Veglia Pasquale nella Notte Santa (A)
Matteo  28,1-10

1 Il quel giorno dopo il sabato, all’alba del primo giorno della settimana, Maria di Màgdala e l’altra Maria andarono a visitare la tomba. 2 Ed ecco, vi fu un gran terremoto. Un angelo del Signore, infatti, sceso dal cielo, si avvicinò, rotolò la pietra e si pose a sedere su di essa. 3 Il suo aspetto era come folgore e il suo vestito bianco come neve. 4 Per lo spavento che ebbero di lui, le guardie furono scosse e rimasero come morte. 5 L’angelo disse alle donne: «Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. 6 Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, guardate il luogo dove era stato deposto. 7 Presto, andate a dire ai suoi discepoli: «È risorto dai morti, ed ecco, vi precede in Galilea; là lo vedrete». Ecco, io ve l’ho detto». 8 Abbandonato in fretta il sepolcro con timore e gioia grande, le donne corsero a dare l’annuncio ai suoi discepoli. 9 Ed ecco, Gesù venne loro incontro e disse: «Salute a voi!». Ed esse si avvicinarono, gli abbracciarono i piedi e lo adorarono. 10 Allora Gesù disse loro: «Non temete; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno».


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La Pasqua del Signore
di ENZO BIANCHI

In questo giorno, il primo dopo il sabato, inizio di una nuova settimana, in verità inizia un nuovo tempo, il tempo della vittoria dell’amore sulla morte, un tempo che durerà fino alla fine del mondo (cf. Mt 28,20). È il tempo in cui Gesù, il Signore vivente, “viene” per incontrare gli uomini e le donne che cercano di dare un senso alla loro vita; è il tempo in cui i discepoli e le discepole di Gesù, senza averlo visto, convinti che egli è vivente, cercano di seguirlo e di conformare la loro vita quotidiana alla sua vita umanissima (cf. 1Pt 1,8-9). Questo giorno che segna una svolta nella storia è la Pasqua del Signore, il Giorno del Signore!

Che cosa è accaduto nella storia, all’alba di quel 9 aprile dell’anno 30 della nostra era, il terzo giorno dopo la crocifissione e la morte di Gesù? Tutti i vangeli ci danno una testimonianza concorde: la tomba nella quale Gesù era stato sepolto viene trovata vuota. Ma seguiamo il racconto di Matteo, come ci chiede la liturgia della grande e santissima veglia pasquale. Passato il sabato, all’albeggiare del primo giorno della settimana, le donne discepole che erano state testimoni della morte di Gesù in croce (cf. Mt 27,55-56) e avevano accompagnato il suo seppellimento da parte di Giuseppe di Arimatea (cf. Mt 27,61) vengono alla tomba di Gesù. Perché? Matteo dice che lo fanno per “contemplare” (verbo theoréo) il sepolcro, mentre Marco e Luca per ungerlo (cf. Mc 16,1; Lc 24,1). Il loro affetto fedele le spinge a tornare dove Gesù è stato deposto, al suo corpo, perché queste donne continuano a essere attratte dal loro maestro e profeta, seguito a caro prezzo fino alla fine. Sono Maria di Magdala e l’altra Maria, venute a Gerusalemme dalla Galilea con Gesù.

In quell’inizio del giorno sono assenti i discepoli, quelli che avevano lasciato tutto per seguire il rabbi Gesù (cf. Mt 4,18-22) ma poi durante la sua passione lo avevano abbandonato per fuggire, tutti, nessuno escluso (cf. Mt 26,56). Anche questa assenza mette in risalto la presenza delle discepole, che nel loro legame perseverante con Gesù diventano le prime testimoni della sua resurrezione. Non appena queste donne si avvicinano al sepolcro, ecco accadere l’indicibile: avviene una rivelazione da parte di Dio e viene dato alle donne un annuncio che solo Dio poteva dare, annuncio che si impone.

