paolo parla della seconda missione fatta da Dio Padre: il nostro essere figli di Dio è testimoniato dallo Spirito Santo ed è opera dello Spirito Santo. Il dono dello Spirito coincide con il fine della nascita di Gesù, della sua vita e specialmente della sua pasqua. Lo Spirito agisce prima nel Figlio e poi in ciascuno noi, nei nostri cuori, operando in noi a partire dal battesimo una creazione nuova che ci conforma al Figlio di Dio, ci fa entrare nella sua relazione filiale, spingendoci a gridare con amore e fiducia: «Abbà! Padre!». Lo Spirito Santo è donato dal Padre a Gesù e da lui passa nel credente perché possa ripetere col cuore la stessa preghiera filiale al Padre. Lo scopo dello Spirito in Gesù e in noi è costituire e manifestare la condizione di figli: in senso proprio o naturale in Gesù, in senso adottivo in noi. Il paradosso che Paolo annuncia è questo: un Dio che si fa uomo per rendere divini gli umani. «Una funzione importante – se non la principale – del paradosso è quella di provocare meraviglia e stupore di fronte a un Dio che si rivela in maniera eccedente rispetto alle attese umane» (E. Bosetti).
Essere liberati dalla sudditanza alla legge non significa essere senza legge, ma essere guidati dalla legge dello Spirito. In Gal 4,7 Paolo presenta la conclusione: «Quindi non sei più schiavo, ma figlio; e se figlio, sei anche erede per volontà di Dio». Per Paolo siamo nel tempo della filialità. In questo passo Paolo pone in risalto l’attualità del dono portato da Gesù, il nostro essere già figli di Dio. In Rm 8,18-30 Paolo parla del gemito di chi aspetta ancora il compimento della nostra filiazione divina che consiste non nella liberazione dal corpo, ma nella redenzione del corpo, nel riscatto definitivo dell’esistenza corporea, cioè nella risurrezione.
4. Cristo è la nostra pace (Ef 2,11-22)
La situazione in cui si trovano gli uomini, lasciati a se stessi, e l’opera di salvezza realizzata da Gesù Cristo sono descritte anche in Ef 2,12-22. Anzitutto l’autore dice che gli uomini lasciati a se stessi sono al di fuori di Cristo, vivono spiritualmente separati da lui. Subito dopo elenca le carenze che caratterizzano quella lontananza: sono «esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa»; sono «senza speranza e senza Dio»; poi alla fine la loro situazione è riassunta con le parole «nel mondo». La svolta è stata resa possibile solo mediante Cristo, anzi, «in Cristo Gesù», «grazie al sangue di Cristo»: «Ora invece, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete diventati vicini, grazie al sangue di Cristo» (Ef 2,13).
Gesù Cristo ha annullato la distanza abissale che ci separava da Dio. Egli ha creato in se stesso un solo uomo nuovo. Perciò in Cristo si realizza la pace, anzi, egli è la nostra pace, in quanto ci ha riconciliati tutti in un solo corpo. Questa riconciliazione avviene in un solo corpo. Alcuni ritengono che quel solo corpo nel quale avviene la nostra riconciliazione è il corpo del Cristo crocifisso. Secondo altri, l’espressione «in un solo corpo» indica la Chiesa. «Paolo ha capito che con Cristo il Dio di Israele, l’unico vero Dio, diventava il Dio di tutti i popoli. Il muro tra Israele e i pagani non è più necessario: è Cristo che ci protegge contro il politeismo e contro tutte le sue deviazioni; è Cristo che ci unisce con Dio e nell’unico Dio; è Cristo che garantisce la nostra vera identità nella diversità delle culture. Il muro non è più necessario, la nostra identità comune nella diversità delle culture è Cristo, è lui che ci fa giusti. E questo basta. Non sono necessarie altre osservanze» (Benedetto XVI).
