La creazione dell’uomo nel racconto biblico,
di Emmanuelle Marie.

Creati, dunque limitati. Abbiamo un inizio, siamo nel tempo, nello spazio. Opportunità o ostacolo? Nel capitolo 2 della Genesi, nel solo versetto 7, ci sono due creazioni dell’uomo: il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo, della ADaMah dice l’ebraico. L’Adamo è il terrestre, della stessa natura della polvere d’argilla. Sua madre è la terra. È materia, molecole, come gli animali, con un cervello più sviluppato, capace di più evoluzione. Poi, il testo prosegue: e soffiò nelle sue narici un soffio di vita e l’uomo divenne un essere vivente. Rashi, il grande commentatore ebreo della Bibbia, spiega: “plasmò (wayyitsèr) è scritto con due iod, perché ci sono due plasmare: quello dell’uomo in questo mondo e quello dell’uomo nel mondo futuro (Beréchith raba 14, 5); mentre per gli animali, […] la stessa parola è scritta con un solo iod”. Dio soffia nelle narici dell’uomo il suo soffio, ossia il suo Spirito. Anche gli animali sono plasmati dal suolo (v.19), anch’essi diventano esseri viventi, ma senza il soffio divino. Non partecipano alla vita di Dio. L’imposizione di nomi a tutto il bestiame dimostra la superiorità di Adamo, la sua partecipazione alla dominazione del Signore sul creato. L’essere umano è l’anello di trasmissione tra il creato e il Creatore. Infatti, alla fine della creazione, Dio cessò nel settimo giorno ogni suo lavoro che aveva fatto (Gn 2,2). Cessò, fece shabbat dice l’ebraico, nel senso di ritirarsi dall’opera. Termina la creazione nel sesto giorno, che nella simbolica ebraica equivale a dire che il lavoro non è finito. Il Signore smette perché, una volta creato l’uomo, gli affida il compito di portare a termine la sua opera. Prima di questo atto di supremazia dell’uomo sugli animali, gli era stato ordinato di non mangiare dell’albero della conoscenza del bene e del male sotto pena di morire (2,17). Mi ha sempre fatto problema il fatto che quando, al capitolo seguente, ne mangia, non muore. Dio ha forse minacciato invano? Ha forse mentito? Solo di recente, meditando per l’ennesima volta questo brano della Genesi, mi sono accorta della doppia creazione, umana e divina di Adamo, verificata poi e confortata da Rashi, come detto sopra. Adamo è morto, in effetti, alla vita divina che gli era stata soffiata, partecipata dal Signore. Ha perso lo Spirito, il soffio divino. È morto a Dio.

Il Creatore ha forse subito uno smacco? Ha dovuto cambiare i suoi piani? Numerosi dibattiti si svolsero nel Medioevo tra i teologi. In particolare il francescano Duns Scoto (1266-1308) rifiutò la tesi del domenicano Tommaso d’Aquino (1225-1274) che affermava che l’Incarnazione era stata resa necessaria dal peccato originale. Fino a pochi giorni fa, ero rimasta fedele al Dottore Angelico. Poi, leggendo un fumetto straordinario1 per il suo fascino sulle definizioni dei quattro primi concili della Chiesa e gli errori di traduzione per passare dal greco, lingua dei concili, al latino, ho provato una forte liberazione interiore. No, non mi sto perdendo. Sto parlando della nostra condizione di esseri creati. Tommaso dunque, che pure aveva affermato che in Dio non possono esserci mutamenti, dichiara che la principale ragione dell’Incarnazione è la restaurazione della natura umana ferita dal peccato. Duns Scoto risponde che è irragionevole pensare che Cristo, capolavoro di Dio, potrebbe risultare dall’occasione del peccato, e quindi che ci sarebbe stato un cambiamento in Dio. Sembra una disputa tra teologi, ma le conseguenze sono importanti per noi. L’opinione di Tommaso ha aperto ciò che, in teologia morale, si è chiamata la deriva sacrificale, ossia la necessità di riparare il peccato con la sofferenza, affermazione in contraddizione con la gratuità della salvezza affermata spesso da S. Paolo e confermata de Benedetto XVI(2). Nel Padre Nostro, preghiamo perché sia fatta la sua volontà. Spesso abbiamo paura di questa volontà. Istintivamente, temiamo ancora di dovere pagare i nostri errori con il dolore, dimentichi del perdono dato sulla Croce a tutti e per tutto. In lui … abbiamo il perdono delle colpe, secondo la ricchezza della sua grazia (Ef 1,7). Non è scritto da nessuna parte nella Scrittura che dobbiamo soffrire per essere salvati. Il dolore è conseguenza delle scelte sbagliate, dei nostri limiti, dell’evoluzione. Cristo, l’Uomo-Dio, ci ha mostrato come affrontare le inevitabili afflizioni: appunto, nella certezza che il Padre ci sostiene per trarne un bene maggiore. Dio è più arrabbiato di noi contro il male e ci apre la strada per attraversarlo nella sicurezza del suo disegno di bene infinito per ciascuno. Unito a noi, ci ispira il miglior modo, entro i nostri limiti, per vivere tale situazione come figli suoi, come Gesù di Nazaret. Commettiamo il male perché abbiamo subito un male. Nella sua vita e soprattutto nella sua Passione, Gesù dimostra che la via d’uscita è la compassione per coloro che lo fanno soffrire, perché sa che agiscono così perché hanno subito dolore.

