Lectio divina

Lectio sui Vangeli

Lectio sul Vangelo di Giovanni
Capitoli 16-17
Silvano Fausti


Testo doc Fausti – Giovanni Cap. 16-17
Testo pdf Fausti – Giovanni Cap. 16-17

petrovdan

CAPITOLO 16
Conviene a voi che io me ne vada.
Infatti, se non me ne vado, il consolatore non verrà da voi
16,4b-15

Conviene a voi che io me ne vada. Infatti, non me ne vado, il Consolatore non verrà da voi”, dice Gesù ai discepoli che sono tristi per la sua partenza. Riprende il tema centrale dell’ultima cena: il suo andarsene non è fallimento, ma compimento della sua opera. Infatti è per lui il ritorno al Padre e per noi il dono del suo Spirito. Così inizia la nuova presenza: se prima era “con” noi, ora è “in” noi con il Consolatore. La sua assenza è per noi il distacco necessario per nascere e crescere.

Queste parole di Gesù sono un conforto per i futuri discepoli che dovranno affrontare le sue stesse difficoltà: lo Spirito della verità testimonierà a loro favore, facendo loro comprendere il significato del suo andarsene come vittoria sul male (vv. 7-11; cf. 15,26) e rendendoli capaci di portare avanti la sua stessa testimonianza (vv. 12-15; cf. 14,25s; 15,27). Si può leggere in continuità la sezione 14,15-16,15. È un’ampia riflessione sull’azione dello Spirito, che unisce la comunità al suo Signore, come il tralcio alla vite.

L’andarsene di Gesù crea un vortice che risucchia anche noi dietro di lui. Il tempo tra la sua partenza e il suo ritorno è la storia della nostra vita nello Spirito. Nel c. 16 si tracciano le linee fondamentali di questa storia, che è insieme storia della Chiesa e storia del mondo. La Chiesa infatti testimonia al mondo che la sua verità autentica è l’amore da cui viene e verso cui va.

Con il suo andarsene Gesù compie la sua missione, perché ci apre la via del ritorno al Padre. La nostra esistenza di discepoli ha un valore “escatologico”, definitivo: è già ora vita eterna, perché viviamo da figli e da fratelli. Ma ha anche un valore “apocalittico” e “salvifico”: svela e, svelando, dona la vita del Figlio a chiunque l’accoglie.

I discepoli, ai quali Gesù ha promesso la pienezza della sua gioia (15,11), sono tristi: vivendo l’amore (15,12-13), incontrano l’odio gratuito del mondo (15,18-25) e la persecuzione dei correligionari (16,1-4a). Ma queste sofferenze sono come il travaglio del parto. In essa viene alla luce la creatura nuova, a immagine del Figlio (cf. Mc 13,9-13p). Mentre sperimentiamo la croce e ci sentiamo in balia del male, in un mondo senza Dio, la potenza dello Spirito ci testimonia della verità del nostro cammino, che è lo stesso di Gesù verso la Gloria.

Gesù se ne torna al Padre, ma i discepoli non sanno neppure chiedere “dove” va (cf. 14, 1-6). Sono in ansia sul futuro, suo e loro. Non vedono la sua partenza come glorificazione; è una preoccupazione, che li riempie di tristezza (vv.4b-6). Gesù dice che è bene anche per noi che lui torni al Padre, perché così ci manda il Consolatore (v. 7), lo Spirito della verità. Questi porterà a compimento l’opera di Gesù, sottraendo il mondo al capo di questo mondo (vv. 8-11) e introducendo i discepoli sempre più profondamente nel suo mistero di Figlio (vv. 12-15).

Con la croce di Gesù, lo Spirito ribalta la situazione. Il mondo, convinto del suo errore, è salvato dalla perdizione e il capo di questo mondo, che pensava di aver trionfato con le armi della menzogna, dell’odio e del potere, è sconfitto dal Figlio che, dando la vita per amore, vince ogni menzogna, odio e potere di morte.

Lo Spirito è come luce, che inevitabilmente dissipa la tenebra: fa vedere al mondo il proprio inganno e rivela ai discepoli ciò che ancora non hanno capito. Con la sua forza li rende capaci di “portare” il peso di ciò che Gesù ha detto. In questo modo lo glorificherà in loro, trasformandoli a sua immagine, per mostrare al mondo la sua gloria di Figlio.

Lo Spirito di Dio, principio della creazione, compie la sua opera nella liberazione dell’uomo, generandolo a una vita filiale. Questo è il frutto abbondante (15,1-17) di chi ama Gesù, le “opere più grandi” (14,12) che compirà chi viene dopo di lui.

La partenza del Figlio avvia il cammino dei fratelli dietro di lui. Come lui li ha attirati a sé, così essi, con la loro testimonianza, attireranno a lui tutti, fino a quando sarà completo il disegno del Padre, che vuole salvare il mondo (cf. 3,16s).

