Lectio sui Vangeli

Lectio sul Vangelo di Giovanni – capitoli 13-14-15
Silvano Fausti


Testo word Fausti – Giovanni Cap. 13-15
Testo  pdf   Fausti – Giovanni Cap. 13-15
Le commandement nouveau

COMINCIÒ A LAVARE I PIEDI
13,1 – 20

“Cominciò a lavare i piedi”. Con questa scena inizia la seconda parte del vangelo di Giovanni, che si svolge tutta in un solo giorno: è “il giorno del Signore”, che culmina con “l’ora” in cui Dio rivela la sua gloria.

Nei cc. 13-17 il Signore lascia ai discepoli il suo testamento. Si tratta di dialoghi e monologhi che spiegano il senso della sua morte, principio di vita nuova per tutti. Il tema di fondo è il suo “andarsene”. Non è un congedarsi per una lunga assenza, ma l’inizio di una nuova presenza. Il suo andarsene infatti non è solo il raggiungimento personale della meta, ma l’irruzione della Gloria nel mondo, come si vedrà nei cc. 18-21.

La scena si inserisce nell’ultima cena, al centro della quale gli altri vangeli pongono l’istituzione dell’eucaristia. Giovanni tralascia le parole sul pane e sul vino; narra invece di Gesù che lava i piedi (vv. 1-20), dà il boccone a Giuda (vv. 21-32) e dona il suo comando, quello dell’amore (vv. 33-35). In questo modo l’evangelista spiega l’eucaristia e illustra il significato della croce: la lavanda dei piedi anticipa l’acqua che sgorgherà dal suo fianco, il boccone dato a Giuda manifesta la comunione piena del Figlio con ogni perduto e il comando dell’amore realizza la vita nuova che è venuto a portare sulla terra. Giovanni non racconta l’istituzione dell’eucaristia, ma, secondo il suo stile, ne contempla e approfondisce il senso per cinque capitoli (cc. 13-17), sviluppando quanto già ha detto nel c. 6 sul pane di vita. Veramente la cena del Signore è il centro della vita cristiana!

Questa azione simbolica di Gesù è un’introduzione narrativa, che fa da principio e fondamento alla seconda parte del vangelo. Il racconto si presta a una pluralità di interpretazioni. I fatti sono sempre più ricchi di ogni tentativo di comprensione. L’alveo interpretativo tradizionale scorre tra due sponde, che abbracciano l’ampio fiume di tutta la tradizione cristiana: da una parte il gesto è inteso come esempio illustrativo dell’amore e del servizio reciproco, dall’altra come rimando all’incarnazione, all’eucaristia, al battesimo o alla penitenza.

Le differenti interpretazioni non si escludono; anzi, si richiamano a vicenda. Il testo, pieno di suggestioni, è un pozzo inesauribile: ognuno può attingere acqua secondo la sua sete, che, più è appagata, più cresce. Giovanni è maestro in quest’arte di aprire finestre sull’infinito: usa poche parole, primordiali ed evocative, in contesti narrativi simbolici, che stuzzicano l’intelligenza a capire sempre altro e altro ancora, fino a schiudersi all’Altro, sempre presente in ogni realtà, per quanto piccola.

L’evangelista, sin dall’inizio, dà al gesto l’interpretazione più ampia possibile: esprime la coscienza che Gesù ha dell’amore del Padre e la sua volontà di manifestarlo ai fratelli in tutta la sua pienezza, sino “all’estremo”, sino a “compimento”.

Qualcuno classifica questo racconto tra i “segni”, ma impropriamente. Infatti il servire non è un segno, ma la realtà stessa dell’amore che si manifesta. È tuttavia vero che lavare i piedi è segno di qualunque altro servizio.

Purtroppo c’è chi fraintende il gesto di Gesù come degnazione e umiliazione, mentre in esso il Signore fa mostra della sua dignità e grandezza. L’umiltà infatti è l’aspetto più alto del Dio amore, la sua gloria inequivocabile: Gesù, lavando i piedi, esprime totalmente la sua divinità, come nel suo innalzamento sulla croce.

Il tema della vita e della luce, fin qui dominante nel vangelo, sfocia in quello dell’amore. È l’amore, luce vera della vita, si realizza non nelle parole o con la lingua, ma nella verità dei fatti (cf. 1Gv 3,18), nell’essere a servizio gli uni degli altri (Gal 5,13). Portare i pesi gli uni degli altri è adempiere la legge di Cristo (Gal 6,2), osservare il “suo” comandamento.

Come abbiamo visto nella prima parte del vangelo, i temi di fondo sono semplici e universali, come i quattro elementi del cosmo che troviamo in ogni vivente: “terra” impastata con “acqua”, vivificata dall’“aria” e dal “fuoco” luce. Ma, a differenza degli animali, il principio vitale dell’uomo è Dio stesso: la sua terra è impastata da quell’acqua zampillante che è lo Spirito, ravvivata dal suo soffio e illuminata dal suo fuoco che è l’amore. Se la prima parte del vangelo usava le metafore dell’acqua, dell’aria, della luce e del pane, che le riassume tutte, d’ora in poi espone direttamente la realtà: l’amore. È ciò di cui tutto parla e di cui tutti abbiamo qualche esperienza: è la verità stessa di Dio e di noi, suoi figli nel Figlio.

In Lc 22,27, durante l’ultima cena, Gesù si definisce “come colui che serve”. Con “la lavanda dei piedi” offre un’icona visibile della sua identità divina. Il suo servizio non è solo una funzione, umile per lui ed utile per noi: rivela la sua natura di Figlio di Dio, Maestro e Salvatore nostro. Quanto egli compie è il suo passaggio da questo mondo al Padre della gloria, atto pasquale del nostro riscatto. Il suo gesto scaturisce dalla piena consapevolezza della sua dignità divina ed esprime, in modo perfetto e compiuto, l’essenza di Dio: l’amore.

Lavando i piedi Gesù, lungi dal darci un esempio di abbassamento, ci eleva alla Gloria: rivela quel Dio, a noi ignoto, la cui sovranità è quella dell’amore. Gesù è re, venuto a testimoniare della verità (18,37): presenta il vero volto di Dio e il volto dell’uomo vero, sua immagine e somiglianza. Ecco l’uomo (19,5): ecco Dio!

Causa dei nostri mali non è la volontà di essere come Dio (Gen 3,5). Infatti Gesù ci ha ordinato: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro” (Mt 5,48). Il peccato sta nel nostro modo di pensare Dio: abbiamo creduto alle parole di colui che è padre della menzogna e omicida dall’inizio (8,44). Il Figlio, lavando i piedi ai fratelli e ordinandoci di imitarlo (v. 15), ci restituisce la verità del Padre e nostra. Dio è amore incondizionato, che pone la propria vita a servizio dell’uomo, fino a dare per lui la vita. La sua gloria si rivela dalla croce, dove è palese a tutti, in modo indubitabile, quanto egli abbia amato il mondo.

La nostra storia, piccola e grande, personale e universale, è un cammino per vedere e riflettere questa gloria, fino a dire: “Noi abbiamo riconosciuto e creduto all’amore che Dio ha per noi” (1Gv 4,16). Purtroppo le immagini, incomplete o sbagliate, che abbiamo di Dio ostacolano questo cammino. Infatti ognuno agisce secondo l’immagine che ha di sé, che corrisponde a quella che ha di Dio.

