IV Domenica di Pasqua (A)
Giovanni 10,1-10

In quel tempo, Gesù disse: «In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei». Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro. […]

(Letture: Atti 2,14.36-41; Salmo 22; 1 Pietro 2,20-25; Giovanni 10,1-10)

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Il pastore che conduce verso la vita senza confini
Ermes Ronchi

Sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza. Per me, una delle frasi più solari di tutto il Vangelo. Anzi, è la frase della mia fede, quella che mi seduce e mi rigenera ogni volta che l’ascolto: sono qui per la vita piena, abbondante, potente. Non solo la vita necessaria, non solo quel minimo senza il quale la vita non è vita, ma la vita esuberante, magnifica, eccessiva; vita che rompe gli argini e tracima e feconda, uno scialo, uno spreco che profuma di amore, di libertà e di coraggio.
Così è Dio: manna non per un giorno ma per quarant’anni nel deserto, pane per cinquemila persone, pelle di primavera per dieci lebbrosi, pietra rotolata via per Lazzaro, cento fratelli per chi ha lasciato la casa, perdono per settanta volte sette, vaso di nardo per 300 denari.
«Gesù non è venuto a portare una teoria religiosa, un sistema di pensiero. Ci ha comunicato vita ed ha creato in noi l’anelito verso più grande vita» (G. Vannucci).
Il Vangelo contiene la risposta alla fame di vita che tutti ci portiamo dentro e che ci incalza.
Il primo gesto che caratterizza il pastore vero, datore di vita, è quello di entrare nel recinto delle pecore, chiamare ciascuna per nome (Gesù usa qui una metafora eccessiva, illogica, impossibile per un pastore “normale”, ma il gesto sottolinea il di più, l’amore esagerato del Signore) e poi di condurle fuori.
Gesù porta le sue pecore fuori dal recinto, un luogo che dà sicurezza ma che al tempo stesso toglie libertà. Non le porta da un recinto ad un altro, dalle istituzioni del vecchio Israele a nuovi schemi migliori. No, egli è il pastore degli spazi aperti, quello che lui avvia è un processo di liberazione interminabile, una immensa migrazione verso la vita. Per due volte assicura: «io sono la porta», la soglia sempre spalancata, che nessuno richiuderà più, più forte di tutte le prigioni (entrerà e uscirà e troverà…), accesso a una terra dove scorrono latte e miele, latte di giustizia e innocenza, miele di libertà. Più vita.
La seconda caratteristica del pastore autentico è quella di camminare davanti alle pecore. Non abbiamo un pastore di retroguardie, ma una guida che apre cammini e inventa strade. Non un pastore che grida o minaccia per farsi seguire, ma uno che precede e convince, con il suo andare sicuro, davanti a tutti, a prendere in faccia il sole e il vento, pastore di futuro che mi assicura: tu, con me appartieni ad un sistema aperto e creativo, non a un vecchio recinto finito, bloccato, dove soltanto obbedire. Vivere è appartenere al futuro: lo tiene aperto lui, il pastore innamorato, «il solo pastore che per i cieli ci fa camminare» (D. M. Turoldo).

Avvenire 

Pastori come ladri…
Enzo Bianchi

Leggendo i vangeli abbiamo messo più volte in evidenza che Gesù era un uomo che sapeva vedere, osservare cose, azioni ed eventi quotidiani, e su di essi pensava, per trarre dalla realtà consolazione e lezione. Soprattutto le parabole sono per noi una testimonianza del modo di vedere e di pensare di Gesù, della sua capacità di applicare il quotidiano anche nell’annuncio della buona notizia. Gesù non consegnava verità preconfezionate, formule dottrinali, ma a volte consegnava parole di sapienza, a volte alzava il velo su molti enigmi umani e mondani: tutto questo per farci conoscere Dio suo Padre, il suo Dio, il Dio autentico, e farci conoscere se stesso.