La vita nello Spirito del Figlio, propria del discepolo, è unione affettiva, ma anche effettiva con Gesù: con e come lui, porta avanti il processo di salvezza per tutti.

Come già detto, il tempo che c’è tra l’andata di Gesù e il suo ritorno, è la storia del nostro ritorno al Padre, che si compie giorno dopo giorno nel segno dell’amore verso i fratelli. La sua assenza da noi è ormai la sua presenza in noi e, attraverso di noi, al mondo intero. L’andata di Gesù è come il sorgere del sole che raggiungerà il pieno fulgore, lo scaturire della sorgente che feconderà la terra, l’inizio del regno dell’amore che, trasmettendosi dall’uno all’altro, trionferà su tutti.

Gesù, nel suo andarsene al Padre, ci dona il suo Spirito. Questo ci dà coscienza dell’inganno in cui vive il mondo e capacità di vivere il suo stesso amore di Figlio.

La Chiesa vive di questo Spirito, per continuare nella storia la stessa testimonianza del Figlio a favore dei fratelli.

Nel mondo avete tribolazione; ma abbiate coraggio:
io ho vinto il mondo
16,16-33

Nel mondo avete tribolazione; ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo”, sono le parole di Gesù ai discepoli che tra poco non lo vedranno più. Paurosi e increduli per la sorpresa, lo rivedranno poco dopo, il mattino di Pasqua, in “quel giorno” che è il giorno del Signore. Ma prima passeranno due giorni di angustia. Il primo è quello in cui lo vedono ancora nella carne, in cammino verso la croce: è il “poco” tempo del venerdì Santo. Il secondo è quello in cui non lo vedranno, perché giacerà nel sepolcro: è il “poco” tempo del sabato santo. Nel primo lo vedono innalzato da terra; nel secondo non lo vedono, perché posto sotto terra. Sono due giorni di tribolazione e pianto: uno di smarrimento per ciò che accade, l’altro di angoscia per ciò che è accaduto. Sono i due tempi in cui si compie il destino del Figlio dell’uomo, che ogni uomo attraverserà nel suo cammino da “questo mondo” al Padre, per giungere alla gioia completa.

Questi due tempi, pur essendo breve preludio a un tempo ben diverso, a chi li vive sembrano un unico, interminabile tempo. L’angoscia infatti oscura ogni orizzonte e proietta l’ombra presente su ogni futuro. Ma è solo il tempo del chicco di grano che muore per portare molto frutto (12,24), delle doglie del parto, che fanno venire alla luce l’uomo nuovo.

Questo periodo di travaglio, che si prolunga dal venerdì al sabato santo, dura in realtà quanto l’esistenza di ogni persona e abbraccia l’arco di tutta la storia, in cammino verso l’aurora senza tramonto del giorno di Pasqua. Allora il Signore si farà vedere, di mattina a chi lo cerca come la Maddalena (20,11ss), di sera agli altri (cf. 20, 19ss) e, otto giorni dopo, a chi quel giorno non c’era (20,26ss). Tuttavia questo tempo resta pur sempre “breve”, perché transitorio – come i nostri anni che sfumano in un soffio (Sal 90,9), come la scena di questo mondo che presto scompare (1Cor 7,31).

È il tempo, “ormai diventato breve” (1Cor 7,29), della chiesa nel mondo, che ricalca le orme del Verbo fatto carne: è il tempo di Maria e di chi l’ha visto in croce, il tempo delle donne del sabato santo, custodi silenziose del dono di Dio, già dato ma non ancora conosciuto. È il tempo dell’assenza, in attesa che sorga in noi il sole che illumina il nuovo giorno. È il tempo, comune a ogni uomo, del grande “silenzio di Dio”, in cui sulla croce dona tutto se stesso e nel sepolcro si dona a tutti, per parlarci poi definitivamente nella gioia dello Spirito.

In questo tempo ci poniamo le domande fondamentali. Ci chiediamo innanzi tutto dov’è il Signore che cerchiamo e come possiamo vederlo (vv. 16-22); vogliamo inoltre capire qual è il nostro nuovo rapporto con il Padre (vv. 23-28); vogliamo infine sapere se la nostra fede è autentica o illusoria, presunta o reale (vv. 29-31). Sono gli interrogativi che la Chiesa si è posta dopo che Gesù se ne è andato e che ancora si pone nell’attesa del suo ritorno. Come e quando troviamo colui che cerchiamo? Che senso ha questa storia dopo di lui, senza di lui? Come vivere la sua assenza? Quando sarà il suo ritorno?

