IV domenica di Pasqua (B)
Gv 10,11-18
Dal Vangelo secondo Giovanni (10,11-18)
In quel tempo, Gesù disse: “Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio”.
Da un’altra prospettiva
Siamo giunti alla quarta Domenica del tempo di Pasqua e, continuando a contemplare la vicenda del Vivente che ha vinto ogni morte, la liturgia nella Parola ci consegna un nuovo “punto di osservazione”. Nei giorni della Passione, come nella Domenica di Resurrezione e nelle prime tre Domeniche di Pasqua, la liturgia ci ha collocato dentro l’evento della morte e resurrezione del Signore. I brani evangelici scelti ci hanno permesso di contemplare direttamente il Mistero, di guardarlo in faccia dal di dentro, senza veli. Dopo averlo visto e rivisto la Chiesa oggi sembra invitarci a “prendere la giusta distanza”, non per allontanarci dall’evento, ma per imparare a leggerlo da un’altra prospettiva, quella che ci rimette in cammino sulle strade dell’uomo.
Il brano evangelico di questa quarta Domenica di Pasqua, con l’immagine del Pastore Buono non fa altro che raccontarci gli stessi eventi che abbiamo già contemplato e vissuto in un altro modo. Proprio come quando viviamo qualunque cosa nella nostra vita, il TEMPO che scorre ci permette di interpretarla con una profondità diversa rispetto alla interpretazione che ne diamo nell’imminenza dell’evento, allo stesso modo Giovanni con l’immagine del Pastore ci racconta del Crocifisso Risorto.
Un verbo ritorna in questo testo per cinque volte, il verbo PORRE: “il Pastore Buono pone la vita per le pecore” (Gv 10,11). E’ lo stesso verbo che incontriamo nell’ultima cena quando sempre l’evangelista Giovanni scrive “si alzò da tavola, depose le vesti e preso un asciugamano se lo cinse…” (Gv13,4). Questo verbo, oltre a tornare cinque volte in pochi versetti, è l’unico verbo con cui viene descritto il Pastore e tutti i suoi gesti. Il Pastore Buono è colui che “pone la sua vita per le pecore…”. Come non riconoscere in queste parole l’eco di quelle parole che abbiamo ascoltato più volte nel racconto della Passione. I verbi invece che descrivono il mercenario sono diversi e molteplici: egli “vede venire il lupo, lascia le pecore e fugge…”. Vede, lascia e fugge: non un solo atteggiamento, ma molti nel tentativo di salvare la sua vita. E anche qui sentiamo l’eco della fuga dei Dodici nel tentativo di salvare la propria vita, l’eco del tradimento di Giuda, del rinnegamento di Pietro, l’eco di quella espressione evangelica forte che troviamo nell’Evangelo di Marco: “allora i discepoli abbandonatolo fuggirono tutti” (Mc 14,50). Di fronte alla molteplicità delle azioni del mercenario, di colui che non dona la sua vita, ma si occupa solo di salvarla, una sola è l’azione del Pastore Buono: deporre la vita.
Ancora Giovanni ci dice che il Pastore conosce le sue pecore, che le conduce, che le chiama: tutto questo è perché lui depone la sua vita. Non si può conoscere senza deporre la vita, come non si può condurre né si può far udire la propria voce.
Occorre allora osservare questi verbi per riconoscere in essi il racconto della passione. Occorre fissare il Pastore Buono e riconoscere l’Amore con cui siamo stati amati per continuare il nostro cammino di discepoli, certi che oggi e sempre c’è una vita, la sua vita, deposta per noi: questo ci conosce, ci conduce, ci chiama.