La Bibbia è scandita dalla parola HaFeTZ, spesso tradotta con volontà, ma che significa letteralmente desiderio. Il desiderio di Dio che ritma tutta la Sacra Scrittura è uno solo: unirsi all’essere umano. Per realizzarlo, era necessario che, anche prima del peccato, potesse unirsi ad un uomo pienamente uomo. Siccome sappiamo, come lo ripete sempre Carlo Molari, che Dio non può intervenire direttamente nell’umanità, era quindi necessario che il Dio unico in quanto Parola si unisse all’uomo Gesù di Nazaret. La tesi di Duns Scoto, che coincide con la definizione del Concilio di Calcedonia, afferma che Dio, il Dio unico, si è unito all’umanità nella persona umana di Gesù. Mediante l’umanità creata dell’uomo di Nazaret, il Dio unico può unirsi a ciascuno di noi. Cristo è il prototipo dell’umanità, attraverso di lui, noi che siamo creati come l’uomo Gesù, ci possiamo accostare (Eb 12,22) al Dio inafferrabile. Ecco la vocazione dell’essere creato che siamo. Il peccato non può cambiare il disegno di Dio che è immutabile. Prima che, secondo il mito della Genesi, il Signore soffiasse il suo soffio nell’Adamo, l’uomo era un animale, molto perfezionato, dotato dell’intelligenza che gli permette di evolvere intellettualmente, di immaginare tutte le cose di cui godiamo oggi. Sappiamo tuttavia l’uso che ne fa: morte, povertà, individualismo, perché è morto a Dio. Il male introduce dolore, ingiustizia, ma non può modificare la volontà del Signore, che aspira a soffiare il suo soffio in ogni essere umano, a farlo vivere della sua stessa vita, ad unirsi a ciascuno di noi. Dio aspira ad incarnarsi in ogni uomo: sta alla porta e bussa per condividere la cena (cf Ap 3,20), cioè la nostra quotidianità più banale.

Sono stata liberata da lunghi anni di depressione cronica quando ho deciso di credere che il Signore voleva incarnarsi in me ossia vivere con me tutte le mie emozioni, desideri, cadute e ricadute. Il quotidiano si è colorato di senso. Ogni momento difficile, anche le colpe, era l’appuntamento con lo Spirito. Ho preso l’abitudine di chiedergli: che cosa vuoi guarire in me attraverso questo evento? Che cosa mi ispiri per questa persona che mi fa soffrire? Poco a poco, il centro della mia attenzione non è più stata la mia persona bensì quella dell’altro. Creato libero, libero di preferire unirsi alle creature piuttosto che a Dio, l’uomo deve crescere per capire la posta in gioco della sua esistenza: viverla con il Signore incarnato in lui e costruire così il Regno o affondare nella disperazione o i sotterfugi.

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1. Brunor, La question interdite, Le Sénevé, Paris 2009.
2. J. Ratzinger, Foi chrétienne hier et aujourd’hui, Cerf 2005.