La terra stessa sembra partecipare alla rivelazione, sussultando come in un terremoto, e un messaggero del Signore discende dal cielo, inviato da Dio, con il volto lampeggiante di luce e le vesti risplendenti. Abbiamo qui le immagini veterotestamentarie che tentano di raffigurare il mistero non raccontabile a parole e, insieme, abbiamo la descrizione del timore che sempre coglie chi è avvicinato da Dio. Questo messaggero – solo Matteo narra tale particolare – scende dal cielo e fa rotolare la grande pietra che chiudeva il sepolcro, sigillata dalle guardie poste a presidio dalle autorità religiose (cf. Mt 27,62-66); poi fa di questa pietra un trono, sedendosi gloriosamente sopra di essa. La pietra che chiudeva la tomba, segno della morte implacabile e invitta, viene rimossa dal messaggero, il quale sedendosi su di essa proclama che la morte vinta, che non è più l’ultima realtà. Egli si impone anche sulle guardie, che “sono scosse e rimangono come morte”.

Il messaggero può dunque rivolgersi alle donne, dicendo loro: “Voi non abbiate paura! So che cercate Gesù, il crocifisso. Non è qui. È risorto, infatti, come aveva detto; venite, osservate il luogo dove giaceva”. Il messaggero innanzitutto le rinfranca e attesta di conoscere la loro ricerca: cercavano Gesù! Cercavano colui che avevano visto crocifisso tre giorni prima, colui che era morto in croce e sepolto nella tomba da loro visitata. Ma la tomba è vuota, è questo è un segno per passare dall’aporia alla fede. Nel sepolcro vuoto non c’è una prova della resurrezione: si sarebbe infatti potuto dire che i discepoli erano venuti a rubare il corpo (cf. Mt 27,64), che Gesù non era morto ma fuggito; si sarebbero potute addurre altre spiegazioni… Ma ciò che è decisivo è che all’annuncio: “Non è qui. È risorto”, il messaggero aggiunga: “come aveva detto”, mettendo in evidenza che c’erano delle parole dette da Gesù, che andavano ricordate e credute.

Le donne iniziano così il faticoso cammino del ricordare, del rivivere le parole di Gesù come affidabili, sorgente di fede, di convinzione. In loro nasce la fede: ricordando le parole di Gesù (dicono Marco e Matteo), ricordando anche le Scritture dell’Antico Testamento, vera profezia (dice Luca), interpretando tutto ciò alla luce della tomba vuota, esse aderiscono alla rivelazione: “Gesù, il crocifisso, è risorto!”. E non appena le donne giungono a interpretare l’evento accaduto nella storia, l’evento della tomba vuota, subito sentono in loro la spinta, il desiderio, la forza di annunciare l’evento. Devono andare dai discepoli impauriti e chiusi nella loro abitazione a Gerusalemme, per annunciare loro la buona notizia pasquale della resurrezione di Gesù. E in Galilea avverrà l’incontro:

dove c’era stata la chiamata,
l’incontro e l’intimità,
il coinvolgimento con la vita di Gesù,
là occorreva ritornare, con un cammino che non è geografico ma esistenziale. È un riandare all’inizio per ricominciare e dunque trascendere l’ora del rinnegamento, dell’abbandono del Signore, della propria caduta.

Le donne allora corrono, abbandonano in fretta il sepolcro, che per loro non ha più alcun significato e, convinte che Gesù è risorto, vanno a portare il Vangelo ai suoi discepoli. Sì, le donne sono state le prime destinatarie dell’annuncio pasquale, sono state inviate a quelli che si dicevano inviati (apóstoloi) del Signore: questo dato appare ancora oggi non pienamente accettabile dalla cultura ecclesiastica… Ma in verità questo non è un particolare da poco, e noi oggi dobbiamo metterne in risalto la peculiarità: le donne discepole, e non i discepoli, sono i soggetti della prima testimonianza, della prima evangelizzazione pasquale. È un fatto che resta innegabile, che non può essere tralasciato o ricordato solo superficialmente, ma deve interrogarci oggi ed essere fonte di domande per la cultura cristiana dominante nelle chiese, in tutte le chiese. Quel mattino di Pasqua, quell’inizio della salvezza, ha come protagoniste le donne discepole: i discepoli restano al chiuso, i sacerdoti e gli scribi restano convinti che Gesù è morto e corrompono le guardie perché attestino il falso, e la gente vive la solita indifferenza che la induce a non porsi domande.

