Lectio divina
Lectio sul Vangelo di Giovanni – Capitoli 18-19
Silvano Fausti

Testo doc Fausti – Giovanni Cap. 18-19
Testo pdf Fausti – Giovanni Cap. 18-19
IO-SONO
18,1-11
«Io-Sono», è la risposta a coloro che cercano «Gesù, il Nazoreo». Questa scena è un prologo narrativo al racconto della passione, dove si rivela la Gloria. Richiama il prologo iniziale, che preannunciava le resistenze dell’uomo contro la Parola, ma anche la vittoria pasquale. Infatti «la luce splende nella tenebra e la tenebra non la afferrò» (1,5): la Parola venne nella sua proprietà e i suoi non la ricevettero (cf. 1,11). Ma «a quanti la accolsero, a essi diede il potere di diventare figli di Dio» (1,12) e dalla sua pienezza noi tutti accogliemmo grazia su grazia (cf. 1,16). Per questo la comunità dei credenti, primizia della moltitudine di coloro che saranno attratti dal Figlio dell’uomo innalzato (12,32), esclama: «Contemplammo la sua gloria, gloria di Unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità» (v. 14).
Dopo aver parlato nei cc. 13-17 della Gloria, finalmente la vediamo all’opera.
Il salvatore del mondo (4,42; cf. 3,16s) si presenta al mondo: da una parte c’è lui con i suoi discepoli, dall’altra Giuda con i rappresentanti del potere romano e dei capi dei giudei. E il confronto ultimo tra luce e tenebre; fiaccole e lanterne illuminano la notte e fanno luccicare le armi.
Anche qui Giovanni si discosta dagli altri Vangeli. Racconta la stessa vicenda con ottica diversa, tralasciando o aggiungendo dettagli significativi. Innanzi tutto non racconta l’agonia nell’orto, anche se non la ignora (cf. 12,27). Come gli altri Vangeli accenna al «calice» (v. 11; cf. Mc 14,36p), ma non parla dell’angoscia e della paura di Gesù davanti ad esso. Al contrario dichiara la sua piena volontà di berlo, mentre Pietro vorrebbe impedirlo. La scena rappresenta la rivelazione del re, non l’arresto di Gesù. Questo segue immediatamente dopo, dove si dice che presero (= concepirono) Gesù (v. 12). Il testo è pervaso dalla maestà di «Gesù il Nazoreo», il re che sarà intronizzato sulla croce (cf. 19,14.19). Con questo titolo lo chiamano i suoi stessi nemici, mentre lui manifesta la sua gloria, dicendo: «Io-Sono». Invece dell’agonia e dell’arresto, Giovanni presenta il trionfo di Gesù: è il Figlio che, nel suo amore sovrano, si consegna ai fratelli. Gesù, in tutta la passione secondo Giovanni, non è «oggetto» della violenza del mondo: è «il soggetto», che conosce e dirige tutto, fino al compimento pieno dell’amore.
Il racconto si svolge in «un giardino». Richiama quello delle origini, dove Dio pose l’uomo (Gen 2,8) e avvenne il primo scontro tra verità e menzogna (Gen 3,1ss). Ciò che qui inizia si concluderà in un altro giardino, ai piedi dell’albero che ha ridato vita all’uomo (cf. 19,41). Lì vicino ci sarà anche l’incontro con Maria Maddalena, principio dell’umanità nuova (cf. 20,l1ss).
Gli altri Vangeli, con l’aiuto di testi biblici, cercano di decifrare l’enigma della croce del Figlio, riprovato dagli uomini che lo uccidono e approvato da Dio che lo risuscita da morte: è la passione del Giusto, del Servo sofferente, del Messia che porta la salvezza di Dio. In Giovanni invece il cammino di Gesù è visto, fin dall’inizio, come manifestazione della Gloria, che, rivelata da Cana a Betania attraverso segni, dal giardino degli Ulivi a quello del Calvario si fa vedere faccia a faccia. Il Gesù che affronta la passione è già glorioso. Questo non mette in ombra la sua umanità, ma la fa apparire come riverbero della luce di Dio. Infatti Gesù, Parola diventata carne, è insieme Figlio dell’uomo e Figlio di Dio. Nel NT non è mai messa in dubbio né l’umanità né la divinità di Gesù. Però, mentre gli altri Vangeli fanno vedere in lui l’umanità di Dio, Giovanni fa vedere in lui la divinità dell’uomo.
Gli altri Vangeli guardano dalla parte dello spettatore, che alla fine riconosce il Figlio di Dio. Il discepolo prediletto invece osserva come Gesù vede ogni vicenda con la sua coscienza di Figlio, che conosce l’amore del Padre. Infatti riporta la testimonianza di colui che, adagiato nel grembo e poggiato sul petto di Gesù, alla fine contemplerà il Trafitto (cf. 13,23.25; 19,34.35). Come al solito, mentre gli altri Vangeli sono un racconto che procede dall’inizio fino al termine, qui si parte dalla fine e si rilegge tutto alla luce di ciò che già si è capito. I primi seguono un ordine didattico, ottimo per giungere a capire; il quarto Vangelo è per chi sa le cose e le contempla ormai come sono, in profondità.
Non a caso Gesù, tranne che nella metafora del chicco di frumento (12,24), non dice mai che muore; dice invece: «vado» (poréuomai: 14,2.3.12.28; 16,7.28), «me ne vado» (hypago: 7,33; 8,14.21.22; 13,3.36; 14,4.28; 16,5.10.17), «sono innalzato» (hypsòomai: 3,14; 8,28; 12,32.34), «sono glorificato» (doxàzomai: 7,39; 11,4; 12,23; 13,31.32). L’ora della croce, prevista dall’inizio (2,4), è per lui il momento di trasferirsi da questo mondo al Padre (13,1), il ritorno a colui dal quale è uscito (13,3): è la «sua» ora (7,30; 8,20), quella della glorificazione (12,23), della nascita dell’uomo (16,21). Se per l’osservatore la morte di Gesù è l’ora della sua glorificazione, per Gesù la glorificazione è l’ora della sua morte, quando manifesta al mondo, in modo compiuto, l’amore eterno di Dio.
In breve: per tutti i Vangeli la carne crocifissa di Gesù è gloria di Dio e salvezza dell’uomo. Mentre però gli altri guardano con gli occhi dello spettatore, il discepolo prediletto vede con l’occhio stesso del Maestro. Per questo la passione è sotto il segno della Gloria. In essa il Figlio realizza “la passione di Dio” per questo mondo perduto ed esprime, insieme, la sua essenza di amore estremo. La sua gloria, manifestata dal primo all’ultimo segno (2,11; 11,4.40), rivelata simbolicamente nel lavare i piedi e nel dare il boccone a Giuda (13,1-30), comunicata ai fratelli nella preghiera al Padre (17 ,1ss), ora, mentre si consegna ai nemici, raggiunge tutti.
L’autodonazione di Dio, già totale ma implicita nella creazione, si esplicita nel dono della legge e attende di essere riconosciuta da un cuore nuovo, capace di amare come è amato (cf. Ger 31,31-34; Ez 36,24-27). Questo cuore nuovo è opera del Figlio dell’uomo innalzato, che ci dà vita eterna (3,16), perché ci fa conoscere 10Sono (8,28) e ci attira tutti a sé (12,32), dopo aver gettato fuori il capo di questo mondo (12,31). Finalmente, dall’alto della croce, il Signore regna su tutti, rivestendo della sua bellezza ogni creatura.
Il testo inizia presentando da una parte Gesù con i suoi discepoli, dall’altra i suoi avversari riuniti insieme (vv. 1-3). Al centro c’è la domanda di Gesù, la sua rivelazione e la reazione dei nemici (vv. 4-7). Segue la sua preoccupazione per i discepoli (vv.8-9) e il gesto di Pietro, che vuole impedirgli di bere il calice che il Padre gli ha dato (vv. 10-11).
Gesù, più che essere catturato, cattura tutti. Come già detto, ciò che segue sarà la sua consegna volontaria ai fratelli. È il dono d’amore, che le tenebre prendono. Così lo concepiscono (cf. v. 12) e diventano gravide di luce.
La scena del giardino raffigura la lotta tra luce e tenebre. L’esito è scontato, come per la notte che affronta il sole. L’iniziativa è tutta di Gesù, luce del mondo. Lui interroga e i nemici confessano di cercare «il Nazoreo», titolo del re dei giudei (19,19). In quanto re, non subisce, ma conduce il processo e, alla fine, compie il suo giudizio.
Gesù, il Nazoreo, è il re promesso. Consegnandosi agli uomini, rivela la gloria e la potenza del Dio amore.
La Chiesa è fatta da quanti hanno capito di essere tra coloro ai quali Gesù si consegna.
PERCHÉ INTERROGHI ME?
18,12-27
«Perché interroghi me?», chiede Gesù ad Anna. L’interrogato non è lui, ma chi lo interroga: giudicato è chi lo giudica, condannato chi lo condanna. Non perché lui giudichi o condanni (cf. 5,22.27.30): è venuto per salvare tutti (cf. 3,17). Ma chi giudica e condanna lui, vita e luce di tutto ciò che esiste, si separa dalla luce della propria vita. Il rifiuto del Figlio è il peccato del mondo, che ignora il Padre. L’agnello di Dio è venuto a toglierlo (1,29), portando su di sé il giudizio e la condanna di chi, giudicandolo e condannandolo, giudica e condanna se stesso. La croce dell’uno solo, che muore per il popolo (v. 14), sarà il giudizio di Dio: il Figlio, che dà la vita per i fratelli, rivelerà la gloria del suo amore assoluto.
Il testo mette in risalto l’unicità di colui che non è mai solo, perché è sempre con il Padre (cf. 16,31s). Lui, che è per tutti, ha tutti contro di sé, dai capi ai servi, dai giudei ai pagani, da Giuda a Pietro, rappresentante di ogni discepolo.
La Parola diventata carne dà a chi l’accoglie il potere di diventare figlio di Dio (1,12). Chi non l’accoglie rimane nelle tenebre di morte, nel «non sono» come Pietro, nella violenza come il servo del sommo sacerdote. Ma colui che si dona a noi, non si ritrae. Il rifiuto fa brillare la luce del dono, che si rivela incondizionato. Tutto avviene nella notte. La tenebra, riscaldata da un braciere, è in attesa del sole.
Questo racconto, come del resto tutto il Vangelo di Giovanni, non narra il processo a Gesù, ma il suo processo al mondo: la Parola si rivela e gli uomini la rifiutano, tutti insieme, a eccezione di «un altro discepolo». Ma questi non è solo: è «entrato con» Gesù (v. 15) e rappresenta quanti poi si uniranno alla sua testimonianza.
Gli altri Vangeli ignorano questa comparsa di Gesù davanti ad Anna. Riferiscono invece ampiamente l’interrogatorio davanti a Caifa, dove Gesù sarà condannato dai capi, dileggiato dai servi e rinnegato da Pietro. Il processo davanti a Caifa è per i sin ottici il culmine della rivelazione di Gesù come Cristo e Figlio di Dio, causa della sua croce. Giovanni lo accenna solo (v. 24). Non ha bisogno di raccontarlo. Infatti il suo Vangelo è un unico processo. Gesù, fin dal suo primo apparire al Battista e ai discepoli (1,29-34.35-51), e poi nelle nozze di Cana e nel tempio (2,1-12.13-25), ha rivelato la sua gloria, in un crescendo continuo. Ma ha incontrato resistenza crescente da parte dei capi, con vari tentativi di arrestarlo, catturarlo e lapidarIo (5,18; 7,25.32.44; 8,59; 10,39; 11,8.16). Però senza esito, perché le tenebre non possono vincere la luce (1,5). Qui è lui stesso che si concede, perché è giunta la sua ora. Infatti, dopo la risurrezione di Lazzaro, dove la stessa morte è per la gloria di Dio, Caifa aveva decretato la sua condanna a morte (11,50-53).