Il v. 1 è la porta d’ingresso che introduce i temi della seconda parte del Vangelo: la Pasqua, la coscienza di Gesù come Figlio del Padre, e l’ora dell’amore perfetto, che si realizza sulla croce, dove “tutto è compiuto” (19,30). I vv. 2-3 sono una variazione sul tema e accennano a Giuda. Dopo questa introduzione, solenne ed elevata, ci si aspetta una rivelazione sorprendente. E infatti Gesù compie l’azione di lavare i piedi, descritta accuratamente con sette verbi (vv. 4-5). Essa suscita la reazione di Pietro e il dialogo con Gesù (vv. 6-11), che poi, a mensa, spiega il significato di ciò che ha fatto, proclamando beato chi fa altrettanto (vv. 12-17). Il brano conclude con un rimando a Giuda e all’elezione divina (vv. 18-19), per finire con l’esortazione ad accogliere ogni inviato come il Signore stesso (v. 20).

Anche se il gesto di lavare i piedi ha come protagonisti Gesù e Pietro, esso assume il suo pieno significato all’interno del c. 13, che è centrato su Gesù e Giuda: Gesù, che lava i piedi ai discepoli, darà a Giuda il “boccone”, segno del suo amore irrevocabile. Da questa polarità Gesù/Giuda scocca la scintilla che rivela la gloria di Dio: Gesù è il Figlio che, ponendo la vita a servizio dei fratelli che lo uccidono, rivela loro che sono figli del Padre, amati incondizionatamente.

Gesù, che si fa servo per amore, è il Signore, vero volto di Dio e modello dell’uomo nuovo, sua immagine e somiglianza. Egli, come Giuseppe, è il contrario di Caino: ristabilisce la fraternità, infranta dall’uccisione del fratello.

La Chiesa è chiamata a lasciarsi lavare i piedi dal Signore; solo così ha parte con lui e può fare altrettanto.

ADESSO FU GLORIFICATO IL FIGLIO DELL’UOMO
E DIO FU GLORIFICATO IN LUI
13, 21 – 32

“Adesso fu glorificato il Figlio dell’uomo e Dio fu glorificato in lui”, dice Gesù dopo aver dato il boccone a Giuda, che esce nella notte.

Questo “adesso” segna l’inizio dell’“ora” della glorificazione del Figlio dell’uomo (12,23), nella quale è espulso fuori il capo di questo mondo (12,31) e noi finalmente conosciamo Io-Sono (8,28; cf. 13,19). Quando le tenebre si impadroniscono della luce, è l’ora stessa in cui la luce entra nelle tenebre. Ed è la salvezza.

Gesù ha appena lavato i piedi ai discepoli, dicendo: “Se sapete queste cose, siete beati se le fate” (v. 17; cf. Mt 7,21-26). Il suo gesto e la relativa spiegazione sono inclusi nella menzione del tradimento (vv. 2.11.18s), che qui è ripreso come argomento principale. Giuda è fuori dalla beatitudine di quelli che fanno queste cose; è tra quelli per i quali il Signore dice: “Ahimè per voi” (cf. Lc 6,24-26). Giovanni omette l’“ahimè per quell’uomo” pronunciato da Gesù nei riguardi del traditore (Mc 14,21p); elabora però a fondo il tema del tradimento. E con un effetto a sorpresa.

Nel vangelo si sottolinea che Giuda è “uno dei Dodici” (6,71), “uno di voi” (6,70), “uno dei discepoli” (12,4), “colui che mastica il mio pane” (v.18), al quale Gesù dà il suo boccone. Proprio lui è il figlio della perdizione (17,12), il figlio perduto. E il Padre chi cerca se non il figlio perduto (cf. Lc 15,1ss; 19,10)? Il suo tradimento è predetto perché, quando sarà avvenuto, “crediate che Io-Sono”, ha appena detto Gesù (v. 19). Proprio in esso si rivela chi è Dio e che Gesù è Dio, il Figlio che ha il cuore del Padre.

In Giuda è rappresentato l’apice del mistero del male, tragedia dell’uomo e di Dio che lo ama. Esso consiste nel rifiutare l’amore del Figlio e del Padre, che significa perdere la propria essenza di figli e di fratelli.

Il tradimento di Giuda fa pensare all’impotenza di Dio davanti alla libertà dell’uomo; suggerisce l’irreparabilità del male, l’invincibilità delle tenebre e la sconfitta della luce. L’amore perde davanti al male?! Giovanni ci fa vedere che la luce vince le tenebre lasciandosi prendere da esse. La debolezza di Dio è l’unica forza capace di liberare la libertà dell’uomo e riscattarlo dalla morte.

A proposito di Giuda esce la domanda, fondamentale e inquietante, che ciascuno si pone circa il proprio destino: sono perduto o salvato? Tale domanda suppone che ci sia un’alternativa tra salvezza e perdizione: o c’è l’una o c’è l’altra. Il vangelo invece mi fa vedere che sono perduto e salvato, salvato proprio in quanto perduto. Da che cosa sono salvato se non sono perduto?

Giuda di Simone Iscariota rappresenta ogni uomo, inclusi i giudei e i discepoli. Non a caso il suo nome è Giuda, che richiama i giudei, e quello di suo padre è Simone, come quello del discepolo Pietro. Tutti siamo peccatori, privi della gloria di Dio, e giustificati gratuitamente grazie al sangue di Gesù (Rm 3,23s).

Gesù è venuto a salvare il mondo (3,17). La perdizione di Giuda, comune a tutti, è il “luogo teologico” della salvezza. Infatti è impossibile salvare chi non è perduto, come è impossibile riempire un bicchiere pieno. Che salvezza c’è se non dall’inferno? Se la salvezza non fosse dall’inferno, sarebbe falsa e inutile. Infatti non sarebbe salvezza, e noi resteremmo nel nostro male.

La luce non suppone le tenebre, come l’amore non suppone l’odio, né la vita la morte, né la gioia la tristezza. La salvezza invece suppone necessariamente la perdizione. Non che il male sia necessario al bene; ma, siccome c’è, “è necessario” che Dio entri in esso per incontrarci. Per lui la nostra perdizione diventa motivo per salvare noi e opportunità per rivelare se stesso.

La figura di Giuda ci impressiona perché rappresenta quell’ombra profonda che non vogliamo ammettere. È la condizione umana: da Adamo in poi, nessuno ha creduto all’amore del Padre, tutti abbiamo rinunciato alla nostra realtà di figli. Il rifiuto dell’amore è vero suicidio: uccide l’essenza dell’uomo. È il peccato del mondo, del quale siamo tutti azionisti, con la nostra quota parte che ne accresce il capitale. Ma è proprio “questo” mondo perduto che Dio ha tanto amato da dare per esso il suo Figlio unigenito (3,16). Nel nostro male brilla così la nostra verità più profonda: non è l’ombra minacciosa che temiamo, ma la luce dell’amore infinito che Dio ha per noi.

Ognuno di noi è sconcertato, come i discepoli che si guardano gli uni gli altri (v. 22), chiedendo chi sia (v. 24; cf. Lc 22,23) o domandandosi perplessi: “Sono forse io?” (cf. Mc 14,19; Mt 26,22.25).

Il vangelo si preoccupa di mostrare che il tradimento, allora come adesso, non viene dall’esterno, ma sta all’interno dei discepoli, riuniti per celebrare la cena con il Signore.

