Liturgia
II Domenica di Pasqua (A)
Giovanni 20, 19-31
Domenica della Divina Misericordia

La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro: «Pace a voi!». Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. Gesù disse loro di nuovo: «Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi». Detto questo, soffiò e disse loro: «Ricevete lo Spirito Santo. A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati». Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Dìdimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: «Abbiamo visto il Signore!». Ma egli disse loro: «Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo». […]
Letture: Atti 2, 42-47; Salmo 117; 1 Pietro 1, 3-9; Giovanni 20, 19-31
Le ferite del Signore, quel segno eterno dell’amore
Ermes Ronchi
I discepoli erano chiusi in casa per paura. È un momento di disorientamento totale: l’amico più caro, il maestro che era sempre con loro, con cui avevano condiviso tre anni di vita, quello che camminava davanti, per cui avevano abbandonato tutto, non c’è più. L’uomo che sapeva di cielo, che aveva spalancato per loro orizzonti infiniti, è ora chiuso in un buco nella roccia. Ogni speranza finita, tutto calpestato (M. Marcolini). E in più la paura di essere riconosciuti e di fare la stessa fine del maestro.
Ma quegli uomini e quelle donne fanno una scelta sapiente, forte, buona: stanno insieme, non si separano, fanno comunità. Forse sarebbero stati più sicuri a disperdersi fra la folla e le carovane dei pellegrini. Invece, appoggiando l’una all’altra le loro fragilità, non si sbandano e fanno argine allo sgomento. Sappiamo due cose del gruppo: la paura e il desiderio di stare insieme.
Ed ecco che in quella casa succederà qualcosa che li rovescerà come un guanto: il vento e il fuoco dello Spirito. Germoglia la prima comunità cristiana in questo stringersi l’uno all’altro, per paura e per memoria di Lui, e per lo Spirito che riporta al cuore tutte le sue parole. Quella casa è la madre di tutte le chiese.
Otto giorni dopo, erano ancora lì tutti insieme. Gesù ritorna, nel più profondo rispetto: invece di imporsi, si propone; invece di rimproverarli, si espone alle loro mani: Metti, guarda; tendi la mano, tocca.
La Risurrezione non ha richiuso i fori dei chiodi, non ha rimarginato le labbra delle ferite. Perché la morte di croce non è un semplice incidente da superare: quelle ferite sono la gloria di Dio, il vertice dell’amore, e resteranno aperte per sempre.
Il Vangelo non dice che Tommaso abbia toccato. Gli è bastato quel Gesù che si ripropone, ancora una volta, un’ennesima volta; quel Gesù che non molla i suoi, neppure se l’hanno abbandonato tutti. È il suo stile, è Lui, non ti puoi sbagliare. Allora la risposta: Mio Signore e mio Dio. Mio, come lo è il respiro e, senza, non vivrei. Mio come il cuore e, senza, non sarei.
Perché mi hai veduto, hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto! Grande educatore, Gesù. Forma alla libertà, a essere liberi dai segni esteriori, e alla serietà delle scelte, come ha fatto Tommaso.
Che bello se anche nella Chiesa, come nella prima comunità, fossimo educati più alla consapevolezza che all’ubbidienza; più all’approfondimento che alla docilità.
Queste cose sono state scritte perché crediate in Gesù, e perché, credendo, abbiate la vita. Credere è l’opportunità di essere più vivi e più felici, di avere più vita: «Ecco io credo: e carezzo la vita, perché profuma di Te!» (Rumi).
Venuto a porte chiuse!
Don Angelo Casati
C’è un modo di raccontare la Risurrezione in qualche misura fantastico, miracoloso: un rovesciamento improvviso – quasi automatico delle situazioni – un cammino trionfante, dirompente. Così si racconta a volte la Risurrezione, e così si racconta a volte la Pentecoste: un rombo come di vento ed ecco le porte si aprono. Non dico che non ci sia del vero in questo modo di raccontare. E’ il modo di raccontare di chi corre in avanti e anticipa il futuro.
In realtà – se stiamo al vangelo che oggi abbiamo ascoltato – il cammino della risurrezione ci appare meno dirompente: conosce avvicinamenti, resistenze, pause, gradualità. C’è un po’ di enfasi in una certa predicazione che va sostenendo che come si fa presente Gesù, il Risorto, come viene lo Spirito, ecco le porte si aprono, si spalancano.