Queste domande si condensano nel detto di Gesù, ossessivamente ripetuto: “Un poco e non mi vedete più e ancora un poco e mi vedrete” (vv. 16.17.18.19). Che valore ha per noi questo “poco” tempo in cui Gesù si assenta per andare al Pare e mostrarsi a noi di nuovo (v. 17b)?

Gesù dice che, in questo “poco” tempo, i suoi discepoli saranno tristi e afflitti. Ma presto saranno nella gioia, quando capiranno che il suo andarsene è per lui un tornare al Padre e per noi un ricevere il dono del suo Spirito. Sarà la sorpresa della Maddalena piangente al sepolcro (20,11-18), che si ripeterà per i discepoli e per Tommaso chiusi nel cenacolo (20,19-29), come dopo per i sette sul lago di Tiberiade (21,1ss).

Ciò che è accaduto allora, accade anche ora e sempre ai discepoli, chiamati a fare la stessa esperienza dei primi. Quando subiranno le medesime afflizioni del loro Signore che “ha vinto il mondo”, capiranno nello Spirito che stanno facendo il suo stesso cammino. Allora lo vedranno nella propria vita, conformata alla sua, e gioiranno di una gioia che nessuno può rapire.

L’esistenza cristiana ha come modulo l’esistenza terrena di Gesù: la conoscenza di lui e della potenza della sua risurrezione ci fa partecipare alle sue sofferenze e alla sua morte, con la speranza di giungere alla risurrezione dai morti (Fil 3,10s). La gioia della risurrezione sta al principio e alla fine del nostro cammino: nel mezzo c’è il “poco tempo” in cui partecipiamo alle sue sofferenze per partecipare alla sua gloria.

Il tempo, prezioso, della nostra tristezza e del nostro non vedere il Signore è quello che impieghiamo a comprendere, sotto la guida dello Spirito, la sua presenza scandalosa sulla croce e la sua assenza dolorosa negli abissi, mistero ineliminabile della vita sua e nostra (cf. At 4,27). Dopo abbiamo una gioia inalienabile, perché vediamo la storia come il travaglio che genera il mondo nuovo (cf. Rm 8,28), il corpo totale del Figlio ( cf. Ef 4,13b), il cui capo è già venuto alla luce.

Per questo i discepoli gioiscono nelle persecuzioni subite a causa del nome di Gesù (cf. Mt 5,11s; At 5,41; 2Cor 1,3-7; Gc 1,2-4; 1Pt 1,6-7; Eb 12,11). Completano infatti nel loro corpo quello che ancora manca ai patimenti del Figlio per la salvezza dei fratelli (cf. Col 1,24).

Dopo la partenza di Gesù, il nostro rapporto con il Padre sarà molto più profondo: il dono dello Spirito d’amore ci farà dimorare nel Figlio e ci darà libero accesso al Padre. “Nel suo nome”, uniti a lui, siamo figli e possiamo chiedere e ottenere tutto dal Padre.

Il poco tempo dell’afflizione è il passaggio necessario per giungere alla gioia compiuta (cf. At 13,22), che consiste nel vedere con chiarezza il nostro rapporto di figli con il Padre: il Padre ci ama come ama il Figlio e il Figlio ci ama come lo ama il Padre. E noi possiamo dire: “Noi abbiamo conosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore, chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio in lui” (1Gv 4,16).

Il c. 16 tratteggia la vita del credente nel “breve tempo” della sua esistenza: è un passaggio dalla tristezza alla gioia, dal non vedere al vedere, dal non capire al comprendere il mistero della croce e della sua vittoria. L’opera propria di Dio e del suo Spirito è farci compiere questo passaggio, che è la nostra pasqua di liberazione.

La gioia, colore proprio di Dio, è il frutto maturo dell’amore. Non si tratta di euforia o superficialità. Conosce difficoltà e tribolazioni, contraddizioni e dolori (cf. 2Cor 1,3-7). È quella la gioia che scaturisce dalle ferite del Risorto (20,20).

L’andarsene di Gesù segna il passaggio, faticoso ma bello, alla vita adulta, libera e responsabile, di chi ama come è amato. Questo è il compimento della missione del Figlio, rivelazione della gloria di Dio e salvezza dell’uomo.

Gesù, andandosene, ci dà la sua stessa intimità con il Padre e ci abilita a fare il suo stesso cammino.

La Chiesa vive nella storia il passaggio – è la sua pasqua! – tra il poco tempo dell’afflizione di chi non vede il Signore e il tempo della gioia di chi lo vede: vive le proprie afflizioni comprendendole, alla luce della croce, come doglie del parto per un’umanità nuova.