Gesù, svelando il tradimento, non intende denunciare il traditore; gli offre invece la sua amicizia, pur sapendo che la rifiuta. Mostra così la propria fedeltà all’amico infedele, nella gratuità di un amore che non conosce condizioni né condizionamenti. Gesù ama Giuda, anche se rifiutato. Lo ama e non può non amarlo, perché è l’amore. È il Figlio che ha verso di lui lo stesso amore del Padre, che nessuno finora ha visto. Se egli non avesse dato la vita per Giuda o l’avesse rifiutato per il suo rifiuto, sarebbe uomo e non Dio (cf. Os 11,9): non sarebbe il Figlio del Padre, Io-Sono che salva (cf. v. 19).

Per questo il tradimento di Giuda è la glorificazione di Gesù, Figlio dell’uomo, come Figlio di Dio; ed è insieme la glorificazione di Dio stesso, che in lui si rivela come amore.

Il tradimento di “uno dei Dodici” fa uscire ogni discepolo dalla falsa sicurezza e dalla presunzione di salvarsi, ma anche dall’angoscia di disperarsi e perdersi. Fa capire che la salvezza è un amore assoluto che si dona anche a chi lo rifiuta e non si nega neppure a chi lo nega. Dio ama me e ogni uomo più di se stesso, perché è Dio!

Questa è la “meraviglia” operata da colui che fa della pietra scartata la testata d’angolo (Sal 118,22s), del tempio distrutto il nuovo tempio (2,19). L’uccisione del Figlio è il massimo male che noi possiamo perpetrare; Dio ne fa il massimo bene che lui ci possa offrire: il dono del Figlio. Il Signore, dando la vita a chi gliela toglie, si rivela per quello che è. È vero quanto Giuseppe diceva ai fratelli: “Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso” (Gen 50,20).

Gesù è profondamente turbato (v. 21), come davanti al sepolcro di Lazzaro (11,33), l’amico che ama (cf. 11,3.5.11.36). Questo racconto ha sorprendenti parentele con quello di Lazzaro. Innanzi tutto il contesto è simile: da una parte Gesù dà la vita all’amico morto e riceve la condanna a morte (11,53), dall’altra Gesù, nel boccone dato a Giuda, offre la sua vita all’amico che lo consegna alla morte. Oltre al turbamento (v. 21) e all’amore di Gesù (v. 23), c’è anche il comune richiamo alla notte (v. 30 e 11,10) e alla gloria di Dio che si rivela nella morte (vv. 31s e 11,4).

Giuda non è solo quella figura tragica che inquieta i discepoli e turba Gesù: è il prototipo di noi tutti, scelti da Dio che ci ama come siamo, conoscendo ciò che c’è nel nostro cuore. La croce rivela la libertà e l’assolutezza del suo amore, sovrano su ogni male.

Che ne è della libertà dell’uomo? Come sarà liberata dalla possibilità di rifiutare quell’amore che la rende libera? Prima della croce siamo schiavi dell’ignoranza e della paura: non conosciamo Dio e non “possiamo” ascoltare Gesù (cf. 8,43). Per questo lo rifiutiamo e fuggiamo da lui. Infatti dice Gesù di chi lo crocifigge: “Non sanno quello che fanno” (Lc 23,34). Solo guardando il Figlio dell’uomo innalzato siamo guariti dal veleno mortale (3,14) e nasciamo alla nostra esistenza autentica. Conosciamo infatti ciò che siamo: figli amati dal Padre. Per questo “è necessario” che il Figlio sia innalzato, per attirarci tutti a sé (cf. 3,14; 12,32). Solo allora la nostra libertà è liberata e possiamo amare come siamo amati.

Il tradimento di Giuda sembra il fallimento dell’opera di Gesù. Giovanni invece lo presenta come il compimento delle Scritture (v. 18b). Il piano d’amore di Dio si compie non malgrado, ma attraverso le resistenze dell’uomo. Esse, alla fine, non fanno che “compiere ciò che la tua mano e la tua volontà avevano preordinato che avvenisse” (At 4,28). In esse vediamo l’amore “compiuto” e indubitabile di Dio per noi.

In questa scena del tradimento si menziona per la prima volta “il discepolo che Gesù amava” (v. 23). È qui infatti che il Signore rivela in pienezza il suo amore.

Come Gesù è verso il grembo del Padre (1,18), così questo discepolo è adagiato nel grembo (v. 23) e poi reclinato sul petto del Figlio (v. 25). Questo discepolo, amato da Gesù, per noi è l’opposto di Giuda. Per Gesù invece il discepolo più amato è Giuda, che vorrebbe accogliere nel suo seno e far riposare sul suo petto. Il racconto ha un’intenzione precisa: far passare quel Giuda che è in noi dal tradimento al riposo sul cuore del Figlio. L’identificazione con Giuda, così amato da Gesù, ci permette di riconoscere ed espellere da noi quel male, identico al suo, che è in ciascuno di noi. Il vangelo è scritto per il lettore!

Il diavolo, il divisore, che aveva in cuore di far tradire Giuda (v. 2), qui è chiamato satana, l’avversario, che ora entra nel suo cuore (v. 27). È lui il responsabile dell’uccisione di Gesù. Ma colui che causò la nostra morte, è inconscio strumento della nostra salvezza. Se satana trasforma il gesto di Gesù in odio della luce e fa entrare Giuda nella notte, il Signore trasforma il suo rifiuto in testimonianza assoluta d’amore che entra in ogni notte.

Il racconto fa vedere che Gesù non subisce la passione, ma la dirige coscientemente e liberamente. Se le forze del male scatenano contro di lui tutta la loro violenza distruttiva, il Signore le incanala per realizzare la sua opera. Proprio qui incomincia la rivelazione della “sua” gloria, salvezza dell’uomo.

Come si vede, si tratta di un racconto teologicamente denso, che affronta i nostri interrogativi più profondi: la perdizione e la salvezza, l’odio e l’amore, la libertà dell’uomo e la grazia di Dio, la responsabilità nostra e il suo governo sulla storia. La risposta è data non a parole, ma con dei fatti nuovi che, da un punto prospettico più elevato, aprono a una composizione ancora inedita di questi dilemmi.

Il testo inizia con il turbamento di Gesù, che annuncia il tradimento di uno dei discepoli. Questi chiedono chi sia il colpevole (vv. 21-25). Poi Gesù compie verso Giuda un gesto di amicizia, inteso non a svelare il traditore, ma a rivelargli il suo amore (v. 26). Allora, insieme al “boccone”, anche satana entra in lui e Gesù lo esorta a fare presto ciò che vuol fare. I discepoli non capiscono e Giuda esce nella notte (vv. 27-30). È la notte in cui ormai è entrata la luce del mondo: è l’ora della glorificazione del Figlio e del Padre (vv. 31-32). Se Giuda guarda se stesso, sprofonda nella notte; se guarda Gesù, diventa il discepolo che Gesù ama.

Gesù ama Giuda e dà la vita per lui che lo tradisce. Dopo avergli lavato i piedi, compie verso di lui un ulteriore gesto d’amore e di comunione. Proprio nel suo rifiuto si compie la Scrittura e si rivela la gloria: Dio è amore gratuito per ogni perduto.

La Chiesa si riconosce in Giuda, il traditore amato, per potersi alla fine identificare con il discepolo che riposa sul petto di Gesù.