L’evangelista Giovanni dice che otto giorni dopo, otto giorni dopo la Risurrezione, le porte erano ancora chiuse! Eppure avevano visto il Signore fermarsi in mezzo a loro, avevano ricevuto lo Spirito: “Ricevete lo Spirito Santo” aveva detto, alitando su di loro. Ebbene le porte erano ancora chiuse! Le porte – le porte chiuse – sono come un simbolo: simbolo della durezza di una situazione, che ancora permane.
Noi oggi ci lamentiamo degli insuccessi della fede. Pensate ai discepoli, agli apostoli che non riescono a convincere uno di loro. Eppure erano stati testimoni oculari del Risorto, l’avevano sentito dire: “Pace a voi”. Aveva mostrato loro le ferite. E avevano gioito al vedere il Signore. Non erano riusciti. E le porte erano ancora chiuse: la povertà delle nostre parole a dire, a testimoniare, e la resistenza del cuore a credere. Le porte chiuse!
E questo Gesù, il Risorto, che viene a porte chiuse – non si vuol certo dire che viene alla maniera dei fantasmi -. Si vuol dire che nonostante i nostri ostacoli, nonostante le nostre resistenze, viene! Nonostante le nostre porte chiuse! E questo ci consola: tu, Signore, non ti fermi davanti alle nostre porte chiuse. E ci porti una parola di pace: “Pace a voi”. E ci mostri le mani e il costato. E c’è bisogno di pace. Voi mi capite, certo di una pace anche dalla guerra e non possiamo non guardare con preoccupazione il riaccendersi di focolai di guerra in questi giorni.
Ma c’è bisogno di pace dentro di noi, una pace che liberi anche noi – come un giorno gli apostoli – dalle paure, dalle paure che ci bloccano dentro. A volte mi capita di pensare che i discepoli erano barricati sì anche per la paura dei Giudei, ma forse erano anche barricati dentro da un’altra paura, ancora più devastante, che era la paura per come avevano reagito, per come si erano comportati nei giorni della cattura e della crocifissione del loro maestro.
Bloccati, come a noi succede, dalla delusione verso se stessi, una delusione che genera inquietudine, genera frustrazione, genera paura. E Gesù che, come prima parola, dice una parola di pace. E anche la Chiesa dovrebbe dire come prima parola sempre questa: non una parola di condanna, ma di pace: “Non temere, va in pace”.
Ed è sorprendente, ma anche ricca di significati, nel brano, la connessione tra pace e segno delle ferite. Disse loro: “Pace a voi”. Detto questo mostrò loro le mani e il costato. Disse: “Pace a voi”. Poi disse a Tommaso: “Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani, stendi la tua mano e mettila nel costato”. La visione di quelle ferite, che potrebbe ingenerare paura – la paura e lo sconforto per i nostri tradimenti – dà invece pace.
L’evangelista Giovanni ricorda il costato “metti la tua mano nel costato”. Non possiamo dimenticare che Giovanni, unico evangelista, ha parlato nel suo vangelo della lancia che ha aperto il costato del Signore sulla croce. Attraverso quella ferita – dicono i mistici – attraverso l’apertura del costato, tu hai accesso al cuore di Cristo: un territorio ora invaso, invaso da tutti, una dimora per tutti noi, una dimora di pace, per tutti. Le ferite, proprio perché vi leggi l’amore di un Dio che ci ha amati sino alla fine, quelle ferite, ci danno pace. Pace a voi. State in pace.
Non ci rimane tempo di indugiare su Tommaso, l’uomo del dubbio, il primo dei credenti. Una cosa però vorremmo – ancora una volta – sottolineare: che la chiesa degli inizi, per chiusa che fosse, non aveva chiuso la porta in faccia all’uomo del dubbio… non l’aveva messo alla porte. Il non credente, l’uomo del dubbio è in mezzo a loro. Un’accoglienza che -a mio avviso- ha qualcosa da suggerire alla chiesa di oggi.
(tratto da http://www.sullasoglia.it)
Domenica in albis
Enzo Bianchi
Siamo nell’ultimo capitolo del vangelo scritto dal discepolo amato, dove ci è data la testimonianza della resurrezione di Gesù da parte di Maria di Magdala, del discepolo amato stesso e degli altri discepoli, tra i quali Tommaso (il capitolo 21 è stato aggiunto dalla comunità del discepolo amato, tant’è vero che i vv. 30-31 del capitolo 20 costituiscono la conclusione del vangelo).