Giovanni ha anticipato altrove ciò che i sin ottici raccontano nel processo davanti a Caifa: Gesù già ha predetto la distruzione del tempio (2,19-21; cf. Mc 14,58p), si è proclamato Messia (10,24s; cf. Lc 22,67-69), è stato accusato di bestemmia (5,18; 10,33; cf. Mc 14,64p), si è rivelato come Io-Sono numerose volte, le ultime due nel giardino (vv. 5.8; cf. Mc 14,62p). Per questo Giovanni tralascia il processo davanti alle autorità religiose e dà più spazio al processo politico, davanti a Pilato (18,28-19,16a). In questo modo la regalità universale del Nazoreo diventa il tema centrale della passione.
Questo brano è da leggere in continuità con il precedente: lo scontro tra Gesù e il capo di questo mondo si sposta dal giardino al recinto del capo dei sacerdoti. Particolare rilievo è dato a Pietro: il suo estrarre la spada per impedire a Gesù di bere il calice (vv. l0-11) sfocerà inevitabilmente nel suo rinnegamento. Anche lui, come tutti, non accetta la gloria del Figlio dell’uomo innalzato.
Se si considerano le scene del giardino e del palazzo come un tutt’uno, al centro sta la profezia di Caifa sulla morte di Gesù come salvezza del popolo (v. 14). Se invece si tengono distinte, si possono unire i vv. 12-14 a ciò che precede, evidenziando la libera consegna di Gesù ai nemici; oppure si possono unire i vv. 10-11 a ciò che segue, evidenziando maggiormente l’intreccio tra Gesù e Pietro. Le due figure infatti si alternano di continuo (cf. vv. 9s.11,12.15.19.25). Ogni testo è sempre un insieme, organico e vivo. A seconda di come lo si considera, si mettono in risalto aspetti diversi. Se nessun testo esaurisce le possibili letture della realtà (cf. 21,25), nessuna lettura esaurisce i possibili significati di un testo.
Proponiamo, con molti autori, di distinguere i vv. 1-11 dai vv. 12-27. All’interno di questi, i vv.12-16 presentano tutti i personaggi riuniti attorno a Gesù, nel recinto di Anna. Egli si è consegnato, è stato preso, legato e condotto fuori dal giardino da quelli che vi erano entrati con armi. Anche Pietro lo segue ed entra dalla porta grazie all’altro discepolo. Il seguito del testo (vv. 17-27) è una rapida sequenza di scene a struttura concentrica, a più strati, come una cipolla, dove Gesù rimane sempre al centro, oggetto o soggetto delle varie azioni.
Si può osservare la seguente struttura (proposta da I. de la Potterie):
a. Pietro rinnega Gesù (vv.17-18)
b. Anna interroga Gesù sui suoi discepoli e la sua dottrina (v. 19)
c. Gesù parla della sua rivelazione e interroga Anna (vv. 20-21)
d. un servo dà uno schiaffo a Gesù (vv. 22)
c.’ Gesù interroga il servo (v. 23)
b.’ Anna manda da Caifa Gesù (v. 24)
a.’ Pietro rinnega altre due volte Gesù (vv.25-27).
All’inizio e alla fine Pietro rinnega Gesù (vv.17-18.25-27): il suo «non-sono», che misconosce la luce di «Io-Sono», è l’involucro che racchiude la sequenza. Nel secondo cerchio Anna interroga Gesù che a sua volta lo interroga; poi, invece di rispondere alla sua domanda, lo manda da Caifa (vv. 19.24). Nel terzo cerchio, delimitato dal rifiuto dei capi dei sacerdoti, iscritto a sua volta nel rifiuto di Pietro, Gesù parla della sua rivelazione compiuta e interroga sia il capo dei sacerdoti che il suo servo (vv. 20-21.23). Al centro c’è lo schiaffo (v. 22), visibilizzazione della violenza che Gesù subisce da parte di quanti lo circondano. Dopo il rifiuto dei capi del popolo con i loro servi e il triplice rinnegamento di Pietro, entreranno in scena anche i pagani, impersonati da Pilato: sono i vari capi, agli ordini del capo di questo mondo, del quale siamo tutti schiavi.
In questa sequenza Pietro è la persona di spicco, in contrappunto con Gesù.
Egli, come tutti, non capisce la Gloria: la capirà solo dopo aver capito di non capirla (cf. 13,7). L’interrogatorio di Anna a Gesù riguarda i suoi discepoli e il suo insegnamento (v. 19). Anche Pietro sarà interrogato se è suo discepolo (vv.17.25.26).
Gesù risponde che ha sempre «parlato» (= rivelato), «apertamente», «al mondo» e ha «insegnato» in «sinagoga» e nel «tempio», dove convengono «tutti i giudei», senza alcun «segreto»: è il rivelatore di Dio, la Parola rivolta al mondo, il Figlio che fa conoscere ai fratelli l’amore del Padre. Tutti ormai l’hanno ascoltato e sono chiamati a rispondere.
Pietro nega di essere suo discepolo, il capo dei sacerdoti lo manda da chi lo può uccidere e il servo lo schiaffeggia: tutti, amici e nemici, padroni e servi, sono contro di lui. La ridda dei personaggi ostili che si muovono attorno a lui mostra quanto vasta sia l’opposizione delle tenebre (1,10.11). Solo un misterioso «altro discepolo» prelude la sorte di quanti l’accoglieranno e diventeranno figli della luce.
Gesù, Parola eterna diventata carne, Figlio unigenito di Dio e Figlio dell’uomo, è il rivelatore del Padre. Schiaffeggiato e ucciso dai nemici, è consegnato e rinnegato dagli amici. La gloria di «Io-Sono» si è rivelata nella sua carne fin dall’inizio. Velo alla divinità non è la sua umanità, che anzi ne è il disvelamento. Unico velo è la nostra cecità: abbiamo occhi oscurati dalla menzogna (12,40). Ma il Signore ci è fedele oltre ogni nostra infedeltà, perché non può rinnegare se stesso (cf. 2Tm 2,11-13).
La Chiesa è rappresentata da Pietro, protagonista in quanto antagonista di Gesù. Il racconto presenta il cammino battesimale che porta il discepolo a scoprirsi tra i nemici del Maestro, tra coloro per i quali egli dà la vita. Così può vedere la Gloria e riconoscere il Signore: è colui che perdona (Ger 31,34). Dopo aver sperimentato il suo amore gratuito, diventerà come «l’altro discepolo», che segue Gesù. Per essere illuminati, bisogna prima vedere la propria cecità: per essere discepoli, bisogna capire di essere come gli altri, per i quali il Signore sarà innalzato.
GIOISCI, RE DEI GIUDEI
18,28-19,16a
1. Messaggio del testo
«Gioisci, re dei giudei», dicono i soldati romani a Gesù. Il re promesso è crocifisso da tutti, lontani e vicini. Crocifisso in quanto re, è re in quanto crocifisso: è il re della verità che fa liberi (cf. 8,32).
Dopo che il potere religioso ne ha predisposto l’intronizzazione sulla croce, quello politico ne proclama la regalità con la condanna a morte. Il testo è un gioco di ironie. Ciò che è detto per burla, è vero; ciò che si ritiene vero, è una burla. Stupida e tragica. La menzogna stessa, senza volerlo né saperlo, afferma la verità: il re crocifisso crocifigge alla sua vacuità ogni potere di morte.
Siamo allo scontro definitivo. Le tenebre sono uscite allo scoperto, riunite insieme per giudicare e condannare il Nazoreo. Ma la luce del mondo dissolve la tenebra che l’ha presa. Gesù infatti esegue sovranamente il giudizio di Dio: invece di condannare qualcuno, dà la vita per tutti. Contro il Figlio, inviato dal Padre, si sono riuniti tutti i potenti, per compiere ciò che la mano e la volontà del Signore aveva preordinato che avvenisse (At 4,27s): manifestare a tutti il suo amore, gloria sua e salvezza nostra.
Il tema del testo è la regalità universale di Gesù, proclamata davanti al luogotenente di Cesare, suprema autorità mondiale, primo rappresentante del capo di questo mondo (cf. 12,31).
Il re è l’uomo ideale, ideale di ogni uomo. Libero e potente, vuole ciò che gli piace e fa (fare) ciò che vuole: rappresenta Dio in terra. La concezione che abbiamo di re corrisponde a quella che abbiamo di Dio: è l’uomo realizzato, sua immagine e somiglianza.
Il confronto con Pilato occupa circa un terzo del racconto della passione: oltre il processo, continua fin sulla croce (19,19-22) e nella deposizione (cf. 19,31.38). Il suo potere si esercita dalla condanna all’esecuzione, dall’uccisione alla sepoltura del Giusto. Svela così la sua essenza ingiusta e mortifera.
Un giardino vide la creazione dell’uomo e la sua caduta, la nascita e la morte di Adamo, re del creato. Lo scontro della regalità dell’uomo con la regalità di Dio avviene tra la cattura in un giardino (cf. 18,llss) e la crocifissione in un altro giardino (19,41). In questo vedremo la creazione del nuovo Adamo, il «giardiniere» che ha trionfato sulla morte (cf. 20,15). Tra il giardino della cattura e quello della croce c’è la città, dove il re della gloria passa, vittorioso sui capi di questo mondo.
Dopo l’interrogatorio in casa di Anna e la sosta in quella di Caifa, segue il processo nel pretorio. Accusatori sono i capi religiosi; giudice è il rappresentante dell’imperialismo, allora romano. Il processo è «politico». La regalità di Dio, anche se non è da questo mondo, è in questo mondo.
L’uomo è un «animale politico»: dal modo in cui organizza la sua vita con gli altri, dipende la sua realizzazione o il suo fallimento. La politica infatti è l’arte di dar corpo a quei valori che l’uomo si pone come fine del suo esistere. Questi, giusti o sbagliati che siano, sono sempre «religiosi», appunto perché si pongono come fini, quindi assoluti. Quando poi la politica arriva a porre se stessa come valore supremo, allora raggiunge l’apice della funzionalità e della cecità: è puro esercizio di dominio. L’idolo prende il posto di Dio: il potere diventa unica religione, totalitarismo che ha mano libera per distruggere tutto e tutti.
La regalità di Gesù, come vedremo nel processo, smantella la nostra immagine pervertita di uomo e di Dio. Non bisogna farsi immagini di Dio, né dell’uomo, perché l’unica sua immagine è l’uomo, vero e libero. Nella sua semplice solennità, il processo davanti a Pilato è un compendio, sublime e disincantato, di «teologia politica», una miniera inesauribile sulla verità dell’uomo e di Dio.
I «giudei», nominati 22 volte, non sono il popolo, ma i suoi capi. Rappresentano l’opposizione alla luce, tipicamente «religiosa», che è in ciascuno di noi. L’origine del male infatti è sempre un’immagine negativa di Dio, di ciò che comunque ci proponiamo come modello da imitare. Per questo, nel racconto della passione, il rappresentante del mondo politico non fa che eseguire, in un gioco di ipocrisia e ricatti reciproci, la stessa volontà perversa della quale è succube il mondo religioso.