VI DO UN COMANDO NUOVO:
CHE VI AMIATE GLI UNI GLI ALTRI COME IO AMAI VOI
13, 33 – 38

“Vi do un comando nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come io amai voi”, dice Gesù alla comunità che accoglie il suo amore. Ormai sta per andarsene, come sta scritto di lui. Noi però non “possiamo” ancora andare dove lui va, anche se lo vogliamo. Lo seguiremo più tardi, quando avendo conosciuto il suo amore per noi, saremo in grado di amarci come lui ci ha amati. Allora anche noi saremo dove è lui, perché lui sarà in noi e noi in lui. E noi vedremo il suo volto nel fratello che amiamo, chiunque sia, anche Giuda. E tutti lo vedranno nel volto di chi ama.

Se nel brano precedente c’era il confronto con Giuda, ora c’è il confronto con Pietro, altro lato scuro del nostro cuore. Pietro ama Gesù, vuol essere con lui ed è disposto a dare la vita per lui. Non capire però ancora di capire la cosa principale: la salvezza non viene da ciò che lui fa per il Signore, ma da ciò che il Signore fa per lui. Origine dell’amore non è lui, ma il Signore! Il suo desiderio di essere come Gesù è buono e giusto. Deve però comprendere che esso non può tradursi in volontà di potenza, ma in accoglienza di dono. Il desiderio è la facoltà più alta dell’uomo: lo apre a ciò che gli è impossibile fare e può solo accogliere. L’appetito non produce il cibo, può però accoglierlo.

Gesù nell’ultima cena predice il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro. L’accostamento è intenzionale.

Se in Giuda vediamo il male, in Pietro vediamo “il bene” dal quale Cristo ci salva. È un male più profondo e sottile, travestito da bene, più difficile da riconoscere. È lo stesso che aveva spinto Pietro a impedire che Gesù gli lavasse i piedi.

Fra il tradimento di Giuda e il rinnegamento di Pietro gli altri vangeli pongono l’istituzione dell’eucaristia; Giovanni vi incastona il comando dell’amore. Mostra così come “la cena del Signore” non sia un semplice rito, ma quell’amore concreto con il quale egli ha amato Giuda e Pietro, e chiunque altro in loro si riconosca come peccatore amato da Gesù. La cena della comunità nuova è come quella che si celebra per Lazzaro tornato in vita: c’è il servizio di Marta, che corrisponde alla lavanda dei piedi, e l’amore di Maria, che corrisponde al boccone dato a Giuda. Questo è il profumo che riempie tutta la casa, in cui “si compie” quell’amore con il quale egli ci ha amati.

L’amore di Gesù che si dona è tradito da Giuda e rinnegato da Pietro; ma, a loro volta, il tradimento e il rinnegamento rivelano l’assolutezza di questo amore, che liberamente si consegna e si rivela.

Il v. 33 introduce il tema di Gesù che se ne va e della nostra ricerca di lui; i vv. 34-35 contengono il comando dell’amore, mediante il quale il discepolo può incontrare il suo Signore. Uno infatti abita dove ama: sta dove è il suo cuore. Il comandamento che Gesù ci dà è lo stesso che ha ricevuto dal Padre (cf. 10,18b). Non è una “legge”, che “lega”, ma un “co-mando”, che ci “manda-insieme” con lui verso la pienezza di vita, che è la libertà del Figlio che ama come è amato.

Questo comando non è un’imposizione, ma un dono (“vi do un comando”), che ci fa vivere la nostra realtà di figli e fratelli. Ed è nuovo perché per la prima volta vediamo un Dio che ci lava i piedi e ci dà se stesso, abilitandoci ad amare come lui. Il cuore ama solo se si sa amato: la sorgente del nostro amore reciproco è l’amore con il quale Gesù per primo ci ha amati. Egli ci dice infatti di amarci come lui ci ha amati. Questo come indica non solo il modo, ma anche il “motivo, che è insieme causa agente, esemplare e finale: il suo amore per noi è fonte del nostro amore reciproco. “Amatevi gli uni gli altri, come io amai voi ” si può tradurre: “Amatevi gli uni gli altri con lo stesso amore con il quale io amai voi”.

I vv. 36-38 rivelano il significato profondo del rinnegamento di Pietro, che si dichiara disposto a dare la vita per Gesù. Anche lui, come Giuda, è chiamato ad accogliere il dono di Dio (4,10). Non conosce ancora l’amore gratuito del suo Signore e non sa che la salvezza non consiste nel dare la vita per lui, ma nel fatto che lui dà la vita per noi. Sacrificare la vita per Dio è l’apice della generosità dell’uomo, il punto più alto della religiosità. Ma è una religiosità “perversa”, di chi vuole occupare il posto di Dio. Nel vangelo c’è un capovolgimento: è Dio che si sacrifica per l’uomo e non l’uomo per Dio, è lui che dà la vita per noi e non noi per lui. Infatti “Dio è amore” (1Gv 4,8b); e “in questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati” (1Gv 4,10). “Ora, a stento si trova chi sia disposto a morire per un giusto; forse ci può essere chi ha il coraggio di morire per una persona dabbene. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo peccatori, Cristo è morto per noi” (Rm 5,7s). Per questo possiamo esclamare con Paolo che nulla, neppure il peccato, il tradimento e il rinnegamento, ci può separare dall’amore di Dio in Cristo Gesù (cf. Rm 8,39). L’amore dal quale nulla ci può separare è quello che il Padre ci offre nel Figlio; da quello che noi abbiamo per lui tutto ci può separare: ogni realtà può essere per noi occasione di peccato, tradimento e rinnegamento!

È importante che Pietro rinneghi e che Gesù glielo predica, come ha fatto con Giuda. Solo così scopre che il Signore è fedele a lui che è infedele. Anche se noi manchiamo di fede, il Signore rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso (2Tm 2,13). Egli infatti è amore fedele per sempre.

Nel suo rinnegamento Pietro capirà la gratuità assoluta dell’amore che il Signore ha per lui. Saprà che l’amore non è oggetto di merito; chi lo vuol meritare, lo nega. L’amore infatti o è gratuito o non è; se è meritato è “meretricio”. Meritare l’amore è il terribile peccato del giusto, che si oppone direttamente a Dio che è amore. Pietro, perdonato nel suo peccato, conoscerà chi è il Signore (cf. Ger 31,34) e sperimenterà che “eterna è la sua misericordia” (cf. il ritornello del Salmo 136). È il canto che conclude la cena pasquale, al quale Mc 14,26 accenna immediatamente prima della predizione del rinnegamento di Pietro.

La coscienza del peccato perdonato segnerà per Pietro la difficile conversione dalla legge al Vangelo (cf. Fil 3,1-16), che lo renderà capace di pascere i fratelli (21,15-17), confermandoli nella fede (Lc 22,32). La fede infatti è credere alla fedeltà di Dio nella nostra infedeltà. Pietro, grazie all’esperienza del rinnegamento, potrà testimoniare a tutti che il Signore è amore e misericordia. Se non avesse rinnegato, avrebbe sempre potuto pensare che il Signore lo amava perché lo meritava. Non avrebbe colto il mistero di Dio. Paradossalmente si può dire che, se Pietro avesse dato la vita per Gesù, non si sarebbe salvato. Perché la salvezza è ciò che Pietro non può né vuole capire: Gesù che gli lava i piedi e dà la vita per lui.

L’esperienza che il Signore non rinnega chi lo rinnega farà conoscere a Pietro e a tutti il comando nuovo: sperimenterà l’amore con cui è amato e potrà anche lui posare il capo sul petto di Gesù, aver parte con lui e amare gli altri con il suo stesso amore.