Sorelle Povere di Santa Chiara
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Gesù, il pastore santo, buono e bello
Commento di Enzo Bianchi
Nei brani evangelici che la chiesa (dopo quelli delle manifestazioni del Risorto) ci propone per il tempo pasquale, sempre tratti dal quarto vangelo, è il Gesù Cristo risorto che parla alla sua comunità, rivelando la sua identità più profonda, identità che viene da Dio suo Padre. Il Signore vivente per sempre è più che mai autorizzato a presentarsi con il Nome stesso di Dio: “Io sono” (Egó eimi). Quando Mosè aveva chiesto a Dio che gli parlava dal roveto ardente di rivelargli il suo Nome, Dio aveva risposto: “Io sono” (Es 3,14), Nome ineffabile, nome indicibile inscritto nel tetragramma JHWH.
Il Cristo vivente si rivela dunque come “Io sono”, e specifica: “Io sono il pane della vita” (Gv 6,35); “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12); “Io sono la porta delle pecore” (Gv 10,7); “Io sono la resurrezione e la vita” (Gv 11,25); “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6); “Io sono la vite” (Gv 15,5). Nel nostro brano, dopo essersi presentato come la porta dell’ovile, Gesù dichiara per due volte: “Io sono il pastore buono e bello” (kalós), riassumendo in sé l’immagine di tutti i pastori donati da Dio al suo popolo (Mosè, David, i profeti), ma anche l’immagine di Dio stesso, invocato e lodato come “Pastore di Israele” (Sal 80,2), dei credenti in lui.
Gesù aveva evocato più volte l’immagine del pastore e del gregge da lui pascolato (cf. Mt 9,36; 10,6; 15,24, ecc.), ma ora con questa rivelazione parla di se stesso, si proclama Messia e Inviato da Dio per condurre l’umanità alla vita piena, “venuto perché tutti abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv 10,10). Il buon pastore è l’opposto del pastore mercenario, che fa questo mestiere solo perché pagato, che guarda alla ricompensa per il lavoro, ma che in verità non ama le pecore: queste non gli appartengono, non sono destinatarie del suo amore e non contano nulla per lui. Lo dimostra il fatto che, quando arriva il lupo, egli abbandona le pecore e fugge via: vuole salvare se stesso, non le pecore a lui affidate!
Al contrario, l’amore del buon pastore per le sue pecore provoca addirittura il suo esporre, deporre la vita per la loro salvezza. Non solo egli spende la vita stando in mezzo alle pecore, guidando il gregge, conducendolo in pascoli dove gli sia possibile sfamarsi; ma può anche accadere che la minaccia per la vita del gregge diventi minaccia per la vita stessa del pastore. È questo il momento in cui il buon pastore si rivela. Questa solidarietà, questo amore sono però possibili solo se il pastore non solo non è un mercenario, ma se conosce le sue pecore di una conoscenza particolare che lo porta a discernere e a riconoscere l’identità di ciascuna di esse: una conoscenza penetrativa che è generata dalla prossimità, dall’assidua custodia del gregge.
Gesù cerca di spiegare questa comunione reciproca evocando addirittura la conoscenza tra sé e il Padre, che lo ha inviato e del quale cerca di realizzare giorno dopo giorno la volontà: “Io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre”. Tale comunione è certamente quella vissuta da Gesù nei suoi giorni terreni, all’interno della sua comunità, con i suoi discepoli e le sue discepole; ma è anche una comunione che trascende i tempi, in quanto sarà vissuta nella storia tra il Risorto e quanti egli attirerà a sé, chiamandoli da altri ovili. Venuto per tutti, non solo per Israele, e volendo portare tutti alla pienezza della vita, Gesù è consumato dal desiderio che vi sia un solo gregge sotto un solo pastore e che tutti i figli di Dio dispersi siano radunati (cf. Gv 11,52).