CAPITOLO 17
Adesso glorificami tu, Padre, presso te stesso.
Con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse
17,1-5

«Adesso glorificami tu, Padre, presso te stesso, con la gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse». Le parole di Gesù prima della sua passione sono uno squarcio di luce: rivelano, come il Prologo (1,1-18), il mistero profondo della sua relazione con Dio e con il mondo, che, a questo punto del Vangelo, siamo in grado di intravedere. È la finestra che il Vangelo ci apre sull’io più intimo di Gesù, Figlio di Dio e fratello di ogni uomo. Per non smarrirci in questo vasto mare, è necessario accostarci con occhi aperti e purificati dall’amore.

>Il c. 17 è una ripresa finale, sinfonica, dei vari temi del Vangelo. Si tratta di una melodia divina – una variazione modulata sull’amore ineffabile tra Padre e Figlio, comunicato ai fratelli -, che conclude il «testamento» di Gesù. Come ogni testamento, dichiara agli eredi i beni che lascia. Più si scava in questa miniera inesauribile, più si trova. A questo punto si è presi dalla sensazione non solo di trovare qualcosa di prezioso, ma di trovarsi addirittura nella stanza del tesoro, anzi dentro un diamante, grande come l’universo, infinito come Dio stesso. Ogni parola ne è una rifrazione diversa e abbagliante, che suscita sempre nuovo stupore. Il tema dominante è la Gloria, del Padre, del Figlio e di noi suoi fratelli.

Il lettore, trasportato a volo d’aquila nelle profondità del cielo, è quasi schiacciato dall’immensità di ciò che sente. Ma il testo è come due potenti ali che lo sollevano e immergono nell’abisso del mistero, suo e di Dio. Il commento, a questo punto più che altrove, appare superfluo. Come detto nell’introduzione, due cose paiono inutili e poco intelligenti: parafrasare una poesia e spiegare una barzelletta. E una terza sa addirittura di profanazione: commentare queste parole di Gesù, la cui bellezza va oltre il sublime. Il farfugliare confuso, che su di esse si può fare, vuole soltanto essere un segno, più importuno del solito, per richiamare l’attenzione al testo – un po’ come il gracchiare del corvo sul luogo dove banchetta il re e c’è sazietà per tutti, anche per i suoi simili.

Ciò che il Figlio ci lascia in eredità è il suo stesso rapporto con il Padre. Le sue parole sono una preghiera: si rivolge a quel «Tu» che fa esistere l’io. Si tratta di un dialogo tra il tu del Padre e l’io del Figlio, non tra l’io e il tu. Prima dell’io c’è sempre il tu, in relazione al quale mi viene la mia identità.

Gesù è il Figlio amato che ama dello stesso amore il Padre e i fratelli: il suo sguardo è rivolto insieme al cielo e alla terra, al Padre e a tutti i suoi figli. La sua carne di Figlio dell’uomo infatti lo rende solidale con ogni uomo. Per questo i poli del dialogo sono tre: «Tu», «io» ed «essi». Insieme al Padre e al Figlio siamo coinvolti anche noi, che alla fine diventeremo «uno» con lui e con il Padre, nell’unico amore.

Il Vangelo di Giovanni contiene altre due preghiere di Gesù al Padre. Nella prima, davanti a Lazzaro morto (11,41s), lo ringrazia in anticipo di fronte a tutti, perché chi lo ascolta creda in lui come inviato dal Padre e veda la gloria di Dio (11,40; cf. 11,4). Nella seconda, davanti alla propria morte imminente, gli chiede di glorificare il suo nome (cf. 12,27s). Anche questa terza e ultima, molto più lunga e articolata, ha come argomento la gloria del Padre e del Figlio, che ormai è comunicata ai fratelli.

Ciò che la preghiera chiede, è donato nella preghiera stessa. La glorificazione di Gesù avviene «adesso», mentre è in dialogo con il Padre. Anche quella dei suoi non avverrà solo dopo la morte, in un futuro imprecisato. Accade al presente: chi aderisce a lui e prega in lui, partecipa alla gloria che lui da sempre ha presso il Padre.

Fin dall’antichità è stata chiamata la «preghiera sacerdotale». La denominazione è vera, ma qui i sacrifici sacerdotali lasciano il posto all’agnello di Dio che toglie il peccato del mondo (1,29). Nella carne di Gesù, Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, ogni carne è in comunione diretta con Dio.