Sempre in quel “primo giorno della settimana”, il giorno della resurrezione e dunque il giorno del Signore (Dominus, da cui dies dominicus, domenica), alla sera i discepoli di Gesù sono ancora nella paura, chiusi in casa, nonostante Maria di Magdala abbia annunciato loro: “Ho visto il Signore!” (Gv 20,18). Dov’erano i discepoli? In quale casa? Non ci viene detto, ma l’evangelista sembra suggerirci che dove sono i discepoli, là viene Gesù. Così il lettore comprende che ogni primo giorno della settimana, nel luogo in cui lui si trova con altri cristiani, là viene Gesù risorto e vivente.
In quel giorno della resurrezione Gesù ha inaugurato un altro modo di presenza: sta in mezzo ai suoi non più come prima, uomo tra gli uomini, ma come Risorto vivente per sempre. È sempre lui, Gesù, il figlio di Maria, l’inviato da Dio nel mondo, ma ormai non più in una carne mortale, bensì in una vita eterna nello Spirito di Dio. Questa nuova presenza è più forte e più potente della presenza fisica, perché vince ogni porta chiusa e ogni muro, e diventa credibile, sperimentata, vissuta nel quadro di una vita fraterna, di una vita di comunione: la chiesa.
Gesù, dunque, venuto tra i suoi nella posizione centrale (“stette in mezzo a loro”) di chi presiede l’assemblea, saluta i suoi con la benedizione messianica: “La pace sia con voi!”, e nel consegnare la pace mostra loro il suo corpo piagato, le mani che portano i segni della crocifissione (cf. Gv 19,17) e il costato che aveva ricevuto il colpo di lancia (cf. Gv 19,34). Gesù è vivente, è risorto da morte, ma non cessa di essere il Crocifisso: quella morte, destino di ogni uomo ma anche morte violenta data a Gesù dall’ingiustizia di questo mondo, è stata da lui vissuta e assunta, fa parte della sua umanità ormai trasfigurata in Dio ma sempre presente, non cancellata né dimenticata. Sì, Gesù risorto è vita eterna, divina, ma anche vita umana trasfigurata, sicché ormai non è più possibile pensare a Dio, dire Dio, senza pensare anche all’uomo.
A questa percezione i discepoli gioiscono, realizzando le parole dette loro da Gesù prima della passione: “Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete … Un poco e non mi vedrete più; un poco ancora e mi vedrete … Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia” (Gv 14,19; 16,16.22). Gesù allora quale Risorto alita, soffia su quella comunità, gioiosa perché credente in lui, e li fa tutti inviati, apostoli. Inviati per cosa? Nel quarto vangelo questi discepoli resi apostoli sono inviati per dare agli uomini la possibilità di sperimentare la salvezza nella remissione dei peccati: rimettere i peccati, rimettere i debiti, perdonare, questo è il mandato missionario. Nient’altro, nient’altro! Perché questo è ciò di cui gli uomini hanno bisogno: il perdono, la remissione dei peccati, la cancellazione dei peccati da parte di Dio e da parte degli uomini loro fratelli.
A questa esperienza della presenza del Risorto da parte dei discepoli Giovanni aggiunge l’esperienza di uno dei Dodici: Tommaso, quel discepolo che aveva detto di voler andare a Gerusalemme per morire con Gesù (cf. Gv 11,16), ma che poi in realtà era fuggito come tutti gli altri. Tommaso non vuole credere, sulla parola dei suoi fratelli, alla presenza di Gesù risorto e vivente, ma otto giorni dopo, quando la comunità è nuovamente radunata nel primo giorno della settimana, egli è presente.
Ed ecco che, di nuovo, viene Gesù, sta in mezzo e dà la pace ai discepoli; poi si rivolge a Tommaso mostrandogli le mani bucate e il costato trafitto, i segni della passione in un corpo trasfigurato. Tommaso allora non può fare altro che invocare: “Mio Signore e mio Dio!”, pronunciando la confessione di fede più alta di tutto il quarto vangelo. Quel Risorto è Kýrios e Dio per la chiesa! Questo occorre credere senza aver visto nulla, ma accogliendo l’annuncio della comunità del Signore e il dono di Dio che rivela la vera identità di Gesù risorto per sempre. Per Tommaso toccare il corpo di Gesù è ormai diventato inutile, ed egli non lo fa, perché la contemplazione e l’incontro con i segni della passione trasfigurati gli bastano.