Nel c. 13, oltre Gesù, ci sono tre figure: il discepolo che Gesù amava, Pietro e Giuda. Pietro rappresenta la comunità, che sta tra il discepolo amato e Giuda: attraverso la propria infedeltà è chiamato a fare l’esperienza di quell’amore assoluto che si è manifestato nei riguardi di Giuda, per capire di essere anche lui il discepolo che Gesù amava. Non a caso la predizione del tradimento di Giuda è inserita tra la reazione di Pietro a Gesù che gli lava i piedi e la predizione del suo rinnegamento.

Gesù mi ha amato e ha dato se stesso per me (Gal 2,20). Non perché lo meriti, ma perché sono peccatore (cf. 1Tm 1,15). Il Signore mi ama solo perché non può non amarmi, perché è amore.

La Chiesa riconosce, con Giuda e con Pietro, di non meritare questo amore. Solo così può conoscerlo come tale. Riconoscendosi in Giuda e in Pietro, i suoi due rappresentanti, può posare il capo sul petto di Gesù, per ascoltare e vedere la sua gloria, che si rivelerà nei capitoli seguenti.

NON SIA TURBATO IL VOSTRO CUORE
14, 1-14

Non sia turbato il vostro cuore”, risponde Gesù ai discepoli, smarriti per la sua partenza. Hanno turbamento profondo e senso di orfanezza: cosa sarà di loro quando il Signore se ne sarà andato?

La Chiesa fin dall’inizio si porta dentro una domanda: che fare in questo tempo, tra la sua partenza e il suo ritorno?

La comunità cristiana nasce, ora come allora, da una comprensione profonda della sua partenza. Gesù non è assente; ha dato inizio a una nuova presenza, che si concreta nell’amarci “come” lui ci ha amati, lavando i piedi a Pietro che rinnega e dando il boccone a Giuda che tradisce. Non ci abbandona, ma ci dona il suo Spirito, che ci fa vivere in lui, come lui in noi. Il suo andarsene non è una morte che decreta la fine sua e nostra; è invece un compimento, in cui egli è glorificato e noi nasciamo a una fecondità di vita filiale e fraterna.

Nel testo si avverte anche la preoccupazione per i pericoli che i discepoli incontreranno in questa attesa lunga, sempre troppo lunga! La partenza di Gesù lascia un vuoto interiore che facilmente può essere riempito da surrogati. Infatti se la “via” è una, le deviazioni sono numerose; se la verità esige intelligenza, le menzogne germinano spontaneamente; se la vita cresce con lentezza, la morte viene improvvisa e basta qualunque stoltezza a provocarla.

Oltre le difficoltà interiori, ci sono anche quelle esteriori. L’ambiente ostile non aiuta certo a camminare sulla retta via, a cercare la verità e a promuovere la vita. Anzi si oppone duramente a chiunque lo mette in questione.

Come si vede, l’evangelista è preoccupato della sua comunità e le indica la via maestra da seguire: la fede in Gesù e l’amore che ci viene dal suo Spirito. È questa l’eredità che il Signore ci ha lasciato, che ci permette di vivere come lui ha vissuto.

Gli ampi discorsi di Gesù nell’ultima cena sono il suo testamento e corrispondono, seppur con stile diverso, ai discorsi escatologici degli altri vangeli. Nella prospettiva della sua passione, ormai imminente, chiariscono cosa il suo “andarsene” significhi per la nostra vita di ogni giorno. Sono parole di addio: chi parte apre il cuore e confida il senso compiuto della sua esistenza. È il Signore glorificato che parla (cf. 13,31), per tranquillizzarli sul futuro (14,1-14). Esso sarà sotto il segno del suo amore (14,15-31), che li unirà profondamente a lui e al Padre (15,1-17), così che possano testimoniarlo davanti al mondo, partecipando allo scandalo della croce (15,18-16,4a). È un bene la sua partenza: con essa comincia la sua venuta nello Spirito, che ci fa vivere in questo mondo l’amore con il quale lui ci ha amati (16,5b-15), fino a quando saremo nella gioia definitiva dell’incontro con lui (16,16-33). Infine il c. 17 rivede il cammino dal punto d’arrivo: la comunione del Figlio con il Padre, che il Figlio offre ai fratelli.

La partenza di Gesù apre la storia dell’uomo al suo stesso cammino di Figlio. In questi discorsi il futuro del mondo è visto come progressiva glorificazione del Padre nel Figlio dell’uomo e, in lui, di ogni figlio d’uomo. In Gesù, il primogenito, è rivelato il mistero di ogni suo fratello.

Il c. 14 è un incoraggiamento ai discepoli, perché non sia turbato il loro cuore, come si dice all’inizio e alla fine (vv. 1.27). Il turbamento è vinto dalla conoscenza della verità, che fa capire la partenza di Gesù come compimento della sua opera e dà il coraggio di seguirlo. Con il suo “andarsene” Gesù si rivela definitivamente via, verità e vita: la via per raggiungere Dio, verità e vita dell’uomo. Se prima il Maestro era con noi, ora è in noi, mediante la fede e la preghiera, l’amore e il dono dello Spirito. Questa è la sua nuova presenza, che realizza la grande promessa: è l’alleanza nuova tra Dio e uomo, che va oltre la stessa morte, in comunione con il Signore mediante il suo Spirito che è in noi (cf. Ez 36,26s).

Il capitolo è un’unità che, per comodità di lettura, articoliamo in due parti: la prima è sulla fede in Gesù (vv. 1-14) e la seconda sull’amore (vv. 15-31).

In questa prima parte si parla sei volte di “credere”, quattro di “conoscere”, tre di “sapere” e tre di “vedere”. Credere è comprendere in profondità che l’andarsene di Gesù è un precederci e prepararci un posto, perché anche noi possiamo essere sempre dove è lui. Egli infatti è il Figlio, la “via” per il ritorno al Padre (vv. 1-4).

Tommaso obietta che i discepoli, ignorando dove lui vada, non conoscono la via (v. 5). Nessuno è tanto smarrito quanto chi non sa dove andare! Gesù risponde che conoscere lui è “la via” per giungere al Padre. Non la legge, ma il Figlio porta a Dio, perché rivela “la verità” che lui è Padre e noi siamo suoi figli. Questa verità è per noi “la vita”. Conoscere lui è conoscere il Padre e la propria realtà di figli. Il Gesù terreno, la carne del Verbo, Figlio di Dio e Figlio dell’uomo, svela la verità nostra e di Dio. Per questo è la via da seguire per avere la vita. In lui, Parola di Dio, ci è donata la conoscenza piena di ciò che siamo e dobbiamo fare (vv. 6-7).

A Filippo, che gli chiede di mostrare il Padre, principio e fine di ogni cammino, Gesù risponde che chi ha visto lui, ha visto il Padre. Infatti tutta la sua vita di Figlio è “esegesi” del Padre che nessuno mai ha visto (1,18). Il modo nel quale egli ha vissuto la fraternità con noi, ci fa vedere non solo che abbiamo un Padre comune; ci mostra anche chi egli è. Il Figlio infatti ha lo stesso volto del Padre (vv. 8-9). Attraverso le sue opere e le sue parole, Dio si comunica a noi come amore tra Padre e Figlio. Per questo anche noi faremo opere come le sue, anzi ancora più grandi, proprio perché è tornato al Padre e dona a ciascuno di noi la pienezza del suo Spirito (vv. 10-12).