Questa preghiera può essere letta come la versione giovannea del «Padre nostro»: è una lode al Padre, seguita da varie richieste, nella quale Giovanni elabora e approfondisce i dati della tradizione. Se la si confronta con il «Padre nostro» di Mt 6,9b-13, si ritrovano numerose corrispondenze. Dio è invocato come «Padre» sei volte (vv.1.5.11.21.24.25; cf. Mt 6,9b) e ha come dimora «il cielo» (v. 1, cf. Mt 6,9b). Si parla del suo «nome» (vv. 6.11.12.17.19.26; cf. Mt 6,9c) e si ricorda il dono della vita eterna (vv. 2-3), che equivale a «Venga il tuo regno» (Mt 6,l0a). «Voglio che, dove sono io, anch’essi siano accanto a me, ecc.» (v. 24) richiama «Sia fatta la tua volontà, come in cielo così in terra» (Mt 6,l0b). L’insistenza sul verbo «dare» (ricorre diciassette volte: vv. 2trisA.6bis.7.8bis.9.11.12.14.22bis.24bis) richiama «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» (Mt 6,11). Si menziona la rottura col mondo, l’osservanza della Parola, l’appartenenza al Figlio e al Padre (vv. 6-11) e l’unità nell’amore (vv. 20-23), che esplicitano il significato del perdono ricevuto e accordato (cf. Mt 6,12a.12b). Si chiede infine l’aiuto nella tentazione; perché nessuno si perda (v. 12; cf. Mt 6,13a), e la custodia dal maligno (v. 15; cf. Mt 6,13b).

Nella preghiera del Figlio è presente ogni fratello, che, in lui e con lui, si rivolge al Padre con il suo stesso amore. Il Padre, al quale Gesù si rivolge, è più che mai «nostro». Tutto ciò che uno desidera, gli è già dato se prega così. Da qui l’insistenza sul verbo «dare». Esso caratterizza il rapporto tra Padre e Figlio e il nostro rapporto con il Figlio stesso, che ci «dà» se stesso come vero pane di vita.

Pur avendo appena parlato della defezione dei discepoli (cf. 16,32), Gesù li considera fedeli. La sua fedeltà di Figlio dell’uomo a Dio e di Figlio di Dio all’uomo è la fonte indefettibile del nostro essere figli e fratelli.

Con questa preghiera Gesù dà la chiave per entrare nel mistero della sua passione e ne anticipa i frutti. Gli avvenimenti che seguono scaturiscono dal suo amore per il Padre e per noi. Gesù si affida totalmente al Padre, sapendo che farà brillare in lui e in noi la sua gloria. È la Gloria, che egli da sempre ha come Figlio di Dio, alla quale ora torna come Figlio dell’uomo.

Non è facile articolare il testo. Si possono seguire criteri diversi, rilevando aspetti diversi. Senza mai dimenticare che in ogni testo la singola parte gioca in connessione con il tutto, proponiamo l’articolazione più usuale. I vv. 1-5 sono una preghiera al Padre, con la richiesta della glorificazione sua e del Padre, e della nostra in lui; i vv. 6-23 sono un’intercessione per quanti credono e crederanno nel Figlio; i vv. 24-26, conclusivi, sono un bilancio della vita di Gesù alla luce della Gloria, che ormai si sta svelando compiutamente.

L’argomento dei vv.1-5 è appunto la Gloria. All’inizio Gesù chiede al Padre di glorificare il Figlio, perché il Figlio glorifichi il Padre (v. 1); alla fine dice di aver glorificato il Padre e gli chiede di glorificarlo della sua gloria eterna di Figlio (vv. 4-5); al centro spiega che la glorificazione di ambedue consiste nel fatto che il Figlio ha ricevuto dal Padre di dare ai fratelli la vita eterna, cioè la conoscenza del Padre e del Figlio (vv. 2-3). Il sostantivo «gloria» ricorre una volta, il verbo «glorificare» quattro volte. Si tratta della gloria comune del Padre e del Figlio: la gloria dell’amore. Essa si manifesta nell’umanità di Gesù, Parola diventata carne, che la comunica a ogni carne. In lui, il Figlio, ogni uomo conosce Dio come Padre: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (14,9).

La croce glorifica il Padre che, nel Figlio, si manifesta come amore per tutti. A sua volta glorifica anche Gesù, mostrandolo come Figlio uguale al Padre. Infine glorifica anche noi, suoi fratelli. Infatti la glorificazione, che Gesù chiede per sé, non è tanto il culto che gli renderanno i credenti, quanto il suo stesso ritorno al Padre, con il quale ci consegna lo Spirito che ci fa figli. La Parola, diventando carne, è entrata nello spazio e nel tempo per aprire ogni spazio e tempo alla Gloria.

I verbi «dare», «glorificare» e «compiere» richiamano il c. 13 (cf. 13,1.26.29. 31.32.34), che sta all’inizio dell’«ora»; contemporaneamente rimandano alla croce, dove tutto è compiuto (19,28.30).

Questi versetti iniziali saranno ripresi, con variazioni, nel finale (cf. vv. 24-26).

Gesù è il Figlio che ha rivelato al mondo il nome di Dio come Padre. Compiuta la sua missione, ritorna a chi l’ha inviato. Ma non se ne torna da solo, bensì come primogenito tra molti fratelli (cf. Rm 8,29b), grazie alla sua carne solidale con ogni carne.