Nel vangelo odierno Gesù sta parlando ai farisei, che gli hanno contestato la guarigione in giorno di sabato di un uomo cieco dalla nascita (cf. Gv 9,1-41). Essi si sentono guide e pastori rispetto al popolo di Dio, perché interpretano la sua parola e sanno insegnarla, dando anche l’esempio esterno di una vita condotta in osservanza alla Legge. Sono abilitati a questo ministero? Hanno veramente l’autorevolezza (exousía) per essere pastori del gregge? Gesù con molta convinzione – espressa anche dall’“Amen, amen” iniziale – consegna loro un’osservazione: dove c’è un ovile, c’è una porta attraverso la quale entra ed esce il pastore, e dietro a lui le sue pecore. Su quella porta egli vigila, veglia per proteggere il gregge. Ma a volte qualcuno scavalca il recinto proprio per portare via le pecore: è il ladro, il brigante che vuole strappare le pecore al loro pastore per fini di lucro, di accrescimento del proprio gregge. Ecco la differenza tra pastore vero e ladro, tra chi vuole il bene delle pecore e chi di esse vuole semplicemente servirsi.

Ecco allora nelle parole di Gesù il ritratto del pastore vero e buono: entra ed esce attraverso la porta, è riconosciuto dal guardiano che gli apre la porta; le pecore riconoscono la sua voce, perché il pastore le conosce, le chiama ciascuna per nome e sa condurle su pascoli erbosi (cf. Sal 23,2), precedendole per custodirle dai pericoli e dagli attacchi dei lupi. C’è un legame reciproco tra pecore e pastore, dovuto all’azione di quest’ultimo: egli le chiama ed esse si sentono riconosciute, le guida ed esse si sentono protette, le precede ed esse si sentono orientate. Il rapporto delle pecore con il pastore è questione di vita, e dunque tra loro si instaura un legame di appartenenza e di riconoscimento. Un estraneo che entra nel recinto, invece, spaventerà le pecore che non lo conoscono, le quali fuggiranno fino a disperdersi, come sempre avviene quando manca il pastore.

Il discernimento tra pastore legittimo e pastore usurpatore e ladro non è sempre facile nella vita della chiesa. Le parole di Gesù sono un severo ammonimento, ma nei fatti quanti sono i pastori estranei o addirittura mercenari? Estranei perché non vivono “in mezzo al popolo di Dio”, non sono conosciuti nella loro vita privata, e lontani dal gregge che non li riconosce se non come funzionari: amministratori, manager, ispettori, ma non pastori… Questa purtroppo è una patologia più diffusa di quanto i fedeli possano accorgersi e avere consapevolezza.

Ma Gesù aggiunge un’altra osservazione. Con un rinnovato, duplice “amen”, dichiara non solo di essere il buon pastore, il pastore autentico del popolo di Dio, ma guardando al passato si comprende anche come la porta dell’ovile. Gesù è la porta per i pastori che lo hanno preceduto in questo servizio: se non sono passati attraverso di lui, sono stati ladri e assassini, sono stati i cattivi pastori nominati soprattutto da Geremia (cf. Ger 23,1-6) ed Ezechiele (cf. Ez 34,-31); pastori che le pecore, anche grazie all’ammonimento dei profeti, non hanno ascoltato. È dunque necessario essere istituiti pastori attraverso di lui, che li legittima a entrare e uscire dall’ovile, a guidare le pecore verso pascoli abbondanti.

Gesù parla di briganti (lestaí), di assassini che non vogliono la vita in abbondanza delle pecore, ma vogliono semplicemente possederle e servirsene, mentre parla di se stesso come di un pastore venuto perché gli uomini “abbiano la vita in abbondanza”, nella libertà e nella giustizia. Eppure proprio nel vangelo secondo Giovanni durante la passione di Gesù le folle, poste di fronte alla scelta tra Barabba, un brigante (lestés: Gv 18,40), e Gesù, il pastore buono, sceglieranno il brigante, con il peso del loro essere maggioranza. Sarebbe necessario chiedersi quale pastore in verità noi abbiamo e come facciamo discernimento sui nostri pastori.

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“Ogni pecora si perde quando il pastore
la dà per persa, mai prima”
(Papa Francesco)

Gesù è a Gerusalemme per la festa delle capanne. E’ questa la festa del raccolto e della vendemmia, si celebra in autunno, a settembre e dura 8 giorni. E’ chiamata festa delle capanne perché si costruiscono delle capanne fatte di fogliame come quelle che si facevano negli orti al momento del raccolto. Queste capanne ricordano gli accampamenti di Israele nel deserto durante l’esodo ( Dt 16,13-15 e Num 29,12-39).