Ma l’operazione più difficile, per Tommaso come per noi, sta proprio nel vedere nei corpi piagati la potenza di una trasfigurazione che fa delle piaghe delle cicatrici luminose e piene di senso: non più segno di morte o di peccato, ma segno di guarigione e di vita per sempre.
Dall’incredulità alla fede
Clarisse Sant’Agata
Con questa Domenica, detta “In Albis”, si conclude “l’Ottava di Pasqua”, come unico giorno “il giorno del Signore”(Ap. 1,10): “otto giorni dopo”, la Domenica di Resurrezione, e la Liturgia si sofferma sul mistero della vita del Risorto, presente nella vita di tutti i giorni nella Sua Chiesa: “sta in mezzo a loro” nel radunarsi domenicale.
L’Evangelista Luca nel brano degli Atti degli Apostoli ci presenta uno spaccato di vita delle prime comunità cristiane parlandoci di quattro modi di vivere: “erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli, nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nella preghiera” (At 3,42). Se notiamo sono tutte realtà che dicono a noi una vera relazione con il Cristo, il Crocifisso Risorto.
Questo tema è ben presente nella pagina che leggiamo oggi dell’Evangelista Giovanni: il Signore si fa riconoscere da Tommaso non quando è separato dalla comunità, ma quando finalmente, “otto giorni dopo” è di nuovo con i suoi fratelli. D’altro canto l’incredulità di Tommaso si era dimostrata proprio nel non accogliere la testimonianza della comunità: quella di Maria di Magdala prima, e quella degli altri discepoli poi.
Tommaso quindi è il grande assente quando Gesù “la sera di quello stesso giorno, il primo della settimana” entra a porte chiuse nel luogo dove sono riuniti i discepoli ancora sconvolti dall’arresto del loro Maestro, dalla sua crocifissione e dalla sua morte, e “sta in mezzo a loro”.
Non sappiamo perché Tommaso non fosse presente, ma è presente “otto giorni dopo”. Forse i discepoli, che si erano dispersi, come aveva loro annunciato Gesù a motivo della sua morte, ora sono di nuovo insieme proprio per il racconto di ciò che Maria di Magdala ha visto e ascoltato nel giardino davanti al sepolcro vuoto: “Ho visto il Signore” e “Va dai miei fratelli e di loro : io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro” (Gv 20,17). Probabilmente Tommaso non crede al racconto di Maria, è incapace di accogliere il suo annuncio, come pure quello degli altri discepoli quando gli dicono con insistenza “abbiamo visto il Signore”. Tommaso dimostra qui il suo limite cioè la mancanza di fede nella comunità e qui sta la radice della sua incredulità: “se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e la mia mano nel suo costato non crederò”.
Tommaso, che ha bisogno di vedere e toccare per credere, lo troviamo presente altre volte nel corso del quarto Vangelo: al capitolo 11 manifesta la sua disponibilità a rischiare la propria vita insieme a Gesù: “andiamo anche noi a morire con lui” (v. 10), mentre gli altri discepoli, alla decisione di Gesù di tornare in Giudea per andare a trovare l’amico Lazzaro, manifestano la loro paura. Ancora al capitolo 14 dopo che Gesù aveva annunciato ai suoi discepoli che sarebbe andato a preparare un posto per loro di cui però essi non conoscevano la via, Tommaso interviene con una domanda: “Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?”(v. 5). Quindi Tommaso da una parte dichiara di voler seguire Gesù lungo la sua stessa via, anche se conduce alla morte, dall’altra afferma di non conoscere la via, di non sapere dove il Signore va.
Tommaso forse non conosce la via perché la coglie solo come via che conduce alla morte (“morire con lui”). In realtà né lui né gli altri discepoli andranno a morire con lui, ma si disperderanno. Tutti non hanno capito che la via che percorre Gesù non è una via di morte, anche se passa attraverso la morte, ma è vita, e il posto che Gesù va a preparare è lì dove lui è cioè, presso il Padre.
Tornando al nostro brano dicevamo che Tommaso ha bisogno di vedere e di toccare. Tommaso vuole vedere le piaghe, i segni della passione che rimangono nel corpo risorto di Gesù. D’altro canto Tommaso vuole vedere quello che il Risorto stesso, per farsi riconoscere, ha mostrato agli altri discepoli quando Gesù è apparso loro mentre Tommaso era assente.