Chiesa è la comunità di quelli che hanno visto la gloria dell’Unigenito: conoscendo lui e il Padre, hanno la vita eterna.

Tutti siano uno, come tu, Padre, in me e io in te
affinché conosca il mondo che tu mi mandasti
e li amasti come amasti me
17,6-23

«Tutti siano uno, come tu, Padre, in me e io in te, […] affinché conosca il mondo che tu mi mandasti e li amasti come amasti me» (vv. 21a.23b): il Figlio prega che i fratelli siano «uno» nell’amore, affinché possano essere suoi testimoni davanti al mondo.

Il brano è un ringraziamento per l’opera che il Padre gli ha dato da compiere e un’intercessione per i fratelli che la continueranno dopo di lui.

Questa preghiera, che si estende per tutto il c. 17, è il vertice della rivelazione di Gesù ai discepoli, direttamente coinvolti nel suo dialogo di Figlio con il Padre. Come precedentemente abbiamo detto, sei volte esce dalla bocca di Gesù la parola «Padre» (vv. 1.5.11.21.24.25), in attesa che ciascuno di noi dica in lui: «Padre nostro». Questa settima invocazione spetta a noi. È l’atto che ci rende «liberi».

Liberi, in latino, significa figli, la parte libera della famiglia in contrapposizione agli schiavi. Diventando figli del Padre e fratelli tra di noi, glorifichiamo così il suo nome sulla terra come in cielo.

Il Figlio benedice il Padre per ciò che in lui è già compiuto: la manifestazione della sua gloria al mondo. Insieme però anche chiede (vv. 9bis.15.20) – e vuole (v. 24) ciò che chiede – che i suoi vivano e testimonino ciò che in lui è già compiuto.

Tra poco Gesù se ne va al Padre; ma non ci lascia orfani (14,18). Dona a ogni fratello il suo volto di Figlio: gli consegna la sua gloria, la sua stessa conoscenza del Padre. A questo dono corrisponde il libero assenso di chi lo accoglie, oppure la resistenza e l’odio del mondo, non ancora conquistato dall’amore.

Questa preghiera è «un’eucaristia cosmica». In gratitudine al Padre, il Figlio fa memoria dell’opera da lui compiuta, che prosegue nel tempo attraverso i suoi fratelli, fino a raggiungere «tutti». Perché tutti, mediante la testimonianza dell’amore, saranno attirati a lui (cf. 12,32). Il destino del mondo è la manifestazione della Gloria: l’amore del Padre e del Figlio, progressivamente ma inarrestabilmente, brillerà nel cuore e sul volto di ogni uomo. Di questo Gesù ringrazia; di questo anche noi ringraziamo, facendo memoria della sua glorificazione.

Il fatto che già la comunità dei discepoli partecipi alla Gloria, non comporta un trionfalismo mondano: è il trionfo dell’amore, di un Dio che si fa servo dell’uomo.

Al centro della preghiera c’è l’ «essere uno» dei discepoli, presenti e futuri. È il dono del Figlio, che ci rende figli e fratelli. Mentre Gesù se ne va, i discepoli restano «nel» mondo. Ma non sono «dal» mondo: sono proprietà di Dio (vv. 6.9), appartengono al Padre come figli e al Figlio come fratelli.

Questa preghiera, con richiami stilistici e tematici a 1,1-18, è come un prologo che anticipa l’innalzamento di Gesù, dove Dio esprime la sua gloria. Esprimere significa spremere-fuori: il Figlio spreme-fuori di sé, in noi, la sua essenza di Figlio del Padre. La Parola, da sempre, precede e crea ciò che poi avviene nel tempo.

Su 500 parole che ricorrono in questa preghiera, 100 sono dei verbi. Il verbo indica azione. La relazione Padre/Figlio, comunicata a noi, è dinamica e attiva, come la vita. Predomina il verbo «dare» (17 volte): ogni relazione d’amore è un dare, fino al dono di sé. I verbi al passato indicano l’azione terrena di Gesù, ormai compiuta. Da questa scaturiscono i verbi al presente e gli imperativi, che indicano come l’azione del Figlio sarà sempre presente attraverso quella dei suoi fratelli.

Come già detto nel brano precedente (cf. messaggio nel contesto), queste parole di Gesù sono una versione giovannea del «Padre nostro». Poste tra la cena e l’arresto, costituiscono anche una rilettura «gloriosa» del dramma Padre/Figlio, che gli altri Vangeli pongono nell’orto. Questa preghiera ci introduce nella passione, dandole il suo significato profondo e mostrandone i frutti. In Giovanni tutto è visto dalla fine. Il fine, «ultimo» nell’esecuzione, è sempre «primo» nell’intenzione di chi lo persegue.