E’ una festa molto importante per gli ebrei, una delle tre grandi feste (Pasqua, Capanne e Pentecoste) ed è una festa che parla di liberazione, di “essere condotti fuori” e di abbondanza (raccolto, vendemmia), temi che, come vedremo, torneranno nel brano evangelico di oggi. Nei versetti precedenti a quelli che abbiamo letto oggi, Gesù, nel Tempio, aveva rivelato la sua identità: “Da Dio sono uscito e vengo. Non sono venuto da me stesso ma lui mi ha mandato”. “In verità, in verità vi dico, prima che Abramo fosse, Io sono” (Gv 8,42 e 8,58). Aveva guarito il cieco nato ed ora, nel brano di questa domenica, Gesù si dichiara il buon pastore e la porta delle pecore.

Quella del pastore era una immagine conosciuta e cara al popolo di Israele, come vediamo, per esempio, nel profeta Geremia, dove Dio stesso si dichiara il Pastore che radunerà le pecore disperse e poi costituirà “pastori che le faranno pascolare così che non dovranno più temere né sgomentarsi; di esse non ne mancherà neppure una” (23,1-4). Oppure nel Salmo 22: “Il Signore è il mio pastore, non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi giuda per il giusto cammino, per amore del suo nome”. (Sal 22, 1-3).

Gesù inizia il suo discorso con grande autorità: “In verità, in verità vi dico” (v 1);    = amen, amen, cioè: è proprio così!), segno che ci vuole dire qualcosa di importante, qualcosa che ci permette di conoscere Lui e il Padre ancora più da vicino.

Molte immagini troviamo in questi pochi versetti. La prima descrizione che abbiamo è quella del ladro e del brigante (v 1) che non passano dalla porta per entrare nel recinto delle pecore e che cercano di appropriarsi del gregge invece di custodirlo. E ancora al versetto 5 si parla di un estraneo dal quale le pecore fuggono e non lo seguono perché non conoscono la sua voce.

Tra questi due versetti (1 e 5) c’è il cuore del testo che ci parla di un pastore che arriva al recinto, trova un guardiano che gli apre e così lui entra nel recinto delle pecore.

La prima cosa che fa questo pastore è donare alle pecore la sua parola perché il testo dice che le pecore “ascoltano la sua voce” (v 3). Tra il pastore e le pecore c’è una grande intimità, una conoscenza profonda e una fiducia piena, infatti dice il testo: “le pecore ascoltano la sua voce” e poco dopo: “conoscono la sua voce” (v 3 e 4).

“Egli chiama le sue pecore ad una ad una” come se avessero un nome! Siamo davanti ad un pastore “speciale” perché i pastori non si prendevano certo la briga di dare i nomi alle pecore del gregge, ma qui Gesù vuole sottolineare che a questo pastore, che è lui stesso, ogni pecora è cara. Ognuna è riconosciuta. Il nome dice l’identità e l’unicità di ogni persona e conoscere l’altro per nome è conoscere la sua vita, è dire che la sua vita ci sta a cuore, ci è cara.

“Il pastore non è solo la guida, è anche il compagno di viaggio, per il quale le ore del gregge sono le sue ore, stessi i rischi, stessa la sete e la fame, identica la calura implacabile..” (G. Ravasi)

“Il pastore cammina davanti a loro e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce”: riconoscono la sua voce che le invita ad uscire. Uscire da dove? Cosa può rappresentare questo recinto? Possiamo pensare al passaggio dalla Legge dei padri, alla legge nuova dell’amore che  ci ha insegnato e lasciato Gesù. Questo pastore ci conduce verso nuovi pascoli, in nuovi spazi, davanti a nuovi orizzonti dove l’amore è la prima e l’ultima parola. Gesù ci invita ad uscire dai nostri sguardi piccoli, angusti; spazi di egoismo e di auto- referenzialità per aprirci all’altro, al fratello. Il pastore ci conduce nella fertile terra della condivisione, del dono e della consegna di sé.

Questo pastore parla, chiama, conduce e cammina innanzi alle sue pecore.

E le pecore ascoltano, conoscono e seguono il loro pastore.

Ascoltare, condurre e custodire mi sembrano i tre verbi della relazione tra Dio e il suo popolo.

Dio ascoltò il grido degli israeliti “che erano oppressi nel paese d’Egitto” (Es 3,7). La storia tra noi e Dio inizia dall’ascolto da parte di Dio del nostro grido di dolore, dall’ascolto delle nostre sofferenze, delle nostre fatiche….

Il suo orecchio non può rimanere sordo al grido dei suoi figli!

“Condusse il suo popolo nel deserto” fino alla terra promessa (Sal 136,16). E’ questa l’immagine di un Dio che non si stanca di farsi accanto ai passi dell’uomo anche quando questo prende strade tortuose o sbagliate, ma che sempre cerca di condurlo “sulle vie della vita”.