Quindi Tommaso pretende di verificare personalmente la verità del corpo del Risorto: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non crederò” (v. 25). Tuttavia il testo non dice che Tommaso abbia toccato, abbia messo il dito nel segno dei chiodi. Su questo il racconto tace.
Quando Gesù “otto giorni dopo” viene di nuovo in mezzo a loro e incontra Tommaso gli dice subito: “Metti qui il tuo dito e guarda le mie mani; tendi la tua mano e mettila nel mio fianco; e non essere incredulo, ma credente!” (v. 27). Gesù, il Risorto, riprende le parole della richiesta di Tommaso e gliele ripete. E’ qui che Tommaso arriva a fare la più alta professione di fede: “Mio Signore e mio Dio” (v. 28). Tommaso è raggiunto dalla parola di Gesù, si sente toccato da questa parola, conosciuto, potremmo dire amato. Non ha più bisogno di toccare perché lui stesso è stato toccato e trasformato. Tommaso ha fatto il passaggio pasquale, dall’incredulità alla fede.
Ancora una volta l’evangelista Giovanni ci dice che non bastano i segni a fondare la fede, ma è sempre necessario l’ascolto della Parola che li accompagna, li interpreta, ne svela il significato e così anche noi siamo interpellati a dare la nostra risposta di fede, proprio come Tommaso: “Mio Signore e mio Dio”.
Noi discepoli di oggi non possiamo più vedere il corpo del Risorto, ma possiamo riconoscerlo presente nei sacramenti, nella Chiesa riunita nel suo nome e nell’ascolto della sua Parola. Quindi come dice Pietro nella sua prima lettera: “Voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui”(1 Pt 1,8). Si, siamo chiamati a credere in quel Dio, Gesù Cristo, morto e risorto, che si rivela così, con quelle mani bucate, con quel costato trafitto che mostrano a quale debolezza e consegna di sé è giunto l’amore. Amore che rivela l’assoluto dell’Amore: il Padre.
http://www.clarissesantagata.it
L’amore fedele del Risorto
Enzo Bianchi
Il capitolo finale del quarto vangelo, Gv 20 (Gv 21 è un’aggiunta posteriore), andrebbe letto interamente, per comprendere in profondità “il primo giorno della settimana” (Gv 20,1.19; cf. 20,26), il terzo giorno dopo la morte di Gesù. Il primo giorno della settimana è il giorno della resurrezione del Signore ma è anche quello in cui il Risorto si rende presente in mezzo ai suoi: è il giorno del Signore, il giorno dell’intervento decisivo di Dio che, risuscitando Gesù, ha vinto la morte. Dal Nuovo Testamento sappiamo inoltre che proprio “il primo giorno della settimana” (At 20,7; 1Cor 16,2) è scelto dai cristiani per essere “nello stesso luogo” (At 1,15; 2,1.44.47, ecc.), quale assemblea di fratelli e sorelle che sperimentano la venuta del Risorto in mezzo a loro.
Scesa la sera di quel giorno, lo sconforto regna nei cuori dei discepoli che non hanno creduto né alla Maddalena né al discepolo amato. Ma Gesù aveva promesso: “Dopo la mia scomparsa, ‘ancora un poco e mi vedrete’ (Gv 16,16)”, e fedele alla parola data “viene e sta in mezzo”. Gesù è visto dai discepoli in mezzo a loro, al centro della loro assemblea, come colui che crea e dà unità, che “attira tutti a sé” (cf. Gv 12,32).
In quella posizione di Kýrios, di Signore, il Risorto dice: “Pace a voi!”, il saluto messianico, parola efficace che porta pace, vita piena, e scaccia la paura. E affinché le parole siano autenticate dalla sua persona di Maestro, Profeta e Messia conosciuto dai discepoli nella loro vita con lui, Gesù mostra le mani e il fianco che recano ancora i segni della sua passione e morte (cf. Gv 19,34). Gesù è presente con un corpo che non è un cadavere rianimato ma che viene a porte chiuse, non obbedendo alle leggi del tempo e dello spazio: un “corpo di gloria” (Fil 3,21), un “corpo spirituale” (1Cor 15,44.46), nel quale però restano i segni dell’aver sofferto la morte per amore. Sono segni di passione e insieme di gloria, segni dell’amore vissuto “fino alla fine, all’estremo” (Gv 13,1).