Alla luce di questa preghiera, comprendiamo il senso profondo della storia e dei suoi attori dal punto di vista di chi l ‘ha messa in moto. Al principio c’è «il Padre» che «dà» tutto al «Figlio» e lo «glorifica», «custodendo» e «santificando nella verità» i suoi discepoli; il Figlio, a sua volta, «dà» ai discepoli «vita eterna», le sue «parole», la «Parola» e la «Gloria», «manifestando» e «facendo conoscere» il «nome» del Padre, perché giungano a «essere uno» tra di loro, con lui e il Padre, partecipando alla sua «gioia completa» di Figlio, affinché «il mondo» (nominato ben 18 volte) lo «conosca» come il Figlio «mandato» a «manifestare» l’ «amore» del Padre. Queste semplici parole racchiudono insieme il destino della terra e del cielo, del tempo e dell’eternità: l’universo intero è attirato e pervaso dalla Gloria. Alla fine tutti saremo figli, conosceremo l’amore del Padre e potremo dire: «Abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi. Dio è amore; chi sta nell’amore dimora in Dio e Dio dimora in lui» (1Gv 4,16). Il fine e il mezzo della missione, sia per Gesù che per i suoi discepoli, è sempre e solo l’amore.

L’unità dei discepoli è vista come un dono: non è da costruire, ma da accogliere e custodire. Anche se noi siamo infedeli, l’amore e l’alleanza di Dio non vengono mai meno. Anzi, la nostra infedeltà evidenzia allo stato puro la sua fedeltà indefettibile.

La divisione tra i cristiani è «il grande peccato»: l’uccisione del corpo di Cristo.

Noi cristiani delle varie Chiese, se non ci riconosciamo a vicenda, perpetuiamo l’assassinio di Caino. Abele, il fratello rifiutato e ucciso, è il Figlio che ci ama come il Padre, fino a dare la vita per noi. Non c’è filialità senza fraternità e non c’è fraternità senza rispetto dell’altro. La filialità è negata da chi pretende di essere l’unico figlio e non riconosce il fratello nella sua differenza da lui. Quanto vale per il rapporto tra le varie Chiese, vale a maggior ragione per il rapporto tra la Chiesa e Israele.

Il nostro essere «uno» nell’amore -l’unione d’amore è sempre nella distinzione, mai nella soppressione dell’altro – rivela al mondo il nome di Dio come Padre e compie il suo disegno di salvezza. Questo è ostacolato dalle nostre divisioni. Il diavolo, diviso re per definizione, ha da sempre cercato di dividere gli uomini. Il suo metodo usuale è unire «contro» qualcuno, straniero o eretico, cattivo o diverso. Oggi anche se favorisce la solidarietà contro «l’asse del male», costituita da quanti si oppongono ai nostri interessi – preferisce agire con la confusione più che con la divisione: unisce gli uomini in un frullatore, omologando e omogeneizzando tutto, anche gli opposti. Infatti suscita in loro gli stessi desideri e propone un unico modello, ben diverso dal Pastore bello che dà la vita (cf. 10,1-21).

Comunione e distinzione si oppongono a divisione e confusione come vita e morte. In una persona viva testa e corpo sono uniti, ma distinti; se per caso sono divisi o con-fusi, è capitato un incidente mortale. La globalizzazione, processo culturale inevitabile, può essere sotto il segno dell’omogeneità imposta o della diversità accolta.

Diceva un uomo saggio che la Chiesa non è fatta di mattoni, possibilmente della stessa argilla e di uguale cottura. È fatta di «pietre vive» (1Pt 2,5), tutte diverse; ognuna è presa com’è e lavorata per essere posta accanto alle altre. Sull’unità nell’amore è sempre esemplare il testo di 1Cor 12-13. Un’unione viva e vitale tra le persone, le Chiese e i popoli, esiste solo se mantiene distinzione e alterità. In questo si gioca non solo l’essenza della Chiesa e la credibilità della sua missione: è in gioco il destino stesso dell’uomo e della sua umanità.

Il testo, incentrato sul tema dell’unità, si articola in due parti diseguali. La prima è una richiesta al Padre per la comunità presente (vv. 6-19), la seconda per la comunità futura (vv. 20-23). Ambedue iniziano ricordando l’adesione al Figlio, frutto, rispettivamente, della sua testimonianza (vv. 6-8) e di quella dei suoi discepoli (v. 20). La preghiera di Gesù, anche stilisticamente, è come il moto di un’onda spinta dal vento che si propaga, ravvivando successivamente tutta l’acqua del mare. Le numerose ripetizioni, sia nel testo che nel commento, non sono superflue: sono un continuo ritorno alle parole di Gesù, perché rimangano impresse in chi ascolta.