Quando Giovanni parla di «giudei», giova ripeterlo, non intende il popolo giudaico, come funestamente molti hanno voluto intendere. Anche Gesù, gli apostoli e la prima comunità, come pure gli evangelisti, sono giudei. Il termine «giudei», usato in senso negativo, indica quei capi il cui unico interesse è tenere il popolo sotto il proprio dominio (cf. 9,1ss): secondo la critica profetica (cf. Ez 34), non sono pastori, ma ladri e briganti (cf. l0,1ss). Sono chiamati polemicamente «giudei», perché considerano tali solo se stessi, escludendo gli altri, che pure lo sono. Comunque anche tra i capi non tutti sono così (cf. 10,19-21; 12,42s). Basta ricordare Nicodemo (3,1ss; 7,50-52; 19,39), Giuseppe d’Arimatea (cf. 19,38; Mc 15,43p) e Gamaliele (cf. At 5,34ss).
Il testo inizia con Gesù condotto dentro il palazzo e termina con Gesù condotto fuori da esso. Dentro/fuori diventa una distinzione teologica: dentro sta la Parola di verità e vita, fuori l’urlo di menzogna e morte, orchestrato dai capi religiosi. Pilato, come il lettore che segue la sua vicenda, fa la spola tra dentro e fuori: chiamato a rispondere alla rivelazione che sente dentro, cede inevitabilmente alla violenza che avverte fuori. È l’unico modo per mantenere il potere. Quel tipo di potere che non è a servizio della verità e della vita.
Il processo è una sequenza di sette scene, scandite dall’uscire e dall’entrare di Pilato. Il dentro e fuori dal palazzo dà al racconto un ritmo a struttura concentrica, con la coronazione di spine nel mezzo. Il succedersi delle scene si può visualizzare così (I. de la Potterie):
a. (fuori): dialogo tra Pilato e i capi su Gesù, consegnato per essere crocifisso (18,28-32)
b. (dentro): dialogo tra Pilato e Gesù sulla vera regalità (18,33-38a)
c. (fuori): dialogo tra Pilato e i capi, che preferiscono il brigante al vero re (18,38b-40)
d. (?): incoronazione del «re dei giudei» (19,1-3)
c.’ (fuori): Pilato dice: «Ecco l’uomo»; i capi rispondono: «Crocifiggi» (19,4-8)
b’. (dentro): dialogo tra Pilato e Gesù sul potere: chi lo detiene e quale (19,9-12)
a’. (fuori): Pilato dice: «Ecco il vostro re!», i capi rispondono: «Crocifiggilo!» (19,13-16a).
La scena centrale (19,1-3) sembra che si svolga fuori dal palazzo, come la precedente. Però, nella successiva, sia Pilato che Gesù escono (19,4s). Quindi l’incoronazione accade dentro, anche se al lettore, mentre si svolge, sembra che accada fuori. Non si tratta di una distrazione, ma di una finezza dell’autore: suggerisce che quanto avviene nel palazzo riguarda tutti. L’incoronazione, anche se «fatta in casa» dai servi del potere, è sempre un fatto eminentemente pubblico: è il riconoscimento del re, il capo con il quale tutti idealmente si identificano.
L’evangelista evidenzia così che Gesù è re universale, incoronato davanti al mondo proprio dai suoi nemici. Per questo motivo anche il titolo sulla croce sarà scritto da Pilato in ebraico, latino e greco, proclamato in ogni lingua, leggibile ai detentori di ogni potere, religioso, politico e culturale (19,19-22).
Commenteremo nella lettura del testo il significato delle singole scene, centrate sulla regalità di Gesù che, proclamata nel processo, si eserciterà dall’alto della croce.
A proposito di Pilato e di quanti hanno ucciso Gesù, è utile osservare che essi provocano in noi repulsione: non riusciamo a «digerirli». È infatti difficile digerire se stessi! Il problema non è mangiarli, ma riconoscerci in loro – ci fanno da specchio – e accettare il dono che il re fa a noi, come a loro.
All’inizio Gesù è presentato dai capi religiosi al capo politico, perché sia innalzato su quel trono da dove, vittorioso, attirerà tutti a sé (18,28-32). Segue il dialogo sulla regalità di Gesù, che è a servizio della verità e che nessun potente conosce (18,33-38a). Per questo Pilato lo ritiene innocuo e vuole liberarlo; ma i capi religiosi – avviene per lo più così – preferiscono il brigante al vero re (18,38b-40). Al centro i soldati, incoronando per scherno Gesù di spine, mostrano che brutto scherzo sia la regalità mondana. Questa, messa in crisi nel suo mettersi in scena, è violenza gratuita sul vero re, sull’uomo libero (19,1-3). Poi Pilato di nuovo esce, e anche Gesù, con la corona e la porpora: «Ecco l’uomo» (19,4-8). Il potere politico vorrebbe salvarlo, ma non può. Schiavo della cecità religiosa, è solo in grado di uccidere, non di liberare l’uomo (19,9-12). Alla fine Pilato conduce di nuovo fuori e presenta il re, il Figlio di Dio, che il potere religioso rifiuta. In obbedienza a questo, anche se contro voglia, il potere politico esegue la condanna (19,13-16a).
Gesù è il re universale, l’uomo libero che libera tutti, proprio in quanto crocifisso dal potere religioso e politico.
La Chiesa è chiamata a riconoscere in Gesù la verità dell’uomo e la verità di Dio, per testimoniare al mondo la libertà da ogni dominio dell’uomo sull’uomo.
(NB: Per comprenderla meglio, leggeremo la sequenza del processo tutta di seguito, evidenziando con titolo e breve introduzione le singole scene).
2. Lettura del testo
a. (fuori dal pretorio: 18,28-32): dialogo tra Pilato e i capi su Gesù, consegnato per essere crocifisso
Conclusa la rivelazione davanti ai capi religiosi, Gesù è consegnato al rappresentante del potere romano, perché ne esegua la condanna a morte, da loro già decisa. Si compie così «la parola di Gesù, che disse indicando di quale morte stava per morire» (v. 32). Se infatti l’avessero ucciso i giudei, l’avrebbero lapidato; i romani invece lo crocifiggeranno.
Nella vigilia di Pasqua i potenti si uniscono insieme per immolare l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (1,29). Le forze delle tenebre si alleano per innalzare sulla croce il Figlio dell’uomo, colui che dà vita eterna (3,14s), rivela Io-Sono (8,28), espelle il capo di questo mondo e attira tutti a sé (12,31s).
b. (dentro il pretorio: 18,33-38a): dialogo tra Pilato e Gesù sulla vera regalità
In questa scena Gesù rivela la regalità di Dio davanti a chi rappresenta l’imperatore romano. Pilato è chiamato ad ascoltare la sua voce, per conoscere la verità che fa liberi (cf. 8,32). Altrimenti resta schiavo della menzogna. La regalità di Dio non si fonda sulla violenza e sull’oppressione, ma sull’amore e sul servizio. Non viene da questo mondo, ma da Dio stesso. Gesù è venuto a portarla in questo mondo, per restituire all’uomo la sua umanità.
Il modo di concepire la regalità determina i rapporti degli uomini tra di loro e con la natura; e varia secondo l’idea che si ha di Dio e dell’uomo, sua immagine. Se Dio è colui che tiene in mano tutti, allora l’uomo realizzato è colui che riesce a mettere le mani su tutti; se Dio è l’Emmanuele, il Dio-con-noi, che si mette nelle mani di tutti, allora l’uomo realizzato è colui che si fa solidale con tutti. È stata lenta, anche nella Bibbia, l’evoluzione dalla prima concezione, dura a sparire, alla seconda.
Per lo più parliamo di potere in senso negativo, perché logora innanzi tutto chi ce l’ha.
Per sé il potere è un valore: indica possibilità, capacità. Può essere usato bene o male. La storia però insegna che i capi, e quanti con essi si identificano, lo esercitano non proprio per servire, ma piuttosto per asservire gli altri (cf. Mc 1O,42-45p). Questo però non vuoi dire che il potere politico sia un male, più o meno necessario. Infatti, quando è volto al bene comune, è la forma più alta di servizio all’uomo. Il cristiano si impegna nella politica: pienamente responsabile di questo mondo, testimonia in esso la verità dell’amore. Così, insieme a tutti gli uomini di buona volontà, gli impedisce di chiudersi nell’autodistruzione e lo apre al suo futuro. Non si illude però sul risultato immediato, né vuole realizzare un regime di cristianità. Vuole semplicemente essere testimone di Gesù e del suo regno, a proprie spese, come lui affidandosi al Padre e ai fratelli.
c. (fuori dal pretorio: 18,38b-40): dialogo tra Pilato e i capi, che preferiscono il brigante al vero re
Gesù, presentato dai religiosi come un malfattore (vv. 28-32), si è rivelato a Pilato come un re che ha il solo potere di testimoniare la verità (vv. 33-38a). Non è perciò un concorrente del suo potere: è innocuo. Pilato propone quindi, come «grazia pasquale», la sua liberazione. Ma «la grazia pasquale», offerta a tutti, sarà proprio l’uccisione dell’innocente, l’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (1,29).
La proposta di Pilato è «politica»: è una via di mezzo tra verità e opportunismo. Ma rivelerà presto la sua debolezza intrinseca. Non prendendo posizione secondo la propria coscienza, il potente si piegherà inevitabilmente all’ingiustizia. Emerge in questa scena lo scandalo fondamentale della storia: perché l’innocente soffre, perché gli ingiusti sono liberi e i giusti oppressi, perché ci sono i cirenei, che portano la croce del Messia? Che mistero è nascosto nella passione del Giusto, che porta su di sé l’iniquità degli altri? Come mai al vero re tocca in sorte la pena del malfattore? Che fare davanti a questa situazione?
Il Giusto sofferente è la presenza stessa di Dio nel mondo, suo giudizio su tutti e salvezza per tutti. Il confronto tra il vero re e un brigante, con la preferenza data a questo, evidenzia il peccato dell’uomo: all’amore e alla verità preferisce la violenza e la menzogna. E la verità dell’amore prende su di sé la violenza della menzogna, senza cadere nella trappola di usare gli stessi mezzi.
d. (dentro/fuori: 19,1-3): incoronazione del «re dei giudei»
L’incoronazione di Gesù sta al centro del processo. La scena sembra svolgersi «fuori», davanti ai capi, come la precedente. Non si dice infatti che Pilato sia rientrato nel palazzo. Solo dopo sappiamo che è avvenuta dentro, perché al v. 4 si dice che esce. L’autore vuole suggerire che «fuori» accade sempre ciò che prima avviene «dentro».
Gesù, presentato dai capi come malfattore (18,28-32), si è rivelato come il testimone della verità (18,33-38a), il Servo innocente la cui morte libera chi è prigioniero della violenza (18,38b-40). Proprio così è il vero re, vittorioso su tutti i nemici perché sa dare la vita per loro.
Gesù ora è incoronato re dai soldati. Ciò che secondo loro è una burla, è la nuda verità, che smaschera la regalità di questo mondo. Questo breve racconto «temprando lo scettro ai regnatori / gli allor ne sfronda, ed alle genti svela / di che lagrime grondi e di che sangue». Ci troviamo davanti alla pagina più eloquente di filosofia della storia, scritta non con inchiostro sulla carta, ma con sangue sulla carne del Giusto. Chi non ascolta la voce del Pastore bello, si comporta da brigante: flagella l’uomo e lo corona di spine, riducendo il saluto a insulto e l’onore a schiaffo. Gesù è giustamente rivestito delle insegne regali: è tanto libero e potente nell’amore da portare su di sé il male del mondo. È incoronato subito dopo la grazia pasquale, quando è condannato al posto di Barabba, che rappresenta tutti noi, suoi simili: è re perché espone, dispone e depone la sua vita a favore degli altri, per riceverla di nuovo, pienamente realizzata. Questo è il comando che il Figlio ha ricevuto dal Padre (cf. 10,1-18).