Dopo questa auto-rivelazione, ecco altre parole con cui Gesù esprime la sua intimità, la sua comunione con Dio: “Per questo il Padre mi ama: perché io depongo la mia vita, per riceverla di nuovo”. Perché il Padre ama Gesù? Perché Gesù realizza la sua volontà, quella volontà che è amore fino al dono della vita. In Gesù c’è questo amore “fino all’estremo” (Gv 13,1), fino al dono della vita appunto, e c’è la fede di poterla riceverla di nuovo dal Padre. Si faccia qui attenzione e non si segua la traduzione italiana ufficiale della Bibbia, che compromette seriamente il senso delle parole di Gesù. Gesù non dice: “Il Padre mi ama perché offro la mia vita per riprenderla di nuovo” (sarebbe un giochetto!), ma “per riceverla di nuovo” (il verbo lambáno nel quarto vangelo significa sempre “ricevere” non “riprendere”). L’offrire la vita da parte di Gesù sta nello spazio della fede, non dell’assicurazione anticipata! Il comando del Padre è che lui spenda, offra la vita; e la promessa del Padre è che così potrà riceverla, perché “chi perde la sua vita la ritroverà, ma chi vuole salvarla la perderà” (cf. Mc 8,35 e par.; Gv 12,25). Nessuno prende la vita a Gesù, nessuno gliela ruba, e la sua morte non è né un destino (una necessità) né un caso (gli è andata male…): no, il suo è un dono fatto nella libertà e per amore, un dono di cui egli è stato consapevole lungo tutta la sua vita, dicendo ogni giorno il suo “sì” all’amore. Non ha dato la sua vita per ragioni religiose, sacre, teologiche, ma perché quando si ama si è capaci di dare per gli amati tutto se stessi, tutto ciò che si è.
Sulla tomba di un cristiano della fine del II secolo, un certo Abercio, si legge questa iscrizione: “Sono il discepolo di un pastore santo che ha occhi grandi; il suo sguardo raggiunge tutti”. Sì, Gesù è il pastore santo, buono e bello, con occhi grandi, che raggiungono tutti, anche noi oggi. E da questi occhi noi ci sentiamo protetti e guidati.
Commento di don Angelo Casati
Letto così, letto con questi tagli, il brano del vangelo di Giovanni potrebbe prestarsi a interpretazioni di tutto riposo, a una declamazione asettica del titolo di “pastore buono” che Gesù rivendica per sé con molta forza. Ma già la figura del “pastore-mercenario” che Gesù introduce, contrapponendola al suo essere “pastore buono”, ci mette in guardia da una interpretazione di tutto riposo, come se quel giorno Gesù avesse avuto davanti a sé occhi estasiati. Tutt’altro. Il brano è attraversato da una evidente palpabile vis polemica.
A chi si rivolgeva Gesù? Il nostro brano è in coda all’episodio della guarigione del cieco nato, guarito di sabato con contestazioni frementi dell’operato di Gesù da parte dei circoli dirigenti del tempio. Ebbene se la guarigione del cieco aveva scatenato tra la classe dirigente reazioni violente, reazioni non meno violente suscitano ora le sue parole sulla sua identità di pastore. Tant’è che questa è la conclusione del nostro brano, una conclusione tutt’altro che di riposo: “Sorse di nuovo dissenso tra i giudei per queste parole. Molti di loro dicevano: ‘E’ indemoniato ed è fuori di sé. Perché state ad ascoltarlo?’. Altri dicevano: “Queste parole non sono di un indemoniato. Può forse un indemoniato aprire gli occhi a un cieco?”.
La polemica sui pastori mercenari veniva, voi lo sapete, da lontano, da molto lontano.. E’ una contestazione che riempie pagine e pagine dell’Antico Testamento. E dovrebbe farci pensare, quasi che il passo sia breve da pastore a mercenario, a profittatore. E come dovrebbe farci pensare il fatto che Dio in questi casi, che potrebbero avverarsi anche oggi, si riprenda in mano lui il ruolo di pastore, negandolo decisamente ai profittatori di turno.