In tutta la storia della salvezza Dio si farà vicino al suo popolo per custodirlo attraverso i profeti, segni indicatori della via buona da seguire, fino a Giovanni Battista, per poi donarci addirittura il suo Figlio.  “Manderò mio figlio, lui lo ascolteranno….” ( cfr Mt 21,33-39).

La Chiesa ci propone questo brano dopo la grande festa della Pasqua. Abbiamo passato da poco la settimana del dolore per il distacco da Gesù, dal nostro Maestro che è morto ed è stato deposto in un sepolcro e ci è sembrato che la nostra storia con Lui fosse finita, che la morte avesse avuto l’ultima parola..

Invece poi “..alcune donne delle nostre ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro…” ci hanno detto che la sua tomba era vuota e affermano che egli è vivo (Lc 24,22-23); e Maria Maddalena lo ha visto (Gv 20,11-19) e poi i due discepoli di Emmaus (Lc 24, 13-15), e si è mostrato ai suoi apostoli più volte…..

E allora il dolore si è trasformato in gioia, la gioia più grande e inaspettata che possa esserci!

Da allora noi sappiamo bene Chi seguiamo: Colui che “abbiamo visto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che la nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita” (1 Gv 1,1).

Cosa abbiamo visto? Chi abbiamo visto?

Abbiamo visto un uomo, il nostro Maestro, Gesù, donare la sua vita per noi. Siamo stati con Lui tre anni e in questo tempo ci ha dato tanto: ci ha istruito, ci ha guarito, ci ha consolato, ci ha fatto conoscere il Padre…. fino ad arrivare a morire per noi.

E’ quell’amore che ascoltiamo e seguiamo.

Chi seguiamo? Di chi ci stiamo fidando nel cammino della vita?

Di un Dio che arriva a lasciare morire il suo Figlio primogenito per amore di nuovi figli che, in Gesù, chiama alla relazione con Lui.

Poi Gesù, siccome  i suoi “non capirono cosa significava ciò che diceva loro” (v. 7), aggiunge (ancora con grande autorità: “Io sono la porta delle pecore”. La vera porta per entrare nella relazione col Padre è il Cristo che dà la sua vita. Al Padre si giunge solo attraverso l’amore del Figlio. Passare attraverso di Lui, attraverso la sua vita donata, salverà la vita dei discepoli perché: “Chi vorrà salvare la propria vita la perderà e chi perderà la sua vita per causa mia, la troverà” (Lc 9,24).

Entrare in quell’amore per entrare nell’Amore! Ogni altra via per arrivare al Padre è la via dei ladri e dei briganti, è la via degli scribi e dei farisei che “impongono pesi insopportabili e impediscono agli altri di entrare e non entrano essi stessi nella comunione con Dio” (Mt 23,4.13).

Entrare nella vita passando attraverso la porta che è Gesù, ci permette di vedere la realtà con occhi nuovi, dove al primo posto non c’è più l’IO, ma il TU: il “Tu” di Dio e il “tu” del fratello.

San Francesco ha cantato in modo mirabile questo Tu di Dio nella preghiera: “Lodi all’Altissimo”. “Tu sei santo, Signore…., Tu sei il bene…, Tu sei amore…, Tu sei bellezza, sicurezza…, Tu sei la nostra dolcezza e la nostra vita eterna…” (cfr. FF 261).

E il “tu” del fratello è nelle parole di Gesù che dice: “Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici” (Gv 15,13).

Seguiamo questo Pastore buono, che ogni giorno si dona a noi nel segno del pane spezzato; ascoltiamo la sua voce e seguiamolo nelle vie della vita e, con Lui, andiamo incontro ai fratelli che attraversano con noi le strade di questo mondo, sempre amato e custodito dal e nel cuore del Padre.