Poi Paolo specifica che la pace consiste nella possibilità di accedere al Padre (Ef 2,18). L’accesso (prosagoge) è un termine tecnico e indica la dimensione cultuale, sacerdotale della vita, l’essere accolti nella vita trinitaria, il poter incamminarci verso il Padre assieme al Figlio con la forza dello Spirito. Nella parte finale del brano (Ef 2,19-22) viene descritta la nostra nuova situazione ricorrendo a due immagini: la prima è presa dall’ambito familiare e sociale (siamo concittadini dei santi e familiari di Dio), la seconda dalla sfera dell’architettura (siamo l’edificio, il tempio santo nel Signore, l’abitazione di Dio). Dio per mezzo del suo Spirito raccoglie attorno a sé la sua famiglia.
5. Sintesi: il lieto annuncio dell’amore di Dio in Gesù Cristo genera e purifica la Chiesa
Raccogliamo il messaggio di Paolo sull’amore di Dio ascoltando tre frasi contenute nella Lettera ai Romani. All’inizio, dopo essersi qualificato come servo e apostolo, specifica che si rivolge «a tutti quelli che sono a Roma, amati da Dio e santi per chiamata» (Rm 1,7): lui è totalmente posto al servizio di Gesù Cristo e del suo vangelo; loro insieme a lui appartengono a un originale vincolo di amore proveniente da Dio e per questo si trovano in una condizione di santità gratuitamente donata. Poi Paolo dice che «l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5): è Dio che per primo ci ama e mette nei nostri cuori la potenza di amore dello Spirito Santo. Così ci rende capaci di amarlo con un amore autentico che cambia la nostra esistenza. La terza parola che Paolo pronuncia sull’amore di Dio ci riporta all’aspetto più quotidiano e più realistico della nostra esistenza, costituito dalla sofferenza. L’apostolo elenca esemplificativamente sette difficoltà della vita (tribolazione, angoscia, persecuzione, fame, nudità, pericolo, spada) e afferma che «in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati. Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun’altra creatura potrà mai separarci dall’amore di Dio, in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,37-39).
Per questo, quando interviene a correggere i fedeli di Corinto per le divisioni sorte nella comunità, Paolo ricorda loro la centralità del mistero di Cristo, cioè la centralità della sua croce, del suo amore (1Cor 1,10-2,16). Paolo si rende conto che non basta rivolgere un’esortazione alla concordia, alla carità, ma occorre aiutarli a riflettere sul nucleo della fede: la salvezza viene non dai nostri sforzi o dal nostro sapere o dai ministri, ma da Dio che si è rivelato e donato a noi nella croce di Gesù Cristo. Anche quando esorta i fedeli di Filippi a una maggior carità fraterna, Paolo li invita a far proprio il cammino di Gesù (Fil 2,5-11). Non si superano le divisioni confrontandosi a vicenda, perché questo troppe volte esaspera i conflitti; si superano le divisioni guardando tutti a Gesù. Finché ci si misura l’un l’altro e si stilano elenchi di virtù e di carismi personali, le differenze si approfondiscono, mentre il riferimento comune a Gesù, in particolare al suo mistero pasquale, costituisce una reale alternativa al protagonismo ecclesiale.
6. Come presentare oggi il messaggio di Paolo?
Il vocabolario della redenzione usato da Paolo (giustizia, redenzione, espiazione, riconciliazione) cerca di esprimere l’amore di Dio per noi ed è il cemento che unifica tutte le tessere costituite dalle varie affermazioni della nostra fede: circa la Trinità, la cristologia, la Chiesa che è mistero di comunione, l’antropologia, i sacramenti, il tempo, l’al di là (compreso il purgatorio che non è un inferno ridotto, ma è piuttosto paragonabile a un corso di esercizi spirituali). Occorre tenere sempre presente la realtà dell’amore di Dio per noi: nell’annuncio e specialmente nel sacramento della riconciliazione.
Corso residenziale per il clero – Verona 2009