Forse ricordate le parole del profeta Ezechiele al capitolo 34 del suo rotolo: “Perciò, pastori, ascoltate la parola del Signore: Com’è vero che io vivo – oracolo del Signore Dio -, poiché il mio gregge è diventato una preda e le mie pecore il pasto d’ogni bestia selvatica per colpa del pastore e poiché i miei pastori non sono andati in cerca del mio gregge – hanno pasciuto se stessi senza aver cura del mio gregge -, udite quindi, pastori, la parola del Signore: Così dice il Signore Dio: Eccomi contro i pastori: a loro chiederò conto del mio gregge e non li lascerò più pascolare il mio gregge, così non pasceranno più se stessi, ma strapperò loro di bocca le mie pecore e non saranno più il loro pasto. Perché così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine (34, 7-12).
Voi mi capite, quel giorno nel tempio, ancora una volta si realizzava la parola del profeta. Gesù strappava le pecore ai pastori diventati mestieranti e le pecore – perdonate l’espressione – se le riprendeva lui! Può succedere anche oggi, perché Gesù è e rimarrà sempre il pastore e custode delle nostre anime. E ci possono essere casi – raramente ci fermiamo a pensarlo – in cui si crea una divaricazione tra pastori e popolo di Dio e nello stesso tempo una vicinanza tra Gesù e il popolo di Dio.
Forse abbiamo dimenticato questa verità o l’abbiamo impallidita: che Gesù rimane comunque il nostro pastore. Sarebbe una grazia, penso, se questa mattina a condurci qui fosse stato un bisogno, quello di ascoltare lui, il vero pastore e custode delle nostre anime, il desiderio di vederlo camminare nei vangeli davanti a noi e di vederci segnare il cammino, e, insieme, la certezza che nessuno mai, né nella vita né nella morte, potrà strapparci dalle sue mani. E, ancora, la gratitudine per averlo incontrato nella nostra vita. Lui così diverso dai profittatori e dai mestieranti. Lui che vive in questi verbi che oggi abbiamo ascoltato, verbi che lui si è riferito e che sono attuali per noi, verbi che sono veri innanzitutto per lui. Lui che ha dato la vita per le pecore, per difenderle da coloro che fanno delle pecore una preda, lui che ci ha restituiti a libertà, riscattandoci da ogni dominio e assoggettamento. Lui che conosce ad una ad una le sue pecore: “io conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me”. Non viviamo nell’indistinto di una relazione, non viviamo nella vaghezza dei volti: lui mi conosce, ha scritto il nome di ognuno di noi sul palmo della sua mano. C’è un rapporto, conosce la voce. Capite, la voce! Essere riconosciuti alla voce, quasi contasse più la voce di quello che tu stai per dirmi, più tu delle tue parole.
Tutti rimaniamo colpiti, perché Gesù racconta un mondo, un mondo di relazioni in cui è lontana ogni forma di estraneità o di strumentalità, in cui è assente ogni secondo fine, ogni nascosto interesse: tu sei cercato perché sei tu e basta. Basta questo per cercarti, anche se tu ti sei smarrito, basta perché io lasci le novantanove per venire a cercarti.
E noi – soprattutto quelli che, come me, in qualche misura, sono considerati pastori – dovremmo tenere fisso negli occhi, e non scordarcelo, il modello, luminoso, del vero e grande, e in un certo senso unico, Pastore, Gesù.
A proposito di pastore e di pecore c’è una immagine che Papa Francesco più volte va evocando, quando dice: “siate pastori con l’odore delle pecore”. Che odore delle pecore potremmo portarci addosso se abitiamo il palazzo o declamiamo dai palchi?
Il pastore vero è dentro una intimità, dentro una condivisione di giorni e di notti con il suo gregge. Non è nel segno dell’apparire. Voi mi capite: appaiamo e scompariamo; abbiamo fatto la nostra esibizione, ce ne andiamo. Siamo stati un’ora. Il pastore Gesù, il pastore vero, non è nella eccezionalità, è nella ordinarietà, nella ordinarietà della vita, di giorno e di notte.