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I ‘sorveglianti’ della felicità

La dura invettiva di Gesù nei confronti del potere religioso del suo tempo, credo dica qualcosa ai cristiani di oggi. A tutti coloro che rischiamo di rimanere sempre all’ingresso della felicità, per colpa di tristi ‘guardiani’, che attraverso l’arma della paura, fanno credere loro di essere sempre fuori luogo, inadatti e inadeguati, costringendoli a rinunciare ad entrare nel luogo della festa. Certo, molti cristiani avranno la responsabilità di aver dato credito a questi ‘terroristi della paura’, ma la colpa più grave sarà proprio dei ‘sorveglianti della felicità, coloro che ne impediscono l’entrata, in virtù di leggi, prescrizioni e invenzioni: «Bene ha profetato Isaia di voi, ipocriti, come sta scritto: Invano mi rendono culto, insegnando dottrine che sono precetti di uomini» (Mc 7, 7). Gesù è venuto perché questi mestieranti della paura, si dissolvano e le persone abbiano finalmente accesso alla felicità.

Gesù ha detto che non v’è bisogno di guardiani al nostro cuore, perché questo conosce perfettamente qual è la strada al suo compimento. I guardiani posti ‘in nome di dio’ dinanzi alla porta della felicità, cui occorre implorare di entrare, magari dando in sacrificio tutto ciò che di più prezioso si possiede, non hanno nulla a che fare con Dio. «Guai a voi, dottori della Legge, che avete portato via la chiave della conoscenza; voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare voi l’avete impedito» (Lc 11, 52).

Chi esercita il potere, da sempre, lo fa sempre occupandosi di ‘tutti’, come un unico indistinto, confondendo il singolo con la massa. Invece Gesù dice che il vero pastore ‘chiama le sue pecore ciascuna per nome, e le conduce fuori’. A Dio interessa il mio nome, perché io per lui sono unico. E questo amore non m’imporrà nulla, non mi tormenterà con inutili moralismi e imponendomi – certo a fin di bene – cosa fare in ogni aspetto della mia vita, come fossi sempre un infante. L’amore si limita a ‘condurre fuori’, verso orizzonti ampi e fecondi, fuori da sistemi oppressivi e direttivi. Il problema di come ‘guidare’ le persone è sempre stato, fin dall’inizio, il grande problema della Chiesa. Si possono guidare le persone come gli antichi faraoni e despoti teocratici, usando magari il pastorale come scettro e bastone, o alla maniera di Gesù che aveva un unico desiderio, trarre fuori le donne e gli uomini da recinti soffocanti verso la piena felicità.

Non c’è niente da fare, uno stile nel condurre le persone che non assomigli al suo, difficilmente condurrà alla felicità, ovvero alla nostra vita in pienezza, proprio quella che Gesù è venuto ad assicurarci, quella che ha il sapore di vita eterna. Perché lui, come ciascuno di noi, sa bene che “tutto ciò che si desidera è sempre dall’altra parte della paura” (Jack Canfield).

Paolo Scquizzato
https://www.paoloscquizzato.it

Il Buon Pastore chiama altri a divenire pastori buoni
Romeo Ballan

La quarta domenica di Pasqua è la “Domenica del Buon Pastore”, dato il brano odierno del Vangelo. Il Buon Pastore è una delle prime immagini usate dai cristiani nelle catacombe per rappresentare Gesù Cristo, molti secoli prima dell’immagine della croce e del crocifisso. La ragione di tale antichità risiede nella ricchezza biblica dell’immagine del pastore già nel Primo Testamento (cfr. Esodo, Ezechiele, Salmi…). Gesù si è identificato con il pastore: Io sono il buon pastore. L’evangelista Giovanni lo presenta con abbondanza di espressioni che indicano la relazione vitale tra il pastore e le pecore: entrare-uscire, aprire, chiamare-ascoltare, condurre, camminare-seguire, conoscere, pascolare… Fino all’identificazione di Gesù con la ‘porta’ (v. 7.9): porta di salvezza, che vuol dire ‘vita in abbondanza’ (v. 9.10). Infatti Gesù si autodefinisce il buon pastore che “offre la vita per le pecore” (v. 11). Da notare che il testo greco usa un sinonimo: il pastore ‘bello’ (v. 11.14), cioè il pastore ideale, buono, perfetto, che unisce in sé la perfezione estetica ed etica.

Egli offre la sua vita per tutti: ha anche altre pecore da attirare, fino a formare un solo gregge con un solo pastore (v. 16). Egli non rinuncia a nessuna pecora, anche se sono lontane o non lo conoscono: tutte devono entrare per la porta che è Lui stesso, perché è l’unico Salvatore. La missione della Chiesa si muove su questi parametri di oblazione e di universalità: vita offerta per tutti, il cammino verso l’unico gregge, la vita in abbondanza… Anche se il gregge è numeroso, nessuno è perduto nell’anonimato, nessuno è in più, anzi i rapporti sono intimi e personali: il pastore conosce le pecore, “chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori” (v. 3).