Quando comprenderemo che l’uomo flagellato, coronato di spine, deriso e percosso, è il nostro re, allora sarà il regno di Dio sulla terra: liberi dagli idoli, vedremo la Gloria e la nostra umanità sarà salvata. La vera lotta, che dura tutta la vita, è contro i nostri idoli: sono «l’asse del male» che sta dentro di noi. I sette vizi capitali sono i sette nemici, antichi e sempre presenti, che popolano la terra che il Signore ci ha dato: non vanno sposati o venerati, ma sterminati, per non perdere la libertà di figli di Dio (cf. Dt 7,1ss).
c.’ (fuori dal pretorio: 19,4-8): «Ecco l’uomo!», «Crocifiggi!»
Gesù, denunciato dai capi come un «malfattore» (18,28-32), ha mostrato a Pilato la sua regalità: non è «da questo mondo», perché testimonia la verità (18,33-38a). Egli è re perché sa dare la vita per i fratelli perduti, rappresentati da Barabba (18,38b-40). Incoronato nel palazzo dai servi del potere (19,1-3), è ora presentato con le insegne regali a tutti, perché lo acclamino. La scena è un nuovo dialogo tra Pilato e i capi, che richiama e sviluppa 18,38b-40, con il quale fa da inclusione immediata all’incoronazione. Gesù, in quanto innocente che muore al posto del malfattore, è il re: rappresenta Dio in terra. È il Figlio, che ama i fratelli con lo stesso amore del Padre: è il Volto, verità di Dio e dell’uomo.
L’ostensione di un uomo flagellato e coronato di spine, nell’intenzione di Pilato che vuole liberarlo, intende mostrare l’inconsistenza delle accuse contro di lui: è un Messia ridicolo e impotente. In realtà è un’epifania regale; manifesta a tutti il vero re: «Ecco l’uomo!», immagine di Dio.
Essere uomo così significa essere Figlio di Dio: in lui brilla la Gloria, la cui libertà è servire, il cui potere è amare, con un amore più forte della morte. Quest’uomo innocente, preso e legato, condotto come malfattore e colpito da flagelli, coronato di spine e vestito di violenza, quest’uomo è Dio e Signore, Verbo fatto carne e Figlio uguale al Padre. Alla sua apparizione noi gridiamo: «Crocifiggi!». Abbiamo infatti nel brigante il nostro modello di uomo.
Questa scena, che segue l’incoronazione, prepara l’intronizzazione sulla croce, decisa dai potenti e approvata dai presenti: Gesù diventa il re universale, posto da tutti su quel trono da dove compirà il suo giudizio.
b.’ (dentro nel pretorio: 19,9-12): dialogo tra Pilato e Gesù sul potere: chi lo detiene e quale
Questo nuovo dialogo tra Pilato e Gesù corrisponde al primo (18,33-38a), con il quale fa da seconda inclusione all’incoronazione di spine. Avendo sentito che Gesù si è proclamato Figlio di Dio, il governatore romano, preso da timore, lo interroga sulla sua origine. Non riceve risposta, perché non ascolta la voce della verità. Alla sua affermazione di aver potere di vita e di morte, il Signore, esercitando la propria regalità, si erge a giudice. Innanzi tutto dichiara che il potere di Pilato è limitato: gli viene «dall’alto» e deve rispondere a un altro, anzi all’Altro. Inoltre il suo modo di esercitarlo è fallimentare: lo rende colpevole di peccato, pari al grado di responsabilità che ha nell’uccisione dell’innocente.
Pilato, luogotenente dell’imperatore, crede di essere libero di fare ciò che vuole. In realtà non può liberare l’innocente, anche se vuole, ed è costretto ad ucciderlo, anche se non vuole. È vittima e autore di violenza: uno schiavo incapace di fare ciò che ritiene giusto e costretto a fare ciò che ritiene ingiusto. AI suo potere, impotente nel fare il bene, si contrappone quello del Giusto, onnipotente nel farsi carico di ogni male.
L’ecce homo è il Volto, Dio che «viene a giudicare la terra» (Sal 96,13). La Gloria compie «dall’alto» o, meglio, dall’ultimo degli uomini, la sua opera: convince il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio (cf. 16,5-15). Questo volto noi lo vediamo ancora oggi nei «più piccoli» dei fratelli, nei poveri cristi, nei «dannati della terra», nei «popoli crocifissi» che pagano il benessere del primo mondo – cristiano! -, nei cirenei che portano con Gesù la croce dell’ingiustizia altrui. Essi sono il Signore della storia, che ci giudica e salva. Se apriamo gli occhi, la nostra è più che mai un’ epoca di martiri, testimoni della verità. Oggi per noi ci sono miliardi di persone che incarnano il Messia.
a.’ (fuori dal pretorio: 19,13-16a): Pilato dice: «Ecco il vostro re!», i capi rispondono: «Crocifiggilo!»
Quest’ultima scena, come la prima (18,28-32), è un dialogo tra Pilato e i capi, che raggiungono il loro scopo: uccidere Gesù. Le due scene fanno da cornice generale al processo, al cui centro c’è l’incoronazione. Gesù, presentato come malfattore (18,28-32), è innocente: è il re che testimonia la verità (18,33-38a), perché dà la vita per i fratelli perduti (18,38b-40); incoronato di spine (19,1-3), è «l’uomo», il Figlio di Dio (19,4-8) che giudica e salva il mondo (19,9-12).
Dopo i soldati, adesso anche Pilato lo proclama re: «Ecco il vostro re!». I capi religiosi lo acclamano: la loro acclamazione è il grido che lo intronizza sulla croce. Da lì regnerà su tutti e per sempre. È il culmine della rivelazione. Davanti a lui non si può non prendere posizione: a tutti si dona e tutti lo prendono, per accoglierlo o per ucciderlo. I potenti, religiosi e civili, non lo accolgono. Il giudizio che ognuno fa su di lui, lo fa su di sé. Ma proprio in quanto rifiutato e crocifisso, il Cristo regna sovrano nell’amore e compie il giudizio di Dio, che salva tutti.
La scena è premessa e anticipo della crocifissione. Voluta dal potere religioso, per il quale dio è dominio, è eseguita dal potere politico, per il quale il dominio è dio. Per questo i potenti sono contro il Figlio dell’uomo e contro ogni figlio d’uomo.
Anche il lettore, di oggi e di sempre, è coinvolto in questo processo di Gesù. È infatti il giudizio di Dio sul mondo, che continua nella storia sino alla fine dei tempi: davanti all’ecce homo siamo chiamati a scegliere quale re, quale uomo e quale Dio vogliamo. Qualunque sia la nostra risposta, il Crocifisso, testimone della verità, ci rioffre di continuo la vita: la croce ci tiene eternamente aperto il bivio del bene, perché liberamente lo seguiamo (cf. Dt 30,15-20).
GESÙ IL NAZOREO, IL RE DEI GIUDEI
19,16b-22
Gesù il Nazoreo, il re dei giudei. La scritta di Pilato, titolo della condanna posto in cima alla croce, ha grande rilievo in Giovanni: è la proclamazione del re, intronizzato insieme con due compagni.
Ciò che per Pilato è irrisione e vendetta ultima contro coloro al cui volere si è piegato, per il lettore è la Parola, pienamente realizzata: il Figlio dell’uomo innalzato è il re della Gloria, il Verbo diventato carne a salvezza di ogni carne.
Siamo al punto di arrivo del Vangelo. In due versetti, brevi e densi, protocollo dove nulla è superfluo e può essere tralasciato, Giovanni riferisce la via crucis e la crocifissione: è il corteo regale e l’intronizzazione del re con la sua corte.
La scena precedente nel pretorio (vv.13-16a) è anticipo e prefigurazione di ciò che avviene ora sul Golgota. Le somiglianze sono visualizzate bene in questo schema di I. de la Potterie:
Pilato fece uscire Gesù verso il luogo detto Lithòstrotos,
in ebraico Gabbata. Egli (lo) fece sedere nel tribunale.
Pilato disse:
«Ecco il vostro re». Essi gridarono: «Leva, leva!».
Gesù uscì dalla città verso il luogo detto Calvario,
in ebraico Golgota. Essi lo crocifissero nel mezzo.
Pilato scrisse:
«Il re dei giudei». Essi dissero:
«Non scrivere … ».
Giovanni narra la crocifissione in modo essenziale e solenne. La spiega poi, come al solito, ampiamente: prima attraverso la scritta, sulla quale si ferma per quattro versetti, e poi attraverso le scene della tunica (vv. 23-24), della madre (vv. 25-27), delle ultime due parole di Gesù (vv. 28-30) e del suo fianco trafitto (vv. 31-38).
Gli altri Vangeli riferiscono la scritta sulla croce in altri luoghi e solo con un breve accenno. Giovanni invece lo fa subito dopo la crocifissione, aggiungendo una lunga digressione sul suo significato: la scritta di Pilato presenta il Messia/Sposo crocifisso come compimento della Scrittura.
Per sei volte ricorre il verbo «scrivere». In quel corpo, inchiodato sulla croce, prende carne quanto è stato scritto: è la settima Scrittura, definitiva e immutabile, dove tutto è chiaro e realizzato. Il Crocifisso è «il Libro»: presenta tutto ciò che è scritto e Dio stesso che ha scritto. La sua carne e il suo sangue, dati per la vita del mondo, sono trasparenza piena del Verbo: rivelano l’amore estremo, comunicazione e autodonazione di Dio all’uomo.
Sulla croce ogni promessa diventa realtà. La Scrittura non è più lettera che condanna, ma Spirito che dà vita: Dio stesso, che promette, si offre a noi.
Gesù crocifisso è il re atteso, in cui vediamo compiersi ogni promessa di Dio.
Tutta la Scrittura parla di lui (5,39.46; cf. Lc 24,26s.44-47).
La Chiesa riconosce nel Crocifisso la gloria di Dio, salvezza dell’uomo. Per questo Paolo dice con forza: «lo ritenni di non sapere altro in mezzo a voi, se non Gesù Cristo, e questi crocifisso» (1Cor 2,2).
SPARTIRONO PER SÉ LE MIE VESTI
E SOPRA LA MIA VESTE GETTARONO LA SORTE
Gv 19,23-24
«Spartirono per sé le mie vesti e sopra la mia veste gettarono la sorte». Così dice dei suoi nemici il Giusto, sofferente e trionfante (Sal 22,19). Così fanno i soldati con Gesù.
Questa scena forma un dittico con la seguente: il re della Gloria, dal trono della croce, comincia il suo giudizio su tutti. Ciò che qui avviene con i lontani, anticipa ciò che avviene subito dopo con i vicini: il Nazoreo regna non impadronendosi dei beni altrui, ma donando i propri.
Il suo è un giudizio di salvezza universale: a chi lo crocifigge dona le sue spoglie, alla madre il discepolo, a questi la madre e a tutti il suo Spirito. L’albero della vita, che al principio stava nel centro del giardino, ora torna in mezzo agli uomini e porge il suo frutto: sulla croce il Figlio offre se stesso ai fratelli.