Gesù non ci abbandona e non ci lascia soli. Il vuoto della sua partenza da noi è colmato dalla sua presenza in noi. L’adesione profonda a lui è la fiducia che ci fa superare ogni paura. Questa fede si esprime nella preghiera fatta nel suo nome. Essa è un dialogo con il Padre, che possiamo fare perché siamo nel Figlio, dal quale otteniamo tutto ciò che ci serve per vivere da figli (vv. 12-14).

In sintesi: l’andarsene di Gesù, che tra poche ore sarà innalzato, è visto come un prepararci il posto e un tornare a noi in modo più profondo, perché anche noi siamo dove lui è. Con il suo andarsene da noi comincia il nostro ritorno a lui: ci è donato di andare dove lui è andato, di camminare come lui ha camminato.

Gesù è il Figlio che ci ha mostrato il volto del Padre. Nel suo dimorare presso di noi ci ha aperto il cammino verso la nostra dimora, nel suo andarsene presso il Padre ci dona la forza di compierlo.

La Chiesa, credendo in lui, il Figlio, conosce la via del ritorno a casa, vede la verità di Dio che ci è Padre e partecipa alla sua stessa vita di Figlio.

SE QUALCUNO MI AMA, OSSERVERÀ LA MIA PAROLA
14,15-31

“Se qualcuno mi ama, osserverà la mia parola”: è il ritornello che, con variazioni, Gesù ripete ai suoi discepoli (cf. vv. 15.21.23.24).

Amare Gesù, il Signore, è il centro del cristianesimo, compimento del precetto: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutte le tue forze” (Dt 6,5). Ora i discepoli sono in grado di amarlo. Hanno visto come lui li ama con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze: si è fatto loro servo e ha dato la vita per loro, anche se lo rinnegano e tradiscono.

Egli è fedele a noi e ci ama di amore eterno (Sal 117; Ger 31,3). Il nostro amore per lui è risposta al suo per noi, che ci vuole simile a lui. Amare lui significa, in concreto, accogliere e vivere la sua parola.

Gesù tra poche ore offrirà la vita per noi. È bene per noi che se ne vada (16,7). Proprio così ci prepara il posto e ci apre la via della verità e della vita, per essere anche noi dove lui è (vv. 1-14). Per questo ci manda, insieme al Padre, il Paraclito (v.16).

Non ci lascia quindi soli. Se lo amiamo, lo portiamo nel cuore e lui abita. Il Signore non è più solo con noi e presso di noi, ma addirittura in noi. Questo è il suo ritorno definitivo a noi. Con il suo andarsene inizia la sua nuova presenza, l’alleanza nuova ed eterna che i profeti hanno promesso. Il tema dell’alleanza fa da sottofondo al discorso di congedo di Gesù. Mai nominata esplicitamente, è descritta attraverso le sue caratteristiche: amore e osservanza della Parola, presenza ed immanenza reciproca, dono dello Spirito e di un cuore nuovo.

Queste parole di Gesù sono difficili da spiegare, perché semplici come l’acqua e il pane: le conosce chi ne gusta. Esse si riferiscono a ciò che costituisce ogni relazione positiva tra le persone: amare e osservare la parola, dimorare con/presso/in e vedere, vivere e conoscere, manifestare e dire, ricordare e insegnare, pace e gioia. I termini sono collegati tra di loro. Infatti chi ama osserva la parola dell’amato, dimora con/presso/in lui e quindi lo vede, vive di lui e quindi lo conosce. La parola che lo manifesta, insegnata e ricordata, è per lui fonte di pace e di gioia.

Il tessuto connettivo del testo è il verbo “amare”, ripetuto dieci volte, che descrive la relazione del discepolo con Gesù e con il Padre. L’amore per Gesù ci fa entrare nella nuova alleanza, stabilendo un rapporto con Dio fondato sul suo amore di Padre, che il Figlio è venuto a comunicarci. Dio non è più lontano: è “con” e “presso” di noi, addirittura “in” noi mediante il suo Spirito, che ci riempie della sua conoscenza e ci fa sua dimora. L’andarsene di Gesù è la glorificazione del Figlio dell’uomo e di ogni figlio d’uomo, reso partecipe dell’amore reciproco tra Padre e Figlio.

Lo Spirito, che tra poco ci donerà, diventerà il principio della nostra esistenza di figli di Dio e di fratelli tra di noi: ci farà capire e ci suggerirà dal di dentro ciò che il Figlio ha detto, perché viviamo del suo amore, fonte di pace e di gioia.

Tutto il discorso mostra qual è il frutto dell’amore di Gesù: la comunione con lui, il Figlio, ci fa entrare in relazione con il Padre e ci fa vivere del loro amore reciproco. Innanzi tutto si specifica che amare Gesù è osservare la sua parola, che ci dona lo Spirito della verità (vv. 15-18). Anche se egli se ne va, chi lo ama lo vede, perché partecipa della sua stessa vita (vv. 19-21). Il mondo non ha questa conoscenza perché non lo ama e non conosce la sua parola: ignorando il Figlio, non ha lo Spirito della verità che gli fa conoscere il Padre (vv. 22-24). Tutto ciò che Gesù ha detto quando era tra noi, ci verrà fatto comprendere e ricordare dallo Spirito (vv. 25-26). Gesù non ci abbandona, ma compie il senso della sua venuta tra noi: ci lascia la sua pace e la sua gioia, frutto dello Spirito di amore (vv. 27-28). Gesù ha predetto tutto, perché crediamo che il suo andarsene non è un morire, ma un tornare a noi e in noi con la sua presenza di amore, che vince il male e mostra al mondo chi è il Padre (vv. 29-31).

Gesù è il Signore che ci ama: amare lui è il comando che ci rende simili a lui.

La Chiesa nasce dall’amore di Gesù per lei, che diventa il suo stesso amore per lui. Non si tratta di un sentire vago o estatico, ma di un conoscere e mettere in pratica le sue parole.

IO-SONO LA VITE E VOI I TRALCI
15,1-17

“Io sono la vite, voi i tralci”, dice Gesù ai suoi discepoli presenti e futuri. Con questa metafora, ricca di suggestioni, il Signore glorificato (13,31) parla della sua unione profonda con quelli che aderiscono a lui, lo amano e osservano le sue parole (cf. c. 14). Vite e tralci sono un’unica pianta: hanno la medesima linfa e producono lo stesso frutto. Il contesto dell’ultima cena e l’immagine della vite, che suggerisce il vino, alludono all’eucaristia: se uno mangia la sua carne e beve il suo sangue, ha la vita eterna: il Signore dimora in lui e lui nel Signore (cf. 6,54-58).

I cc. 15-16 sono una variazione sul tema dei cc. 13-14. Giovanni, il cui simbolo è l’aquila, volteggia sullo stesso luogo, con cerchi sempre più elevati. Qui, parlando della comunione che già ora c’è tra Gesù e i suoi, ci porta oltre lo spazio e il tempo, abbracciando ogni spazio e tempo, per dilatarsi infine nell’immensità di Dio (c. 17). Il discorso ha la continuità discontinua propria del planare dell’aquila: in una corrente ascensionale, senza moto percettibile, ci trasporta sempre più in alto, con una visione sempre più ampia che, dal cielo, mette a fuoco ogni lontananza sulla terra.