Gesù parla di un pastore che non sfrutta le pecore ma le aiuta a vivere ‘in abbondanza’; Egli critica duramente il comportamento dei capi religiosi del Tempio. In quel contesto Gesù mette l’accento per ben due volte sul fatto che il pastore conduce le pecore ‘fuori’ dal recinto (v. 3-4). Cioè fuori dall’atrio-recinto del Tempio. Perché Gesù si è trovato davanti ad una religione che non rendeva libere le persone, ma schiave: schiave di regole e leggi, schiave del potere religioso di scribi, farisei e sacerdoti, che Gesù chiama ‘mercanti del tempio’. Gesù non vuole sfruttatori, ghetti e divisioni. Gesù non è contro il tempio in sé stesso, ma lo vuole libero da ogni tipo di ‘mercanti’. Solo così il tempio continua a essere luogo importante per incontrare Dio, ascoltare la Sua Parola, celebrare l’Eucaristia, pregare insieme il Padre… Il tutto per ricevere luce e forza per poi uscire e incontrare Dio nella storia, nella vita quotidiana, nel lavoro, la famiglia, la malattia, il divertimento…, Per seminare ovunque gioia e speranza.

Gesù si oppone a quel potere che attraverso la religione disumanizzava le persone. Il Dio di Gesù Cristo non vuole donne e uomini schiavi maliberi, autonomi, responsabili; gioiosi di “adorare il Padre in Spirito e verità” (Gv 4,23); pronti nel far comunione con gli altri, generosi nel servire i più bisognosi. In questo nuovo stile di vita, inaugurato da Gesù, si capisce l’altra bella immagine con cui Gesù si presenta: “Io sono la porta” (v. 7.9). La porta della vita nuova: attraverso di Lui si entra in un nuovo stile di rapporti con Dio, con sé stessi, con gli altri, la cultura e la politica, il cosmo, e perfino la vita eterna… Gesù è la porta che ci regala la possibilità digustare veramente la vita. Egli afferma decisamente: Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza (v.10). Al centro del suo Vangelo Gesù mette la vita; prima ancora del peccato. Egli è venuto per darci la vita, per insegnarci a vivere: amandoci gli uni altri come Lui stesso ci ha amato.

L’amore appassionato con cui il buon pastore offre la sua vita per le pecore è descritto nelle letture: nella predicazione di Pietro il giorno di Pentecoste (I lettura), con l’invito alla conversione, al battesimo e ad accogliere il dono dello Spirito Santo (v. 38); così anche nella lettera dello stesso Pietro (II lettura), calcata sul quarto carme del Servo (Is 53). Cristo patì per noi, lasciandoci un esempio da seguire (v. 21); ci ha guariti con le sue piaghe. La famiglia umana, dispersa ed errante a causa del peccato, ha incontrato salvezza e unità in Cristo pastore e custode della vita di tutti (v. 25).

Seguire le orme del Buon Pastore è l’invito e l’obiettivo che si propone l’odierna Giornata Mondiale di Preghiera per le Vocazioni: il Signore continua a chiamare anche altri a condividere il suo destino e la sua missione per la vita dell’intera famiglia umana. Anche a rischio della vita, come nel caso frequente dei ‘missionari martiri’. Nel messaggio per l’odierna Giornata, Papa Francesco invita i chiamati, a confidare sempre nel Dio che ci chiama, perché Egli è presente e ci accompagna anche nella buia notte di tempesta.

La vocazione di speciale consacrazione (sacerdozio, vita consacrata, vita missionaria, servizi laicali…), trova solidità, gioia e libertà interiore (Gv 10,9) nell’esperienza personale del sentirsi amato e chiamato da Qualcuno che esiste prima di te. È un’esperienza fondante, che il teologo protestante Karl Barth, superando l’idealismo cartesiano, esprime così: “Cogitor, ergo sum” (sono pensato, quindi esisto). Il Salmo 22 esprime, con linguaggio di alta poesia, la sicurezza e la tranquillità interiore di chi pone la sua fiducia piena nel Signore, Buon Pastore (Salmo responsoriale). Papa Francesco esprime questa sicurezza in termini vitali e vocazionali: “Sono amato, dunque esisto; sono perdonato, quindi rinasco a vita nuova” (Misericordia et misera, n. 16). È questo il cammino per una vocazione sicura, radicale, duratura.