Durante il processo e la crocifissione si alternano di continuo giudei e pagani. I loro destini si unificano: il re dei giudei è anche salvatore del mondo, di quel mondo che si è alleato contro di lui per compiere ciò che la mano e il cuore di Dio avevano preordinato che avvenisse (At 4,28). La croce realizza la profezia di Caifa: Gesù dà la vita non solo per la sua gente, ma, come commenta l’evangelista, per ricondurre all’unità i figli di Dio dispersi (1l,51s). Il Pastore bello libera le pecore da tutti i recinti, per fare un solo gregge di fratelli, liberi come lui, il Figlio (cf. 10,14-18).
Coloro che lo uccidono stanno «da una parte» (cf. v. 24b), «dall’altra parte» (cf. v. 25a) quelli che lo amano. Tutti, riuniti sotto la croce, costituiscono l’unico popolo della nuova alleanza, misteriosamente accomunati nel riceverne l’eredità. Infatti il nuovo popolo è fatto da quanti, riconoscendo si in coloro che «prendono» il Figlio per ucciderlo, «accolgono» alla fine l’amore di colui che si consegna. Gli uccisori di Gesù ereditano le sue vesti di Figlio; quando capiranno il dono, diventeranno come il discepolo che Gesù amava: accoglieranno anche sua madre e diventeranno suoi fratelli (cf. vv. 26-27).
Pure gli altri Vangeli raccontano la spartizione delle vesti (Mc 15,24p). Ma in Giovanni la narrazione è più ampia, arricchita da dettagli, con una citazione biblica di compimento e relativa interpretazione.
Gesù è re universale, sia dei pagani che dei giudei. Il titolo sulla croce è scritto in ogni lingua. Egli è immagine di Dio perché ama i fratelli: per loro depone la vita come ha deposto le vesti per lavare i piedi dei discepoli. Il nuovo re, nudo e senza vergogna come Adamo prima del peccato, è icona perfetta del Padre: è il Figlio che compie il suo comando, diventando come lui, datore di vita (10,18).
Dopo il peccato, in sostituzione delle foglie di fico, Dio aveva fatto per i suoi figli una tunica di pelle (Gen 3,7.21). Ora, dalla croce, dona loro la veste originaria, quella del Figlio. La veste è simbolo del corpo. Gesù aveva promesso di dare la sua carne per la vita del mondo (6,51b). Come ha dato il boccone a Giuda, ora dà se stesso a chi lo crocifigge e gli trafigge il fianco.
I vari indumenti, tranne la tunica, sono distribuiti tra i suoi uccisori, in modo che ognuno abbia parte (= eredità) con lui. Le parti sono quattro, come i punti cardinali, come le dimensioni della croce e del cosmo: Gesù il Nazoreo è re di tutta la terra. Infatti egli dona a tutti la sua vita, e in abbondanza (cf. 10,10). La sua tunica però non può essere spartita come le altre vesti né può essere divisa; deve rimanere intera. Il corpo del Figlio, donato a tutti, è tutto per ciascuno. Ogni fratello riceve l’eredità del Figlio: diventa come lui, figlio capace di amare i fratelli.
Se le vesti distribuite in quattro parti indicano l’universalità, la tunica indivisa indica la totalità del dono e l’unità che ne consegue. Per aver parte all’eredità del Figlio, bisogna non dividere la tunica: per essere figli è necessario amare i fratelli, come per amare i fratelli è necessario essere figli. La tunica intatta rappresenta il dono di essere figli e fratelli: è segno della nostra comunione con Dio e tra di noi.
Gesù è il chicco di grano che muore e porta molto frutto: il re, ucciso, costituisce re quelli che lo uccidono.
La Chiesa regna con lui: riceve la sua eredità di Figlio, il corpo dato per noi. In esso ognuno è unito al Padre come figlio e a tutti gli uomini come fratelli.
ECCO IL TUO FIGLIO, ECCO LA TUA MADRE
19,25-27
«Donna, ecco il tuo Figlio / Ecco la tua madre». Sono le ultime parole che Gesù rivolge alla madre e al discepolo amato. Il re della Gloria continua il «suo giudizio»: ai crocifissori dona le vesti, alla madre il discepolo e al discepolo la madre. «Dopo questo» sa che tutto è compiuto (v. 28): portata a termine la sua missione di Figlio, consegnerà lo Spirito (vv. 29-30).
Gli altri Vangeli guardano ciò che avviene in croce di riflesso, nelle reazioni degli spettatori – negative quelle di capi, soldati e di uno dei due crocifissi con lui, positive quelle dell’ «altro» malfattore, delle folle (Lc 23,40-43.48) e del centurione (Mc 15,39p). Tranne che nel suo duplice grido prima di spirare (Mc 15,34p), Gesù è contemplato indirettamente, attraverso le parole dei presenti. Giovanni invece, con un rapido susseguirsi di scene, punta direttamente l’occhio sulla Gloria: osa fissare faccia a faccia la luce del mondo.
Sul Golgota c’è una sequenza di cinque scene: l’intronizzazione (vv. 16b-22), il dono di vesti e tunica (vv. 23-24), della madre (vv. 25-27) e dello Spirito (vv.28-30), di sangue e acqua (vv. 31-37). Più che di scene da vedere, si tratta di icone da contemplare. L’icona non propone un’immagine della realtà; è piuttosto la stessa realtà che rivela la propria luce e, grazie a una prospettiva rovesciata, l’osservatore è osservato: non è il punto di vista esterno, ma entra in scena come colui che è visto da ciò che vede.
Il linguaggio, sobrio ed essenziale, non tradisce emozioni: in poche parole presenta realtà così grandi che, di fronte ad esse, tutto tace. Davanti al sublime c’è solo estasi, silenzio di panico coinvolgimento.
Le ultime tre icone riportano brevi istanti dove la durata del racconto tende a corrispondere a quella del fatto: tempo narrante e tempo narrato coincidono in tempo reale. In questo modo si ottiene l’effetto di far partecipare il lettore all’evento. Questi è presente alla scena, immerso in un tempo senza tempo: tocca l’Eterno, vede l’Invisibile, si inabissa nella Gloria.
Questi brevi racconti tirano le fila del Vangelo, con un intreccio di allusioni portato all’impossibile. Qui ogni parola è una luce che, come e ben più del buco del Piranesi, apre prospettive da meraviglia: con un gioco di rimandi a specchio riflette ogni angolo del Vangelo e dell’intera Bibbia, dalla Genesi all’ Apocalisse, offrendo all’occhio tutto il mistero di Dio. In effetti la Parola, ogni parola, è come una finestra: non guardi lei, ma attraverso di lei. Allora ti apri all’ Altro; e l’Altro si apre a te: esiste per te e tu per lui, entra in te e tu in lui, fa parte di te e tu di lui. Si può dire che, come nel «linguaggio di Adamo», nella singola parola echeggia il tutto.
Questa narrazione, posta al centro delle cinque che rappresentano ciò che avviene sulla croce, è splendida e, nell’economia di Giovanni, ha un valore definitivo. In essa sono ripresi e risuonano insieme, in pienezza armonica, i temi del Vangelo: è «l’ora» verso la quale tutto tendeva, l’ora della luce, che raggiunge e illumina l’universo.
Si tratta di uno dei testi più affascinanti e studiati del Vangelo, con molteplici interpretazioni. Quella più antica, durata fino al medioevo, si fermava al senso ovvio del testo, traendone un’istruzione morale: Gesù, prima di morire, manifesta il suo amore provvedendo alla madre che, già priva dello sposo, sta perdendo il figlio unico.
Nel secolo XII, con la teologia monastica, Maria appare come immagine della Chiesa, insieme donna/sposa e madre feconda. Tale considerazione, pur vera, è insufficiente a esprimere la ricchezza del testo.
Il racconto è un pozzo inesauribile, come la profondità del mistero che presenta. Nei Vangeli le persone sono sempre anche «personaggi», figure tipiche nelle quali ognuno si riconosce.
A livello storico la madre di Gesù e le altre donne sono le persone che amano Gesù, mentre il discepolo è la persona (che sa di essere) amata da Gesù.
A livello simbolico generale, madre e donne da una parte e discepolo amato dall’altra sono rispettivamente figura dell’amore dato e dell’amore ricevuto. La madre, con le sue compagne, rappresenta chiunque dà amore. Questi è innanzi tutto il Padre nei confronti del Figlio, poi Dio nei confronti dell’universo, il Figlio nei confronti dei fratelli, Gesù nei confronti del discepolo, Israele nei confronti della Chiesa, la Chiesa nei confronti del mondo, e così via fino alla più piccola delle creature: chiunque dà amore è immagine del Padre, amore amante. A sua volta il discepolo amato rappresenta chiunque riceve amore. Questi è innanzi tutto il Figlio nei confronti del Padre, poi l’universo nei confronti di Dio, i fratelli nei confronti del Figlio, il discepolo nei confronti di Gesù, la Chiesa nei confronti di Israele, il mondo nei confronti della Chiesa, e così via fino alla più piccola delle creature: chiunque riceve amore è immagine del Figlio, amore amato.
Ma di amore dato si muore e di amore ricevuto si soffoca: si vive solo quando l’amore amante è amato e l’amore amato è a sua volta amante. Questo amore corrisposto, che «circola» tra Padre e Figlio (perich6resis), è lo Spirito Santo, danza di Dio e vita di quanto esiste.
Gesù, amore amato, è amante del Padre e dei fratelli: ha la pienezza dello Spirito. Ora che se ne va, per chi lo ama e per chi è da lui amato è l’ora della separazione (16,32s). Per questo, prima di andarsene, si prende cura di loro. Affidando il discepolo alla madre, la madre ha chi amare e il discepolo chi lo ama; affidando la madre al discepolo, la madre ha chi la ama e il discepolo ha chi amare. Così compie la sua opera di Figlio: comunica ai fratelli il suo Spirito, amore amante e amato perfettamente corrisposto.
Maria e il discepolo, con l’universo – sì, proprio l’universo intero! – che essi rappresentano, si amano reciprocamente con lo stesso amore con cui Gesù li amò, il medesimo che Padre e Figlio hanno tra di loro e verso tutti: è il compimento del comando dell’amore. Per questo la consegna reciproca madre e figlio contiene ogni mistero del cielo e della terra, di Dio e dell’uomo, dell’uomo in Dio e di Dio nell’uomo. Infatti l’evangelista commenta dicendo che, «dopo questo», Gesù sa che «tutte le cose già sono state compiute» (v. 28).
A livello simbolico specifico, come vedremo meglio dal contesto, Maria di Nazareth, chiamata donna, è la sposa, l’Israele che attende lo Sposo. Ora che è venuto, diventa madre e genera l’uomo nuovo, il popolo messianico, la Chiesa. Questa è impersonata dal discepolo amato, che non morirà: resterà in eterno, testimone dell’amore fino al ritorno del suo Signore (cf. 21,22-24). Il discepolo è affidato alla donna come figlio e la donna è affidata al discepolo come madre: ambedue sono consegnati reciprocamente l’uno all’altro. Si realizza così il «molto frutto» del chicco di grano che non rimane solo (12,24; cf. 15,8): dal suo morire sotto terra, germina sulla terra l’unità d’amore tra Israele e tutti i figli di Dio dispersi (11,50-53; cf. 17,11.20-24).
Il testo, avendo un significato universale, è necessariamente e volutamente a contorni sfumati, che l’occhio mette lentamente a fuoco nella contemplazione. Addirittura non è chiaro il numero delle donne del v. 25. Esse poi, nel v. 26, si dissolvono in una, la madre, e appare all’improvviso il discepolo prediletto.