Non si tratta di un “doppione”, ma di una “ripetizione” di quanto ha appena detto. La verità va contemplata non una, ma infinite volte, per poter essere interiorizzata e gustata. Ogni volta il ricordo di ciò che si è capito si ravviva con risonanze nuove, più semplici e profonde, che riempiono il cuore e lo allargano senza fine. Per noi, che viviamo nel tempo, la ripetizione è principio di vita, come il battito del cuore, il ritmo del respiro e ogni altra funzione vitale. Questo vale anche per la vita nello Spirito: la Parola, sempre di nuovo ascoltata, masticata e assimilata, ci fa vivere e crescere giorno dopo giorno. Nel costante ricordo essa si imprime in noi e ci modifica, fino a trasformarci in se stessa. Uno infatti vive di ciò che ri-corda, di ciò che ha nel cuore. Nella ripetizione non c’è il pericolo della noia: nella frequentazione assidua, ciò che è bello è sempre più bello. La ripetizione è il fondamento della “contemplazione”, che ci porta progressivamente a diventare riflesso della bellezza di Dio.

La vite è il frutto della terra promessa: dà il vino, che allieta il cuore dell’uomo (Sal 104,15). È simbolo della gioia e dell’amore, quel “di più” necessario alla vita dell’uomo perché sia umana. Richiama il “principio dei segni” che Gesù compì a Cana, rinnovando l’alleanza (cf. 2,1ss).

L’abbondanza del frutto della vite evoca la benedizione dei tempi messianici (cf. Gen 49,10-12). In Osea 10,1-3 la vigna è Israele stesso, che, più è benedetto da Dio, più lo dimentica e si attacca agli idoli. Isaia 5,1-7 è il noto canto della vigna, in cui Dio si lamenta con il suo popolo: alla sua fedeltà e premura, contrappone infedeltà e dimenticanza. Non rispondere al suo amore significa rompere l’alleanza con lui, nostra vita, e distruggere noi stessi, sua vigna (cf. Ger 2,21; Ez 15,1-6; 19,10-14). Ma il Signore resta fedele, e, alla fine, si compiacerà della sua vigna, che avrà fatto la pace con lui (Is 27,2-5).

Anche gli altri vangeli conoscono questa allegoria della fedeltà ostinata di Dio e dell’infedeltà crescente dei capi del popolo, causa della morte del Figlio (cf. Mc 12,1-12p).

Il Salmo 80 rilegge la storia di Israele sotto la metafora di una vigna, piantata da Dio con amore e vigore, che diventa florida fino a riempire le terra, dai monti al mare e al fiume. Ma ora è abbandonata e devastata. Il Salmo è un’invocazione al Signore perché visiti questa sua vigna, faccia splendere il suo volto e la salvi dalla desolazione.

Giovanni qui presenta la risposta a questa preghiera, finalmente esaudita. Ora la vigna è Gesù stesso, vera vite che porta frutto. In lui c’è il passaggio dalla vigna alla vite, dai molti all’unico, che è insieme risposta di Dio all’uomo e dell’uomo a Dio. Essere uniti a lui mediante la fede, l’amore e l’osservanza della sua parola (cf. 14,15ss), ci fa passare dall’infedeltà alla fedeltà, dalla sterilità alla fecondità, dal lutto alla gioia.

In lui la nuova alleanza tra Dio e uomo è indissolubile: è lui stesso la nuova alleanza, perché è insieme Figlio di Dio e Figlio dell’uomo. Il nuovo popolo è formato dai tralci uniti a lui, unica vite che produce frutti d’amore.

Dopo la metafora di Gesù-vite e della fecondità dei tralci che dimorano in lui (vv. 1-6), si dice che dimorare in lui è compiere il suo comando di amarci con il suo stesso amore (vv. 7-17). È un’istruzione chiara al popolo della nuova alleanza, perché capisca la novità di vita alla quale è chiamato e non cada nella presunzione e nell’infedeltà di prima (cf. Rm 11,17-24; 1Cor 10,11ss). Queste parole servono a rassicurare i discepoli. Ma anche ad ammonirli, perché restino uniti a lui mediante l’osservanza del comando dell’amore, radice e frutto di ogni fecondità.

La parola “dimorare”, cara a Giovanni, richiama relazioni, affetti, amore. L’uomo dimora dove ha il suo cuore: abita dove ama, è di casa in colui che ama. In Gesù, Figlio dell’uomo e Figlio di Dio, anche noi siamo figli, rivolti verso il seno del Padre. L’unione con Dio non è un vago affetto, una speculazione esoterica o un’illuminazione intellettuale: è vita concreta, spesa nell’amore per i fratelli. L’amore si prova con i fatti, più che con i sentimenti e le parole.

Questa unione “porta frutto” (esce sette volte), il frutto dell’“amore” (cinque volte “amare” e quattro “amore”), che ci rende suoi “amici” (tre volte), partecipi della sua “gioia” (due volte). Il punto d’arrivo è la gioia, segno proprio della manifestazione di Dio e compimento dei desideri dell’uomo.

Queste parole di Gesù ci fanno vedere e contemplare il nostro rapporto con lui e con il Padre. Sono da ricordare continuamente, per vivere sempre più di lui come lui del Padre.

Gesù è la vera vite feconda, che porta il frutto desiderato. Egli vive totalmente l’amore di Dio verso l’uomo e l’amore dell’uomo verso Dio.

La Chiesa, come tralci uniti a quest’unica vite, porta lo stesso frutto: nell’amore concreto vive la vita di Dio, partecipa alla pienezza della sua gioia.

SE IL MONDO VOI ODIA,
SAPPIATE CHE PRIMA DI VOI HA ODIATO ME
15,18 – 16,4

Se il mondo odia voi, sappiate che prima di voi ha odiato me”, dice Gesù a quelli che, uniti a lui, vivono il comando dell’amore.

Chi ama è odiato! I discepoli non devono scandalizzarsi. Ciò che da sempre è capitato ai giusti, capita a lui e capiterà ai suoi discepoli. In loro si compie ciò che ancora manca alla passione del Figlio per la salvezza dei fratelli (cf. Col 1,24).

Invece di cadere nello scandalo, sono chiamati a superarlo: si tratta di una prova, che sarà per loro motivo di gioia (cf. Gc 1,2-4; 1Pt 1,6-7; At 5,41). Si avvera infatti per loro l’ultima beatitudine del Regno, che li rende simili al loro Signore e a quanti, prima di loro, l’hanno testimoniato: “Beati siete, quando vi insulteranno e vi perseguiteranno e diranno ogni male contro di voi, [mentendo,] per causa mia: gioite ed esultate, perché la vostra ricompensa è grande nei cieli; così infatti perseguitarono i profeti prima di voi” (Mt 5,11p).

L’opposizione del “mondo” contro chi agisce bene è una sorpresa amara. Sembra qualcosa di strano e indebito (cf. 1Pt 4,12). “Chi vi potrà far del male, se sarete ferventi nel bene?” (1Pt 3,13). Così pensiamo, fino a quando non facciamo l’esperienza che, proprio agendo con giustizia, ci tocca subire l’ingiustizia. È la legge fondamentale della storia, difficile da capire: il male che facciamo, lo pagano gli altri; il bene che facciamo, lo paghiamo noi. “Nessuna buona azione resta impunita!”.

Il “mondo” in Giovanni ha, per lo più, una connotazione negativa. Non è tanto il creato, opera di Dio e scenario della storia dell’uomo. È piuttosto un modo di pensare e di agire fondato sull’egoismo e sulla paura. Si impone a tutti, quasi un canovaccio nel quale ognuno è costretto dalle circostanze a recitare la sua parte. Chi cerca la verità, la libertà e l’amore è odiato, perseguitato ed estromesso come uno che smaschera e guasta il gioco opposto, che tutti fanno. Eppure proprio “questo” mondo Dio ha tanto amato da dare suo Figlio, per salvarlo (3,16s).