“E i discepoli gioirono al vedere il Signore”. Accade ciò che Gesù aveva profetizzato: “Ora siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà rapirvi la vostra gioia” (Gv 16,22). In questa nuova situazione della comunità, il Risorto, che aveva promesso di non lasciarla orfana (cf. Gv 14,18) e di donarle un altro Consolatore (cf. Gv 14,16), si fa manifesta. Ripete il saluto “Pace a voi!” e annuncia: “Come il Padre ha inviato me, anche io invio voi”. I discepoli hanno accolto l’Inviato di Dio, lo hanno seguito e hanno creduto in lui; ora sono inviati in tutto il mondo, per essere come lui, Gesù, è stato in tutta la sua vita: testimoni della verità, della fedeltà di Dio, cioè del suo amore per l’umanità. Con la loro vita devono mostrare che “Dio ha tanto amato il mondo da donargli il suo unico Figlio” (Gv 3,16).
Per essere abilitati a questa missione, devono essere ricreati: occorre un’immersione nello Spirito santo, occorre lo Spirito come nuovo soffio nel cuore di carne (cf. Ez 36,26). Allora Gesù, il Risorto che respira lo Spirito santo, lo effonde sulla sua comunità. Noi cristiani, vasi di creta fragili e peccatori (cf. 2Cor 4,7), per dono di Gesù risorto respiriamo lo Spirito santo che perdona i peccati e ci abilita alla vita eterna nel Regno di Cristo. Siamo dunque il corpo di Cristo, il “tempio dello Spirito santo” (1Cor 6,19). Lo stesso Spirito che ha risuscitato da morte Gesù è datore di vita ai discepoli, e da “compagno inseparabile di Cristo” (Basilio di Cesarea), diventa compagno inseparabile per ogni cristiano. È lui, presente in ogni discepolo e discepola, che ricorda le parole di Gesù (cf. Gv 14,26), che lo rende presente e testimonia che egli è il Signore (cf. 1Cor 12,3).
Lo Spirito santo, Spirito di Dio e Soffio di Cristo, ci è donato nella nostra condizione di corpo umano, di carne. Non si dimentichi che nel quarto vangelo la carne è il luogo dell’umanizzazione di Dio – “La Parola si è fatta carne” (Gv 1,14) –, il luogo scelto da Dio per stare con noi e in mezzo a noi. La carne è luogo di conoscenza a servizio della Parola di Dio che la abita: ecco la dimora dello Spirito santo. Per questo, come Gesù è stato concepito carne dallo Spirito santo e da una donna, così anche la chiesa è generata da Spirito santo e da umanità, e del soffio dello Spirito fa il suo respiro.
Ma questo ha una ricaduta decisiva nella vita dei cristiani: significa remissione dei peccati, perché l’esperienza della salvezza che possiamo fare sulla terra è proprio la remissione dei peccati. Lo cantiamo ogni mattina nel Benedictus: “… per dare al suo popolo la conoscenza della salvezza nella remissione dei suoi peccati” (Lc 1,77). Ricevere lo Spirito santo è ricevere tale remissione, cioè vivere l’azione del Signore che non solo perdona, ma dimentica i nostri peccati, facendo di noi delle creature nuove. Questa è l’epifania della misericordia di Dio, dell’amore di Dio profondo e infinito che, quando ci raggiunge, ci libera dalle colpe e ci ricrea in una novità che noi non possiamo darci! E si faccia attenzione a non intendere questo testo solo come fondamento del sacramento della riconciliazione. La capacità di liberare dalla colpa e di fare misericordia è data da Gesù a tutti i discepoli: non solo agli Undici, perché nel cenacolo il giorno di Pentecoste ci sono anche le donne, c’è Maria insieme ad altri discepoli e discepole (cf. At 1,13-15; 2,1).
Gesù, “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo” (Gv 1,29), battezzando nello Spirito santo (cf. Gv 1,33) i discepoli, li abilita alla sua missione: perdonare, riconciliare con Dio e con i fratelli e le sorelle. Dalla croce e dalla resurrezione l’umanità è stata riconciliata con Dio, ma tale evento va annunciato a tutti, e i discepoli sono inviati per questo: dove giungono, devono far regnare la misericordia di Dio, devono vivere il comandamento ultimo e definitivo dell’amore reciproco (cf. Gv 13,34; 15,12), devono rimettere i peccati gli uni agli altri, abilitati dunque a chiedere il perdono dei peccati a Dio.