Circa il numero, le donne possono essere quattro, tre o due. A una prima lettura sono quattro, appaiate a due a due: la madre di Gesù e sua sorella, Maria di Cleopa e Maria di Maddalena. Ma possono essere anche tre, se si legge: «La madre di Gesù e sua sorella, (cioè) Maria di Cleopa, e Maria Maddalena». Possono però essere anche solo due, indicate prima in termini di parentela e poi per nome, se si legge: «La madre di Gesù e sua sorella, (che rispettivamente si chiamano) Maria di Cleopa e Maria Maddalena». Il testo permette le diverse letture e dal punto di vista storico non è facile dire quale sia da accettare. Le donne quindi possono essere quattro, come i soldati – ipotesi probabile, almeno per simmetria -; oppure tre, alle quali si aggiunge poi il discepolo prediletto; oppure due. In quest’ultima ipotesi, oltre i soldati e la madre, ai piedi della croce, ci sono Maria Maddalena e il discepolo amato, che riappariranno insieme al sepolcro nel mattino di Pasqua. Ogni ipotesi si presta a interpretazioni diverse, che non necessariamente si escludono.
Per cogliere bene il significato del testo bisogna, come sempre, vedere il contesto immediato, che precede e che segue, e quello generale. Ogni racconto va capito alla luce di ciò che viene prima e assume senso pieno da ciò che viene dopo. Solo così si colgono le infinite suggestioni di cui il testo trabocca.
In relazione alla scena precedente, queste donne richiamano i soldati. Insieme a loro, che si spartiscono le vesti di Gesù, anch’esse ne raccolgono l’eredità. La madre di Gesù, a sua volta, richiama la tunica indivisibile: tocca in sorte a uno, il discepolo che Gesù amava. Si riprendono così e si sviluppano i temi dell’universalità della salvezza (cf. 11,50-52) e dell’unità del popolo di Dio (cf. 17,11.21-23).
In relazione alla scena seguente, qui è anticipata «l’ora» del compimento, che viene subito dopo, quando Gesù consegna lo Spirito (v. 30) e dal suo fianco scaturisce sangue e acqua, di cui il discepolo amato è testimone (vv. 34s).
In relazione al contesto generale del Vangelo, questa scena richiama «l’ora» della gloria di Gesù e della fede dei discepoli (cf. 2,11). Iniziata nelle nozze di Cana alla presenza della «madre di Gesù», questa «ora» è il tema che sottende e unifica il racconto di Giovanni. Adesso che è venuta, «da quell’ora» (cf. v. 27b) comincia il tempo nuovo.
La madre di Gesù appare solo a Cana e qui: apre e chiude «l’ora» del Figlio. In tre versetti è indicata ben sei volte come «madre», cinque direttamente e una indirettamente, con il pronome «la». L’evangelista la chiama due volte «madre» e altre due «sua madre» (di Gesù), mentre Gesù la chiama «tua madre» quando la presenta al discepolo che «la» accoglie. L’evangelista vuole così suggerire che «sua» madre diventa «tua» madre, di te che leggi, se «la» accogli.
I personaggi, che in questo racconto hanno un ruolo esplicito, non sono chiamati per nome, ma secondo la loro relazione: madre/donna, figlio/discepolo amato.
Questa narrazione segna il passaggio dall’ora del Figlio al tempo dei fratelli, che comincia «da quell’ora» in cui il discepolo accoglie la madre. L’apice è costituito dalle parole di Gesù, che a sua madre dona come figlio il discepolo amato e a lui dona, come sua, la propria madre. In questo modo avviene la sostituzione/identificazione tra lui e il discepolo.
Il testo vuole innanzi tutto dire che Gesù, lasciata a noi la sua veste di Figlio (scena precedente), rivela che «da quell’ora» il discepolo diventa come lui, nato dall’alto, dallo Spirito. Maria, madre della Parola diventata carne, lo è anche di chiunque accoglie la Parola che ci dà il potere di diventare figli di Dio.
Inoltre Maria, in quanto madre del Figlio e dei suoi fratelli, è segno dell’unità realizzata dalla croce, che abbraccia insieme il popolo dell’antica e della nuova alleanza, aperta a tutti. Infine, in quanto donna, è la sposa, la figlia di Sion, il popolo della promessa che attende il suo Signore. Ora che è venuto, gli genera il popolo messianico (cf. Is 66,8; 60,4-5; Sal 87,5s; LXX). Ai piedi della croce giunge l’ora delle nozze prefigurate a Cana: la donna incontra lo Sposo e diventa madre feconda di figli. «Da quell’ora» inizia l’era del vino bello e abbondante, in cui tutti riconoscono la Gloria: il Signore è unico re, di tutti i popoli.
Concludendo possiamo dire che Maria, oltre che figura universale di chi ama – correlativa al discepolo, figura di chi è amato -, rappresenta Israele, donna/sposa del Signore, che diventa madre del Messia e del suo popolo: è insieme compimento di Israele e principio della Chiesa. Israele riconosce la Chiesa come sua figlia e la Chiesa riconosce Israele come sua madre. C’è continuità e unità tra antica e nuova alleanza, come tra madre e Figlio: sono «uno» nel reciproco amore.
Gesù, Verbo diventato carne, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, è il Messia, lo Sposo della figlia di Sion, che genera figli di Dio quanti lo accolgono. Ma è anche nostro fratello: ci dona la sua stessa madre e il suo stesso Spirito.
La Chiesa è un unico popolo, rappresentato dalla madre e dal discepolo che si amano dell’unico amore del Padre, consegnato loro dal Figlio.
È STATO COMPIUTO
19,28-30
«È stato compiuto». È l’ultima parola di Gesù che, donate le vesti ai soldati e affidato il discepolo alla madre e questa al discepolo, ha appena bevuto il nostro aceto. Così è compiuta la sua missione: mostrando la Gloria dell’amore estremo, ci consegna lo Spirito, che in lui ora vediamo e conosciamo. Giovanni è davvero il «Vangelo spirituale», la buona notizia che lo Spirito, vita di Dio, è comunicato agli uomini.
Con la sua morte Gesù non giunge alla fine, ma al fine della sua esistenza.
Dopo la croce comincia il settimo giorno, quando Dio, portata a termine la creazione, finalmente riposa dalla sua fatica (Gen 2,2): il Figlio dell’uomo è generato al cielo, ai suoi piedi nasce l’umanità nuova dei figli di Dio. Gesù, mentre torna al Padre con la nostra carne, consegna a ogni carne il suo Spirito, che ci fa suoi fratelli. Ciò che sul Golgota è stato compiuto, resta per sempre a nostra disposizione nel memoriale eucaristico, dono permanente della sua carne e del suo sangue, del suo corpo e del suo Spirito.
Gesù, da protagonista attivo, vive coscientemente la sua morte e dirige il momento ultimo del suo passaggio da questo mondo al Padre. Come ha lasciato in eredità ai nemici vesti e tunica, lascia al discepolo – e in lui a tutti – la madre e lo Spirito, il sangue e l’acqua. Alla fine, invece del grido di abbandono (Mc 15,34; Mt 27,46; cf. Sal 22,2) o di affidamento (Lc 23,46; cf. Sal 31,6), c’è l’annuncio: «È stato compiuto». Il Messia sofferente in Giovanni è presentato esplicitamente come il re della Gloria: il Crocifisso è vittorioso.
L’andarsene di Gesù, culminante nel dono dello Spirito, è sotto il segno del compimento: tutto è consegnato e accolto. All’inizio c’è la coscienza che ogni cosa è compiuta (v. 28a), alla fine la parola che lo rivela a tutti (v. 30a) e nel mezzo la considerazione dell’evangelista che dichiara il compimento della Scrittura (v. 28b). In greco «compiere» è reso con due verbi simili (teléo e telei6o), derivanti dalla stessa parola (télos = fine), con il significato di condurre a fine, a perfezione, all’estremo limite. Il Figlio, terminato il suo cammino tra i fratelli, proprio andandosene, compie la sua opera: inviato a mostrare l’amore del Padre nel suo amore di Figlio, sulla croce lo realizza eìs télos, sino all’estremo limite, oltre il quale è impossibile pensare, perché illimitato (cf. 13,1).
Dopo la scena precedente («dopo questo»), tutte le cose sono «già» compiute per quanto riguarda Gesù. Ha vissuto l’amore alla perfezione, fin dentro la morte. Infatti, seguendo il comando del Padre, ha deposto la vita in favore dei fratelli (10,18); consegnando poi al discepolo la madre e questa al discepolo, ha donato ai mortali la reciprocità dell’amore. Di più non può darci: ci ha dato Dio stesso, che è amore reciproco tra Padre e Figlio. Questo è tutto e, al di fuori di questo, non c’è nulla.
L’ora della Gloria, verso cui la sua vita tendeva, è venuta. La creazione nuova è compiuta: è lui stesso la creatura nuova, il Figlio che ama dello stesso unico amore Padre e fratelli. Ma ciò che sulla croce è portato a termine, ai piedi della croce è appena cominciato con la madre e il discepolo amato. Quanto è già perfettamente completato in lui, «da quell’ora», deve continuare a compiersi in noi fino al suo ritorno. Anzi, il suo ritorno è ormai il crescere in noi del suo amore: il suo tornare a noi è il nostro tornare a lui. Per questo il discepolo prediletto, testimone dell’amore, non morirà mai (21,23): l’amore non avrà mai fine (1Cor 13,8), ma crescerà per noi all’infinito. Infatti Dio è amore (1Gv 4,8.16).
È «l’ora sesta» (cf. v. 14): il sole brilla nel suo pieno fulgore, senza oscurità alcuna (cf. invece Mc 15,33p). Come al pozzo di Sicar, Gesù, stanco del viaggio (4,6), ha sete di darci l’acqua viva. La sua sete di Figlio, che ama i fratelli come il Padre, è che anch’essi vivano dello stesso amore. La sua fame è fare la volontà del Padre e «compiere» la sua opera (4,34); la sua sete è bere il calice che il Padre gli ha dato (18,11), la spugna piena di aceto che noi gli porgiamo. Proprio bevendo questo calice «compie» la sua opera: in risposta a chi lo abbevera di vino andato a male, consegna il suo Spirito. Così compie ogni Scrittura: rivela l’amore incondizionato.
Come è stato ripetutamente detto nel corso del Vangelo (cf. 3,14; 8,28; 12,32s), nel Figlio dell’uomo innalzato si realizza il disegno di Dio. Il Vangelo di Giovanni è fin dall’inizio un gioco di anticipi dell’ «ora» della croce. Questa a sua volta anticipa la Pasqua, sua e nostra, che viene «da quell’ora». Nel giardino del Calvario è gettato il seme del futuro: è consegnato lo Spirito (20,22), raffigurato nel flusso che scaturisce dal fianco aperto (cf. scena seguente). «Chi beve dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete; anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui sorgente d’acqua zampillante per la vita eterna» (4,14). Gesù vuole dare a tutti quest’acqua, come alla Samaritana. Suo desiderio di Figlio è consegnare ai fratelli la sorgente della vita, la sua comunione con il Padre: «Chi ha sete, venga a me e beva. Chi crede in me, come dice la Scrittura, fiumi d’acqua viva sgorgheranno dal suo seno» (7,37s). L’evangelista annota espressamente che queste parole di Gesù si riferiscono al dono dello Spirito, che avrebbero ricevuto i credenti in lui dopo la sua glorificazione (7,39).
«È bene per voi che io me ne vada, perché se non me ne vado, non verrà a voi il Consolatore; ma, quando me ne sarò andato, ve lo manderò» (16,7). Lo Spirito, che prima dimorava presso di noi nella carne di Gesù, ora è consegnato a noi e dimora in noi. Non siamo più orfani (14,17b.18a), ma figli nel Figlio.
