(Angelo Scelzo – Il Mattino)

Eccola la Chiesa di Francesco dietro la trincea dell’altare. Nessuno poteva pensare a un momento come questo: la preghiera, sì, cosa c’è di più ordinario nella vita della Chiesa e di ogni cristiano. Ma questa preghiera è oggi altra cosa, è grido sussurrato al mondo, tanto forte da farsi sentire oltre il frastuono delle armi, e così accorato da posarsi nel fondo nell’anima. Anche l’altare del Bernini, al centro della Basilica, dove il Papa officia, come il colonnato fuori dalla piazza, diventa un altare a cielo aperto. Non può avere spazi, neppure intarsiati d’arte, questa Supplica a Maria che attraversa e solca i secoli di una devozione che sembra d’altri tempi anche per gli osservanti e che ora il Papa della chiesa in uscita propone come orizzonte di un altro futuro: ma che intanto metta alle spalle il triste presente che ci troviamo a vivere.

Quasi sembra che la piazza s’affacci stavolta all’interno per riannodare il filo dei ricordi di pochi anni ma di tanta, troppa storia addensata in troppo poco tempo, e con l’umanità chiamata drammaticamente in causa. Prima la pandemia, il mistero di un virus che ha portato via con la stessa avidità vite umane e l’illusione di un’onnipotenza quasi a portata di mano. Poi una tragedia ancora più grande, la guerra, il colpo di grazia, la resa di tutti i conti che all’uomo non tornano. Uno dopo l’altro, due avvisi di chiamata a sirene spiegate, e di quelli che mettono spalle al muro e pure il cuore e la mente alle corde. Un tempo sospeso è calato come un manto freddo sulla frenesia di un mondo ammalato del suo orgoglio, mai sazio di portare avanti sempre nuove sfide. Siamo ancora tutti dentro a un respiro trattenuto. Viene naturale, quando la protervia è trattenuta, avere gli occhi bassi, lasciarsi prendere da una contrizione che mette insieme spaesamento e angoscia.

Due anni fa l’immagine del deserto di folla e di voci di piazza San Pietro; e il papa che l’attraversava per tutti in uno scenario suggestivo ma anche irreale, spoglio e maestoso insieme, con le statue in legno del crocifisso miracoloso di san Marcello al Corso e della «Salus populi romani» sul sagrato. La Statio orbis di quel giorno e ora questa Veglia, quest’Atto di consacrazione al Cuore immacolato di Maria che evoca liturgie e orazioni antiche, proprio a questo titolo chiamate in causa, e il Papa che nella contemporanea celebrazione a Fatima, dove, a suo nome, ha inviato, il cardinale Krajewski, quasi invoca il tempo di un nuovo miracolo. Lo sguardo è tutto rivolto al luogo dove oggi la pace è ferita. E qual è allora il senso di quest’affidamento? «Non si tratta – dice il Papa – di una formula magica, ma di un atto spirituale». Sotto questo segno, richiamando la comune devozione mariana del popolo ucraino e di quello russo si tratta anche di un atto di mediazione.

«…Ma noi abbiamo smarrito la via della pace», prega, il volto affranto, Papa Francesco, al termine della celebrazione penitenziale. «Abbiamo dimenticato la lezione delle tragedie del secolo scorso, il sacrificio di milioni di caduti nelle guerre mondiali». Richiamando un antico inno monastico slavo- bizantino, invoca la Madonna come terra del cielo, indicando in lei l’approdo di ogni concreta speranza.

La pace continua a sfuggire di mano e il suo nefasto contrario, la guerra, è ritornata a guadagnare terreno e proprio nel cuore dell’Europa cristiana. E allora anche la chiesa come nei momenti bui della storia, ha bisogno di mettersi in ginocchio, e di scavare sempre più a fondo al suo deposito di fede. Ed è una Chiesa che, assorta e a mani giunte, guarda più a fondo se stessa per guardare meglio il mondo. Stavolta il nemico, a differenza che per la pandemia, non ha niente di misterioso. È la guerra, la pazzia della guerra, che si alimenta, giorno per giorno, regione per regione, dello scandalo degli investimenti sul riarmo. Il conto è semplice e perfino banale: si toglie pane ai poveri e una mano sinistra sparge in cambio sofferenze e morte. Sono queste le stazioni contemplate dai granì del Rosario che accompagnano e scandiscono la Veglia convocata in tutte le chiese del mondo da Papa Francesco. La geopolitica, le analisi degli esperti restano fuori, sono altra cosa per altri tempi e altre occasioni. L’urgenza di dire «no» alla guerra, di ripetere ancora una volta questo grido spesso inascoltato, prevale ora su tutto. Vengono in mente le parole del radiomessaggio di un altro Papa, Pio XII, alla vigilia dello scoppio del secondo conflitto mondiale: «Nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra». E in senso complessivo questa Veglia riassume oggi, e in un certo senso richiama, tutto il cammino della Chiesa lungo gli impervi sentieri della pace. È così che a un Papa che ha scelto di chiamarsi Francesco tocca ora inoltrarsi oltre che sul terreno della testimonianza su quello della profezia. Neppure un Papa, senza il sostegno di una chiesa orante, può avere spalle così larghe per adempiere a un mandato così audace.

Cambia perciò anche il linguaggio della chiesa, anche di quella che dal Concilio in poi ha imparato a far pace con una modernità che prima destava solo sospetti. La preghiera sì, ma per tempi come questi portata al tono più alto della Supplica, dove la richiesta non basta e diventa impetrazione. Impetrazione di Grazie e quindi la pace come dono. «Il tuo pianto, o Madre – quasi sussurra il Papa – smuova i nostri cuori induriti. Le lacrime che per noi hai versato facciano rifiorire questa valle che il nostro odio ha prosciugato».

C’è silenzio nella Basilica e nelle chiese del mondo dove, insieme al Papa, cristiani e non, si sono raccolti in preghiera, o semplicemente a meditare sulla tragedia della guerra. Ma fuori il rumore e il fragore delle armi continua a non dare requie. La speranza di pace s’incrocia e si scontra ancora una volta dal vivo con il dramma della guerra. A conti fatti una pandemia anche questa. E con un contagio che stenta ad arrestarsi.

(Il Mattino, 26 marzo 2022, pagina 1 e 43)