L’invito è a stare dentro la vita quotidiana, allontanando ogni distanza, ogni forma di estraneità. Papa Francesco ne parla nella sua Esortazione apostolica, chiamando non solo i vescovi e i preti, ma tutta la comunità a questo stile di vita, invitando tutti ad accorciare le distanze, ad abbassarsi fino all’umiliazione, se è necessario, ad assumere la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. “Gli evangelizzatori” dice “hanno così ‘odore di pecore’ e queste ascoltano la loro voce”. L’invito è ad “accompagnare”. Come fa il pastore Gesù. Ci conceda il Signore di seguirne le orme.
Gesù il pastore buono che dà la vita, che contagia d’amore
Commento di Ermes Ronchi
Pastore buono: è il titolo più disarmato e disarmante che Gesù abbia dato a se stesso. Eppure questa immagine non ha in sé nulla di debole o remissivo: è il pastore forte che si erge contro i lupi, che ha il coraggio di non fuggire; il pastore bello nel suo impeto generoso; il pastore vero che si frappone fra ciò che dà la vita e ciò che procura morte al suo gregge.
Il pastore buono che nella visione del profeta «porta gli agnellini sul seno e conduce pian piano le pecore madri» (Isaia 40,11), evoca anche una dimensione tenera e materna che, unita alla fortezza, compone quella che papa Francesco chiama con un magnifico ossimoro, una «combattiva tenerezza» (Evangelii gaudium 88).
Che cosa ha rivelato Gesù ai suoi? Non una dottrina, ma il racconto della tenerezza ostinata e mai arresa di Dio. Nel fazzoletto di terra che abitiamo, anche noi siamo chiamati a diventare il racconto della tenerezza di Dio. Della sua combattiva tenerezza.
Qual è il comportamento, il gesto che caratterizza questo pastore secondo il cuore di Dio? Il Vangelo di oggi lo sottolinea per cinque volte, racchiudendolo in queste parole: il pastore dà la vita. Qui affiora il filo d’oro che lega insieme tutta intera l’opera ininterrotta di Dio nei confronti di ogni creatura: il suo lavoro è da sempre e per sempre trasmettere vita, «far vivere e santificare l’universo» (Prece eucaristica III).
Dare la vita non è, innanzitutto o solamente, morire sulla croce, perché se il Pastore muore le pecore sono abbandonate e il lupo rapisce, uccide, vince. Dare la vita è l’opera generativa di Dio, un Dio inteso al modo delle madri, uno che nel suo intimo non è autoreferenzialità, ma generazione..
Un Dio compreso nel senso della vite che dà linfa ai tralci; del seno di donna che offre vita al piccolo; dell’acqua che dà vita alla steppa arida. Io offro la mia vita significa: vi offro una energia di nascita dall’alto; offro germi di divinità, per farvi simili a me (noi saremo simili a lui, 1 Gv 3,2 nella II Lettura).
Solo con un supplemento di vita, la sua, potremo battere coloro che amano la morte, i tanti lupi di oggi. Perché anche noi, discepoli che vogliono, come lui, sperare ed edificare, dare vita e liberare, siamo chiamati ad assumere il ruolo di “pastore buono”, cioè forte e bello, combattivo e tenero, del gregge che ci è consegnato: la famiglia, gli amici, quanti contano su di noi e di noi si fidano.
“Dare vita” significa contagiare di amore, libertà e coraggio chi avvicini, di vitalità ed energia chi incontri. Significa trasmettere le cose che ti fanno vivere, che fanno lieta, generosa e forte la tua vita, bella la tua fede, contagiosi i motivi della tua gioia.
Avvenire
L’ha ribloggato su Luca Zacchi, energia in relazionee ha commentato:
Per prepararsi alla prossima domenica, Giorno del Signore, IV di Pasqua anno B
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