Il testo, come gli altri che rappresentano l’ «ora» di Gesù, suscita infinite evocazioni con pluralità di interpretazioni. Come metodo di lettura, che resta sempre aperta, bisogna guardare con attenzione i vari aspetti e livelli del testo:
a) i fatti stessi, narrati con immagini altamente simboliche, che presentano la morte di Gesù come compimento dell’amore;
b) gli echi biblici, evocati con cenni il cui significato è colto dalla memoria comune tra autore e lettore;
c) i continui rimandi che l’autore, nei vari modi che rileveremo nella lettura del testo, opera all’interno del Vangelo. Sono evidenti i richiami alle nozze di Cana (2,112), punto di arrivo della prima rivelazione di Gesù, l’agnello di Dio, il Rabbì, il Messia, colui di cui parlano la legge e i profeti, il figlio di Giuseppe di Nazareth, il Figlio di Dio, il Figlio dell’uomo sul quale si apre il cielo (1,35-51) e che battezza in Spirito Santo (1,33). Ritornano i temi della visita al tempio (2,13-22), della nascita dall’acqua e dallo Spirito (3,1ss), dell’acqua promessa alla Samaritana (4,1ss), dell’opera del Figlio che dà vita ai fratelli (5,1ss), del dono della sua carne e del suo sangue (6,1ss), dell’acqua viva del suo Spirito (7,1ss), della luce vera che ci fa figli (8,12ss), uomini nuovi (9,1ss), che seguono il Pastore bello (10,1ss), risurrezione e vita nostra mediante la propria morte (l1,1ss). A questa luce sono da vedere anche l’unzione di Betania e l’ingresso in Gerusalemme (12,1ss), la lavanda dei piedi ai discepoli con il boccone dato a Giuda (13,1ss) e, infine, la promessa dello Spirito che ci unisce al Figlio, al Padre e ai fratelli, rivelando nel e al mondo la Gloria (cc. 1417). Come si vede, ogni singolo dettaglio del Vangelo è, volutamente e coscientemente, anticipo della Gloria, che splende dalla croce. C’è una tensione rigorosa, senza sbavature, nel racconto di Giovanni: tutto punta a questa «ora» come al suo pieno compimento. Ogni azione di Gesù è vista come «segno» dell’amore, che qui è completo. L’amore c’è sempre tutto in ogni singolo gesto, per quanto minimo; però è colto solo alla fine, nell’ora in cui esso diventa per noi tutto. Come sulla vetta convergono i displuvi del monte, così nel punto ultimo si unificano e si vedono tutti i cammini di una vita. Il suo andarsene da noi è «l’ora» in cui vediamo il Signore come tutto e solo amore, come tutto l’amore. Per questo il suo non è un congedarsi da noi, ma un consegnarsi a noi: ci dà tunica e madre, corpo e Spirito, sangue e acqua tunica, corpo e sangue sono segno di vita donata fino alla morte; madre, Spirito e acqua sono offerta di vita oltre la morte.
d) il contesto immediato, nel quale ogni testo è punto d’arrivo di ciò che sta prima e di partenza per ciò che viene dopo. Qui siamo all’ultimo istante dell’esistenza terrena di Gesù, che la esprime tutta. Dopo non ha più nulla da dire. Infatti il corpo del Figlio, Parola diventata carne, è ormai carne diventata Parola, esegesi perfetta del Padre (cf. 1,18): «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (14,9). Proprio dal suo costato aperto fluirà subito dopo l’acqua viva che ha sete di darci (cf. 19,34).
Gesù è il Figlio dell’uomo innalzato, nel quale si compie il disegno di Dio: manifesta la Gloria. Il re dell’universo, dal suo trono, completa il suo giudizio: accoglie il nostro aceto e ci offre lo Spirito.
La Chiesa, raffigurata dalla madre e dal discepolo presso la croce, contempla il Figlio dell’uomo innalzato e vede in lui l’amore di Dio per il mondo. Generata da questo amore, ne vive e lo testimonia a tutti.
GUARDERANNO VERSO COLUI CHE TRAFISSERO
19,31-37
«Guarderanno verso colui che trafissero». Con queste parole il testimone dell’amore ci fa volgere gli occhi al Crocifisso. Qui il suo Vangelo puntava fin dall’inizio: «Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, affinché chiunque crede in lui abbia vita eterna» (3,14s).
Dopo la morte, si dice, non succede più nulla. Finita la vita, si torna, per mani altrui, alla madre terra. Ma Gesù non è morto; proprio dopo il suo innalzamento accade ciò che fu promesso: il suo andarsene al Padre è per lui il compimento e per noi l’inizio di tutto.
Allo spirare di Gesù, nei tre sinottici c’è lo squarciarsi del velo del santuario (cf. Mc 15,38) e il riconoscimento di Gesù come Figlio di Dio (Mc 15,39p; Mt 27,54), il Giusto (Lc 23,47). Mt 27,51b-54 parla anche di terremoto e risurrezione di giusti, mentre Lc 23,48 nota la conversione delle folle che assistono allo «spettacolo» (theorìa) della croce.
Gesù, «innalzato da terra», espelle il capo di questo mondo e diventa centro di attrazione per tutti (cf. 12,31s): dopo il ritorno del Figlio al Padre, inizia, dietro di lui, quello dei fratelli. Giovanni pone come fonte di questo cammino la contemplazione del Trafitto. Il Figlio dell’uomo squarciato dalla lancia è l’apertura del cielo su ogni figlio d’uomo (cf. 1,51). Attraverso la fessura del suo fianco esce l’acqua che ci disseta e noi entriamo nel mistero di Dio.
Noi cerchiamo segni e prodigi. Il Vangelo ci presenta invece il prodigio di un Dio che ama così. Il colpo di lancia non serve ad accertare la morte di Gesù, già constatata a vista. Produce invece la ferita dalla quale scrutiamo l’abisso di amore da cui veniamo, il sangue da cui nasciamo e l’acqua di cui viviamo.
Questa scena sviluppa la precedente, dove Gesù ci consegna lo Spirito, e forma un dittico con la seguente, dove il suo corpo, come chicco di grano deposto sotto terra, produce molto frutto (12,24).
I pagani, insieme ai giudei che hanno consegnato loro Gesù (18,28), sono visti come esecutori del disegno di Dio (cf. At 4,27s; Ap 17,17). Già lo hanno proclamato re (cf. 18,33-19,16) e intronizzato sulla croce (19,17-22), si sono spartiti le sue vesti e sorteggiata la tunica (19,23-24). Ora lo trattano, senza saperlo, da agnello pasquale, al quale «osso non sarà rotto» (cf. v. 36; Es 12,46; Sal 34,21), e ne fanno il misterioso Trafitto, dal quale si riversa uno Spirito di grazia e di consolazione su quanti lo contemplano (v. 37; cf. Zc 12,10). Da lui infatti scaturisce per Gerusalemme una sorgente zampillante, che lava peccato e impurità (Zc 13,1). Allora il Signore dirà del suo popolo: «Questo è il mio popolo»; e questo dirà finalmente: «Il Signore è il mio Dio» (Zc 13,9b). «In quel giorno non vi sarà né luce né freddo, né gelo: sarà un unico giorno, il Signore lo conosce; non ci sarà né giorno né notte; verso sera risplenderà la luce. In quel giorno acque vive sgorgheranno da Gerusalemme e scenderanno parte verso il mare orientale e parte verso il Mar Mediterraneo, sempre, estate e inverno. Il Signore sarà re di tutta la terra e ci sarà il Signore soltanto, e soltanto il suo nome» (Zc 14,6-9).
Il corpo di Gesù, Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, è il vero santuario (2,21). Il suo fianco trafitto è il lato del tempio da cui fluisce il grande fiume che risana e fa rivivere terra e mare, producendo alberi che fruttificano dodici mesi l’anno. I loro frutti sono cibo a ogni fame, le loro foglie medicina a ogni male (cf. Ez 47,1-12; cf. Ap 22,2).
L’apertura del fianco del Crocifisso corrisponde allo squarciarsi del velo del santuario ricordato negli altri Vangeli: abolendo ogni separazione, stabilisce comunione tra Dio e uomo. La lancia del soldato apre la porta del grande passaggio, dal quale Dio esce verso l’uomo e l’uomo entra in Dio. Inizia la Pasqua definitiva e la nuova alleanza, la nuova creazione e l’effusione dello Spirito.
Ciò che in Gesù è compiuto, inaugura il nostro futuro. Dal Figlio infatti viene l’acqua viva per i fratelli. «Da quell’ora» essi continueranno nel mondo la sua stessa missione, in cammino verso «l’ora», che deve compiersi in tutti, come in lui e grazie a lui.
Il racconto inizia con la richiesta a Pilato di far rompere le gambe ai crocifissi, perché non restino esposti il giorno grande di quel sabato. I soldati spezzano le gambe ai due con Gesù (vv. 31-32). Ma non a lui, perché già morto. Un soldato però gli trafigge il fianco, dal quale esce sangue e acqua (vv. 33-34). Ciò è di somma importanza per l’autore: è il centro del racconto, tre volte testimoniato da chi ha visto, perché i lettori credano in Gesù (v. 35). In genere nel Vangelo si vede un segno e si testimonia il suo significato (cf. 2,11). Giovanni il battezzatore, per esempio, vede lo Spirito scendere come colomba su Gesù e testimonia che lui è Figlio di Dio (cf. 1,33s). Qui invece l’evangelista testimonia direttamente ai lettori, chiamati «voi», il fatto stesso del sangue e dell’acqua: non si tratta di un segno, ma della realtà di cui tutto è segno. Le gambe non spezzate e il fianco colpito sono invece letti come segni di adempimento della Scrittura: Gesù è l’agnello pasquale, del quale non bisogna rompere le ossa (v. 36), e il «Trafitto», del quale parla il profeta Zaccaria (v. 37).
Del sangue e dell’acqua, pur dando triplice testimonianza, l’evangelista non offre spiegazione alcuna. A questo punto del racconto ritiene che il lettore capisca. Come vedremo nella lettura del testo, il sangue che esce da Gesù è simbolo di tutta la sua esistenza di Figlio profusa in favore dei fratelli; l’acqua è la fonte viva che scaturisce dalla sua vita offerta per noi.
Nella scena precedente il Crocifisso aveva sete di darci il suo Spirito. Ora, dal pozzo del suo cuore trafitto, zampillano il sangue e l’acqua che aveva sete di donarci. Si parla prima di sangue, poi di acqua. L’acqua dello Spirito viene infatti dal sangue della sua morte come dono della vita: «Per mezzo del sangue noi abbiamo l’acqua dello Spirito» (Ippolito).
Dall’acqua che viene dal sangue, dallo Spirito che viene dalla carne offerta per noi, nasce la Chiesa. Essa è generata dall’alto (cf. 3,3). Non da volontà di uomo, né da carne, né da sangue (1,13), ma dall’amore di Dio nella carne del Figlio che, versando il sangue, dà il suo Spirito. Così anche noi possiamo continuare la sua opera: vivere l’amore del Padre verso i fratelli.
Gesù, dando la vita, ci dà la vita. Il suo andarsene al Padre realizza per noi il sabato, la Pasqua e la Pentecoste: compie la creazione e la liberazione, nel dono dello Spirito. L’apertura del suo corpo e l’uscita di sangue e acqua è una scena di nascita: da lui è generata l’umanità nuova.
La Chiesa, contemplando la ferita d’amore dello Sposo, nasce come sposa del suo Signore e madre dei viventi.