E sia chiaro: le parole di Gesù che accompagnano il gesto del soffiare lo Spirito – “A coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati; a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati” – sono espresse attraverso uno stile semitico che si serve di espressioni contrastanti per affermare con più forza una realtà. Non significano un potere che i discepoli potrebbero utilizzare secondo il loro arbitrio; al contrario, esprimono che il loro compito è la remissione dei peccati, il perdono, come lo è stato per Gesù, che in tutta la sua vita non ha mai condannato, ma ha sempre detto di essere venuto non per giudicare e condannare (cf. Gv 8,15; 12,47), ma perché tutti “abbiano la vita in abbondanza” (Gv 10,10). “Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi”, dove questo “come” rimanda a uno stile: “Come io ho rimesso i peccati, anche voi dovete rimetterli; è con questo compito che vi mando”.
Fatta questa esperienza, i discepoli annunciano a Tommaso, non presente alla prima manifestazione del Risorto: “Abbiamo visto il Signore!”. È l’annuncio pasquale che dovrebbe essere sufficiente per accogliere la fede nel Risorto. Ma Tommaso non crede, quelle parole gli sembrano vaneggiamenti inaffidabili.
“Otto giorni dopo”, dunque nel primo giorno della seconda settimana dopo la tomba vuota, ecco Tommaso e gli altri di nuovo insieme. È il primo ma anche l’ottavo giorno, giorno della pienezza, eppure i discepoli hanno ancora paura degli uccisori di Gesù. Dovrebbero portare l’annuncio pasquale a tutta Gerusalemme e invece restano al chiuso, dominati dalla paura. Ma Gesù si rende di nuovo presente: “Venne Gesù, a porte chiuse, stette in mezzo e disse: ‘Pace a voi!’”. Ecco la fedeltà di Gesù, il Veniente tra i suoi anche quando non lo meritano e non sono in sua attesa. Innanzitutto consegna la pace, “la sua, non quella del mondo” (cf. Gv 14,27), poi si rivolge a Tommaso, “detto Didimo”, il “gemello” di ciascuno noi. Tommaso è il gemello nel quale c’è, come in noi, la logica del voler vedere per credere. Tommaso è come noi: quando si profila l’evento della resurrezione, vediamo morte (cf. Gv 11,15-16); quando Gesù annuncia che ci precede, non sappiamo quale sia la via (cf. Gv 14,2-6); quando dobbiamo fidarci della testimonianza dei nostri fratelli e sorelle, vogliamo essere quelli che vedono…
Gesù viene però anche per Tommaso e anche a lui si fa vedere con i segni del suo amore: le stigmate della sua passione impresse per sempre nella sua carne gloriosa. La resurrezione cancella i segni della morte e del peccato ma non i segni dell’amore vissuto, perché l’aver amato ha una forza che trascende la morte. Tutta la cura dei malati che le mani di Gesù hanno praticato, tutte le carezze che egli ha dato, tutto il suo amore vissuto, tutte le forze sprigionate dal suo seno sono visibili anche nel suo corpo risorto. Gesù dunque invita Tommaso ad avvicinarsi e a mettere il suo dito in quelle stigmate.
E qui, attenzione, non sta scritto che Tommaso mise il suo dito, ma che disse: “Mio Signore e mio Dio!”. Riconoscendo nelle stigmate l’amore vissuto da Gesù, Tommaso fa la confessione di fede più alta e piena in tutti i vangeli: Gesù è il Signore, Gesù è Dio. Ecco perché chi vede Gesù, vede il Padre (cf. Gv 14,9); ecco perché Gesù è l’esegesi del Dio che nessuno ha mai visto né può vedere (cf. Gv 1,18); ecco perché Gesù è “il Vivente” (Lc 24,5) per sempre. Tommaso non è certo un modello, anche se in lui possiamo riconoscerci. Per questo Gesù gli dice: “Beati quelli che, senza avere visto, giungono a credere”. È conoscendo l’amore vissuto dal Crocifisso che si inizia a credere: miracoli e apparizioni non ci fanno accedere alla vera fede. Solo la parola di Dio contenuta nelle sante Scritture, solo l’amore di Gesù di cui il Vangelo è annuncio e narrazione (“segno scritto”, per dirla con la chiusura del vangelo), solo lo stare nello spazio della comunità dei discepoli del Signore, ci possono portare alla fede, facendoci invocare Gesù quale “nostro Signore e nostro Dio”.