Gesù è inviato al mondo per manifestare il «Nome»: è il Figlio che ci mostra il Padre, amandoci con lo stesso amore con il quale è amato da lui.

L’amore del quale amasti me sia in loro e io in loro
17,24-26

«L’amore del quale amasti me sia in loro e io in loro». Sono le ultime parole di Gesù prima della passione. In essa ci comunicherà l’amore con il quale il Padre ama lui; così anche noi lo ameremo e lui sarà in noi come noi da sempre siamo in lui.

Si sottolinea il nesso tra gloria e amore, che sottende la seconda parte del Vangelo. Infatti la Gloria, la bellezza assoluta che fa sì che Dio sia Dio, è l’amore tra Padre e Figlio. È quanto il Figlio dell’uomo innalzato riverserà su chiunque lo contempla.

Gesù non solo chiede (cf. vv. 9.15), ma anche vuole (cf. v. 24): la sua volontà di Figlio è la stessa del Padre che l’ha inviato al mondo per far conoscere il suo amore e salvarlo (cf. 3,16). Non è velleitarismo: il suo «voglio» (v. 24) è davvero l’erba che cresce nel giardino di quel re che ha potere su ogni cosa (v. 2). La volontà del Padre e del Figlio sono in perfetta sintonia: il loro amore reciproco vuole donarsi a ogni creatura.

In Mc 14,36p Gesù sostiene una lotta per dire al Padre: «Non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu». È la sua pasqua interiore, il passaggio dalla volontà dell’uomo a quella del Dio amore. In Giovanni, che guarda con occhio retrospettivo, questa tensione, appena accennata in 12,27 per indicarne il superamento, è ormai risolta nella Gloria.

Il nostro futuro di discepoli è sicuro, perché ancorato al «voglio» del Figlio che è lo stesso del Padre: nessuno ci strapperà dalla sua mano (cf.10,28s). In quest’ottica si capiscono gli inni delle lettere agli Efesini e ai Colossesi, che cantano il mistero dell’universo in Dio e di Dio nell’universo, creato attraverso il Figlio, in lui e per lui, principio e fine di ogni esistenza (cf. Ef 1,3-14; Col 1,15-20).

Nel finale della preghiera il Padre è invocato due volte (vv. 24.25), come all’inizio (vv. 1.5). Queste ultime battute, simili alle prime, sono una sintesi dell’intercessione di Gesù (v. 24) e di tutta la sua opera (vv. 25-26).

Il Figlio «vuole» che i suoi discepoli – e, attraverso la loro testimonianza, tutti gli uomini – siano dove lui è, presso il Padre, per contemplare la sua gloria. Questo è il fine della sua missione, ormai al compimento. Anche se il mondo non conosce il Padre, e per questo rifiuta il Figlio, Gesù ha conosciuto il Padre e si è rivelato ai discepoli come il Figlio che lo manifesta. Lo farà conoscere compiutamente nella sua glorificazione in croce, quando consegnerà loro l’amore estremo che il Padre ha per lui. Allora anche il Figlio sarà in loro. Sarà la sua glorificazione piena, che d’ora in poi continuerà nella storia, grande e piccola: sarà la sua presenza nei fratelli, che si amano del suo stesso amore.

Essere «dove» è Gesù, «accanto a» lui, per contemplare la sua gloria, è una realtà presente oppure solo futura, dopo la nostra morte o, addirittura, dopo il suo ritorno?

Per Giovanni è la condizione attuale di chi ama Gesù, di chi vive e crede in lui.

Essa però conosce un cammino: cresce nel corso della storia personale e universale, per raggiungere il suo compimento, che è il fine di tutto al di là della fine di tutto. È l’unione mistica del discepolo con Gesù, «il mio Signore e il mio Dio!» (cf. 20,28). In questa unione con lui la morte perde il suo pungiglione (cf. 1Cor 15,56) e diventa «insussistente». Infatti Gesù ha detto: «Chi vive e crede in me, non morirà in eterno» e «anche se muore, vivrà» (11,26.25). Uniti a lui come il tralcio alla vite (cf. 15,lss), «sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui» (1 Ts 5,10). Per noi, come per lui, la morte sarà il cambiamento di domicilio, il trasferirci da questo mondo al Padre, compimento dell’amore e svelamento della Gloria (cf. 13,1ss).

Gesù vuole che noi siamo con lui dove è lui, presso il Padre. Ci fa conoscere il suo nome, perché il suo amore sia anche in noi.

Chiesa è la comunità dei fratelli che ha contemplato, riconosciuto e ascoltato, nella carne di Gesù, la gloria del Figlio (1,14; cf. 1Gv 1,1-4): l’amore del Padre, concesso in lui a ogni uomo.