IL CORPO DI GESÙ
19,38-42
«Il corpo di Gesù», santuario non fatto da mano di uomo, è l’offerta che Dio fa di sé agli uomini: è il Verbo diventato carne, sua tenda tra noi (1,14). Da noi distrutto, risorgerà in tre giorni (2,19-22). Infatti colui che ha offerto la vita, ha potere di darla e riceverla di nuovo (cf.1O,17s).Anche qui, come al solito, nel Vangelo di Giovanni ogni parola è una finestra aperta su tutto il Vangelo. Ora che siamo nel finale, è possibile rilevarlo: nel corpo di Gesù, carne del Verbo, è contenuta tutta la narrazione di Dio.
Questa scena forma un dittico con la precedente, quasi un contrappunto tra ciò che i nemici e gli amici fanno al «corpo di Gesù». I nemici l’hanno messo in croce, abbeverato di aceto e trafitto; in risposta dona loro vesti e Spirito, sangue e acqua. Oltre la madre, cosa offrirà agli amici che lo levano, accolgono e depongono avvolto di lini e profumi?
I vv. 31-42 costituiscono un’unica sequenza incorniciata dall’espressione «preparazione della Pasqua» (vv. 31.42). Ciò che avviene al corpo dell’Agnello tra la sua morte e la sua risurrezione è preparazione al cammino pasquale, all’Esodo definitivo: il Signore della vita e dell’amore entra negli inferi e affronta le tenebre della morte, stipendio del peccato (cf. Rm 6,23).
Come il santuario di Dio è figura del corpo del Figlio, così la Pasqua antica prefigura quella nuova. Il suo corpo, dato per noi, è la nuova Pasqua. In essa avviene la nostra liberazione e inizia il riposo del Signore. Infatti è anche sabato quel giorno (cf. v. 31).
L’ora del compimento è venuta. La carne del Verbo, riposando nel grembo della terra, la lievita della sua vita e dà inizio al mondo nuovo. L’eredità del Figlio attende di essere accolta da tutti i fratelli, come dal discepolo amato. Nel frattempo è preparazione della Pasqua. Il dono di Dio è già perfetto. Ma per noi è ancora nascosto, come il seme sotto terra. Questa terra ormai è ciascuno di noi, che prende e mangia il suo corpo dato per noi.
Il tempo che ci è dato di vivere, è ormai «preparazione» della Pasqua, nostra e di tutto il creato. La creazione intera geme nelle doglie del parto, in attesa della rivelazione dei figli di Dio. Essa infatti «nutre la speranza di essere, lei pure, liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio» (cf. Rm 8,20s).
Quando e come finirà questo tempo di preparazione? Quando il pianto della semina si muterà in riso di giubilo (Sal 126), il nostro lamento in danza e la veste di sacco in abito di gioia (SaI30,12)?
La «preparazione» finirà quando, guardando il Trafitto, accoglieremo il suo corpo, per avere l’acqua dello Spirito. Allora inizierà per noi l’esultanza pasquale: con il discepolo amato vedremo e crederemo (20,8), con la Maddalena sentiremo dalla sua bocca il nostro nome e lo abbracceremo (20,16s), con i discepoli gioiremo al vedere le sue ferite e riceveremo il suo Spirito, che ci farà risorgere con lui, risorto e vivo in mezzo a noi (20,20-23). Allora anche noi, con l’incredulo Tommaso, metteremo il dito nel buco dei chiodi e getteremo la mano nel foro della lancia, per toccare l’umanità di Dio e confessare: «Il mio Signore e il mio Dio!» (20,26ss).
Tutto il Vangelo parla del corpo di Gesù: racconta ciò che ha fatto, fino a ciò che si è fatto per noi in ciò che noi abbiamo fatto a lui. Quel corpo, sedimentazione di tutta la sua esistenza, porta il sigillo dell’ amore compiuto, visibile nelle mani e nel fianco. A questo punto Gesù realizza il discorso fatto a Cafarnao, dopo aver sfamato le folle: il pane di vita, vera manna dal cielo, è la sua carne data per la vita del mondo (6,48-51). Chi ne mangia, dimora nel Figlio come il Figlio in lui, vivendo di lui come lui del Padre (6,56s).
La preparazione della Pasqua è il tempo della contemplazione del Trafitto, che ci fa entrare nel mistero del Figlio dell’uomo innalzato, gloria di Dio e vita nostra. In compagnia di Giuseppe d’Arimatea e Nicodemo, con venerazione togliamo dalla croce quel corpo da cui uscì sangue e acqua; lo avvolgiamo in panni di lino e in profumi, per deporlo dentro la terra del giardino. E il giardino del Signore è Adamo, l’uomo, terra dalla quale è germogliato il Figlio dell’uomo. Suo sepolcro è il nostro cuore, «sarco-fago» (= mangia-carne) che mastica la sua carne e beve il suo sangue, per rifiorire della sua vita. In questo sepolcro il Signore vive il Sabato santo, Pasqua dell’Agnello. La nostra storia è ormai tutta un Sabato santo in cui il Signore, deposto in noi, illumina i nostri abissi e ci fa venire alla luce del suo amore.
Il racconto della passione puntava a farci volgere lo sguardo verso il Trafitto.
E chi lo contempla per primo, se non chi lo trafigge? Non è solo «uno dei soldati», ma chiunque si identifica con lui: chiunque, contemplando il suo amore, si sente trafiggere il cuore (At 2,37). Chi lo guarda, diventa come Giuseppe e Nicodemo: prende quel corpo da cui scaturisce la vita e lo Spirito.
«Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo, offerto per voi. Prendete e bevetene tutti, questo è il mio sangue versato per voi e per tutti, in remissione dei peccati». Se uno mangia questo corpo e beve questo sangue, ha vita eterna (cf. 6,5158): dal suo grembo zampilla il fiume d’acqua viva (7,37s; 4,14) che rinnova l’universo (Ez 47,1-12).
È importante guardare il corpo di Gesù, in vita, in morte e dopo morte: è il dono di Dio per noi. Contemplando lo, accogliamo in noi lo Sposo che dorme, in attesa che il nostro cuore si svegli al suo amore. Ormai il nostro risveglio a lui è anche il suo in noi. Chi guarda il Trafitto è attirato da lui: preso da lui, lo prende con sé. Giuseppe, discepolo nascosto e pauroso, osa andare da Pilato per levarlo dalla croce. Nicodemo, simpatizzante notturno, accorre carico di aromi. Sono i primi due, presi da questo corpo, che lo prendono. Così preparano la Pasqua, sua e loro.
Il corpo dell’agnello pasquale va «mangiato» nella notte (Es 12,8): è il cibo dell’Esodo, per camminare verso la libertà. Come la croce del Figlio dell’uomo è la sua esaltazione, anche il suo essere messo sotto terra profuma di misteriosa vittoria. L’«ora» del Figlio dell’uomo è sotto il segno della Gloria, che, «da quell’ora», passa a ogni fratello.
L’uomo, fatto di polvere, in polvere torna (cf. Gen 3,19). Anche Gesù, come tutti, muore ed entra nel sepolcro. Ma il Figlio dell’uomo è Figlio di Dio: con lui la fonte della vita entra nelle profondità della terra. Scendendo negli inferi, abbevera i morti e fa germogliare il giardino.
In greco le parole corpo e segno suonano rispettivamente soma e séma. Séma innanzi tutto significa tumulo. Questo è il primo segno, inventato dall’uomo per indicare la presenza di un altro corpo che l’ha preceduto nel cammino. Soma e séma si richiamano. Infatti il nostro corpo, nella sua unicità e limite cosciente, è il segno originario: rimanda ad altro, all’Altro.
Il corpo di Gesù è il segno perfetto del Dio amore. La carne del Figlio crocifisso ci ha «esposto» il Padre, riversando dall’alto la Gloria. Ora è posto nel sepolcro. Sepolcro in greco si dice mnemeion, monumento, che ha la stessa radice di memoria e di morte. Anche se rimossa, la sepoltura è il fatto umano più significativo: ci rende «umani» (= humandi, da seppellire), compresi della nostra solidarietà comune con la terra. Ora però, nel luogo della memoria di morte, dorme il Signore della vita, colui che ci ha amato e ha dato se stesso per noi (cf. GaI 2,20). Per questo ora possiamo condurre un’esistenza affrancata dalla paura della morte e dall’egoismo che ne consegue, libera di gioire di tutto e amare tutti.
Là dove ogni uomo, da ogni parte, arriva e incontra gli altri, già convenuti in attesa di chi ancora non è giunto, ora c’è il Verbo creatore. Diventato carne, entra nelle oscurità della terra e si unisce a ogni carne.
Giovanni, oltre a connettere la sepoltura con la trafittura, ne descrive il modo regale con cui si svolge. È il sonno del re vittorioso, dello Sposo nel suo letto. Il suo essere messo sotto terra, come il suo essere elevato da terra, non è la fine di tutto, ma il compimento del dono di sé. Finalmente Giuseppe e Nicodemo rispondono al suo amore e gli preparano la stanza nuziale. La quantità sovrabbondante del profumo – come fu sovrabbondante il vino a Cana e il pane sul monte -, i lenzuoli di lino, il sepolcro nuovo: tutto è preparazione al mattino dell’ottavo giorno.
Il profumo rimanda alla scena sponsale di Betania, che anticipava la sua sepoltura (cf. 12,7). Se la tomba di Lazzaro mandava cattivo odore, tutta la casa di Betania fu riempita di profumo (12,3). Ora il sepolcro stesso, casa di ogni uomo, è pieno di profumo. La morte di Gesù è in verità l’effusione del Dio amore: profumo effuso è il suo Nome (Ct 1,3). Il suo corpo profuma di vita persino la morte: Dio è tutto in tutti (1Cor 15,28).
Grande è il mistero del Sabato santo: l’amore, più forte della morte (cf. Ct 8,6), raggiunge l’inferno e porta salvezza a tutta la storia, passata, presente e futura (cf. 1Pt 3,18-22), colmando di luce ogni memoria di morte. È l’evangelizzazione del nostro inconscio.
Noi conosciamo tre tempi, che caratterizzano il nostro vivere: del dolore, dell’attesa e della gioia. Conosciamo l’oscurità del Venerdì santo e la luce del mattino di Pasqua; in mezzo c’è il Sabato santo, tempo di preparazione. In esso Dio ci dà come segno la sua stessa realtà: il corpo del Figlio dell’uomo.
In Giovanni la sepoltura è vista come preparazione all’incontro. È il «poco tempo» in cui non vediamo il Signore (cf. 16,16ss). Lo cerchiamo e non lo troviamo, perché lui è venuto a cercarci là dove noi siamo e non vogliamo essere. È per noi un momento di afflizione, come per la donna prima di partorire. Ma sono doglie che fanno venire al mondo l’uomo nuovo. Allora ci rallegreremo e nessuno ci potrà togliere la nostra gioia (cf. 16,20-23): sarà per noi, come per Maria Maddalena, l’abbraccio con lo Sposo. E sarà mattino di Pasqua, il primo dei sabati (cf. 20,1ss), ottavo giorno senza fine.
Anche il racconto della deposizione, secondo il modo di procedere di Giovanni che solo alla fine si coglie pienamente, è tutto un gioco di rimandi a specchio. Come già detto, ogni parola diventa una finestra aperta su tutto il Vangelo, anzi sull’infinito.
Gesù è il suo corpo dato per noi: in esso conosciamo e accogliamo Dio, amore estremo per l’uomo.
La Chiesa è rappresentata da Giuseppe e Nicodemo, che accolgono questo corpo e lo custodiscono con amore. Da lui germinerà la vita.