La comunità cristiana non deve temere. È chiamata a vivere “nel” mondo senza essere “dal” mondo (17,14-16). Rompe così la sua logica di violenza e di morte, riconoscendo nel Dio dell’amore e della vita il principio del proprio esistere.

Chi, ingiustamente, subisce ostilità, si sente smarrito. Gli pare di viaggiare contro mano. Ma lo Spirito gli testimonia che è nella verità e lo rende capace di testimoniarla. Per questo è una grazia, per chi conosce il Signore, soffrire ingiustamente (1Pt 2,19).

Se la comunità cristiana non sperimenta difficoltà, deve preoccuparsi molto. Si trova in una pax perniciosa, fatta di compromessi, spartizioni e compravendite con il potere mondano.

Il pericolo non è l’ostilità del mondo, ma le sue lusinghe, che fanno cadere nella mondanità. Non che bisogni cercare persecuzioni. Sarebbe stolta imprudenza, o peggio. Ma non si può neanche cercare a tutti i costi di evitarle. Sarebbe tradire l’amore della verità e la verità dell’amore, diventare sale senza sapore, che non giova a nulla (Mt 5,13).

Chi opera il bene si attira odio, talora anche persecuzione. Il mondo infatti ama ciò che è suo (v. 19); odia invece tutto ciò che gli mostra la sua bruttezza e vacuità. Il discepolo sa che “amare il mondo è odiare Dio” (Gc 4,4). Riconosce che l’accumulo di ricchezze produce povertà, spirituale e materiale; sa che la ricerca di vanagloria spegne l’autenticità; non ignora che la sete di potere sopprime la libertà, propria e altrui. Queste cose, che il mondo tanto ama da farne il principio del proprio agire (cf. 1Gv 2,16), non sono che la perversione dei desideri più profondi dell’uomo. Promettono vita, ma danno morte. Distruggono l’umanità dell’uomo e gli scavano dentro un vuoto sempre maggiore. Chi vive nell’amore e nella condivisione, nella verità e nella libertà del servizio reciproco, è come luce che dissipa le tenebre. Per questo le tenebre lo odiano. I veri cristiani non sono odiati perché si emarginano o perché agiscono male (cf. 1Pt 4,16). Chi si emargina o prevarica, giustifica la società. Sono invece odiati perché fanno il bene, emarginati perché mostrano quella diversità alla quale ogni uomo si sente intimamente chiamato: diventare come Colui che ha detto: “Siate santi perché io sono santo” (Lv 11,44). Il cristiano disturba perché capovolge i criteri sui quali il mondo si regge. All’“homo homini lupus” sostituisce il principio “homo homini Deus”: l’uomo è chiamato ad essere non come un lupo, ma come Dio nei confronti dell’altro uomo. E questo avviene nella testimonianza di un amore che non esercita violenza, nemmeno quando gli tocca portarla. Non si lascia vincere dal male, ma vince il male con il bene (Rm 12,21).

È facile, per evitare l’odio del mondo, cadere nella tentazione di confinare la fede nell’ambito spiritualistico, agendo come tutti gli altri nella vita pratica. Basta infiorarla di qualche opera buona in favore dei poveri. L’assistenza tacita la coscienza e lubrifica il sistema di ingiustizia, evitando costosi attriti. Pochi effettivamente si chiedono a che gioco si stia giocando nei rapporti di produzione e di consumo, che rispetto c’è per l’altro, soprattutto per il povero. Si tratta di una fede adulterata, a buon mercato, che mette insieme diavolo e acquasanta – stanno bene insieme, perché quest’acqua non è per niente santa. Spesso, purtroppo anche in buona fede, vanno a braccetto Dio e mammona, religione e oppressione, devozione e ingiustizia. Questa fede – non odiata dal mondo, anzi funzionale ad esso – accusa di fanatismo, addirittura di tradimento del vangelo, le voci profetiche che cercano di risvegliare la coscienza. Il vero pericolo è sempre stato, e sempre sarà, la mondanità di una Chiesa che dimentica lo spirito delle beatitudini. Allora la croce è ridotta a un ornamento di vario materiale e uso a copertura e giustificazione di iniquità.

Quanti mettono in questione il fatto che la globalizzazione sia sotto la legge dell’interesse economico e non della giustizia e della fraternità? Quanti pensano che è devastante ridurre l’uomo a macchina di produzione del massimo profitto? Oggi, sotto l’influenza dei mass-media, è così forte il dominio del “mondo” sull’intelligenza e sulla volontà, addirittura sull’inconscio di tutti, che “questo” modo di vivere si impone come l’unico possibile, anzi il migliore dei modelli possibili. Non viene il sospetto che questo sia solo il modo migliore, finora trovato, per annegare tutti nella stupidità. Ci fa camminare, come dice Paolo dei pagani, nella vacuità della mente, con l’intelletto ottenebrato e il cuore indurito, anestetizzati e interiormente dissolti nella nostra identità, intenti a divorare avidamente ciò che ancora non abbiamo consumato (cf. Ef 4,17-19). Anche i credenti sposano senza problemi il modello culturale dominante. Stiamo assistendo alle più gravi ingiustizie: i ricchi affogano nel grasso e il numero dei poveri va crescendo. Ma, fatto ancor più grave, gli stessi poveri vogliono diventare come i ricchi che li opprimono (cf. Gc 2,5-7). È una vera perdita di umanità, che minaccia oppressi e oppressori, tutti concorrenti nello stesso gioco fatale.

Quanto Gesù dice ai discepoli non è solo un incoraggiamento per una minoranza spaesata, come poteva sembrare la comunità degli inizi. È un ammonimento per noi, perché apriamo gli occhi sul tesoro che abbiamo e che è per tutti: la salvezza dell’umanità dell’uomo.

Bisogna stare attenti agli inganni. Taluni pensano di realizzare il regno di Dio usando i mezzi propri del mondo. I “buoni” sono tentati di combattere contro i “cattivi”, per il trionfo del bene. Stentano a capire che non devono combattere, anche se sono combattuti. Contro l’odio, l’unica arma è quella dell’amore. La violenza infatti è vinta solo dalla mitezza, la menzogna dalla verità, il dominio dal servizio. Voler far giustizia con la forza, non solo è inutile (cf. Sir 20,4), ma anche controproducente: il bel nome di Dio è bestemmiato per causa nostra (Rm 2,24; Is 52,5).

Dio non ha perso il controllo della macchina che ha messo in moto: vuol salvare il mondo che ama. E ci riesce con il solo amore, principio, mezzo e fine di tutto.

Non abbia paura il piccolo gregge: al Padre è piaciuto affidargli il suo regno (Lc 12,32), quel regno che è per tutti i suoi figli.

Il testo parla all’inizio dell’odio e della persecuzione immeritata (15,18-25) e alla fine dell’espulsione dalla sinagoga in nome di Dio (16,1-4). Al centro c’è la testimonianza dello Spirito della verità nei discepoli e attraverso di loro (15,26-27).

Gesù ha espulso il capo di questo mondo con il suo essere elevato da terra: con l’amore ha vinto l’odio.

La Chiesa, associata alla lotta e alla vittoria del suo Signore, usa le sue stesse armi, non quelle del nemico. Altrimenti si allea con l’avversario.