Matteo ci dice che non solo le discepole hanno annunciato la fede pasquale ai discepoli, ma che hanno anche potuto vedere una manifestazione di Gesù risorto. Egli viene loro incontro, quasi a ringraziarle per la missione svolta presso i discepoli, e le saluta dicendo: “Rallegratevi!” (chaírete). Allora si avvicinano a Gesù e gli stringono i piedi, cioè cadono a terra e prostrate gli abbracciano i piedi, constatando che è vivente, esprimendogli il loro affetto fedele, rallegrandosi perché la sua morte non è stata un fallimento, ma un passaggio (questo significa il termine “pasqua”) a vita nuova, la vita eterna di Dio. Gesù, in risposta, dà loro il comando già consegnato dal messaggero: “Non abbiate paura; andate ad annunciare ai miei fratelli che vadano in Galilea: là mi vedranno”.

Questo comando di andare in Galilea significa per le discepole e i discepoli: “Ricostituite la comunità, dopo la dispersione avvenuta a Gerusalemme. Riprendete il cammino della fede insieme e in quella terra di frontiera tra Israele e i territori delle genti iniziate ad annunciare la buona notizia della resurrezione, perché questo è il fondamento del Vangelo”. Su questo evento della resurrezione i discepoli, gli evangelisti e poi tutti i cristiani torneranno a raccontare, a interpretare, celebrando così la loro fede fino a oggi. Cristo è risorto: questa la nostra speranza, il nostro debito verso l’umanità tutta!


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Domenica di Pasqua – Anno A
Giovanni 20,1-9

Il primo giorno della settimana, Maria di Magdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro. Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte. (…)

(Letture: Atti 10,34a.37-43; Salmo 117; Colossesi 3,1-4; Giovanni 20,1-9)

Amare è dire: tu non morirai. Ed ora è una realtà
Ermes Ronchi

Come il sole, Cristo ha preso il proprio slancio nel cuore di una notte: quella di Natale – piena di stelle, di angeli, di canti, di greggi – e lo riprende in un’altra notte, quella di Pasqua: notte di naufragio, di terribile silenzio, di buio ostile su di un pugno di uomini e di donne sgomenti e disorientati. Le cose più grandi avvengono di notte.
Maria di Magdala esce di casa quando è ancora buio in cielo e buio in cuore. Non porta olii profumati o nardo, non ha niente tra le mani, ha solo la sua vita risorta: da lei Gesù aveva cacciato sette demoni.
Si reca al sepolcro perché si ribella all’assenza di Gesù: «amare è dire: tu non morirai!» (Gabriel Marcel). E vide che la pietra era stata tolta. Il sepolcro è spalancato, vuoto e risplendente nel fresco dell’alba, aperto come il guscio di un seme. E nel giardino è primavera.
I Vangeli di Pasqua iniziano raccontando ciò che è accaduto alle donne in quell’alba piena di sorprese e di corse. La tomba, che avevano visto chiudere, è aperta e vuota.
Lui non c’è. Manca il corpo del giustiziato. Ma questa assenza non basta a far credere: hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno messo.
Un corpo assente. È da qui che parte in quel mattino la corsa di Maddalena, la corsa di Pietro e Giovanni, la paura delle donne, lo sconcerto di tutti. Il primo segno è il sepolcro vuoto, e questo vuol dire che nella storia umana manca un corpo per chiudere in pareggio il conto degli uccisi. Una tomba è vuota: manca un corpo alla contabilità della morte, i suoi conti sono in perdita. Manca un corpo al bilancio della violenza, il suo bilancio è negativo. La Risurrezione di Cristo solleva la nostra terra, questo pianeta di tombe, verso un mondo nuovo, dove il carnefice non ha ragione della sua vittima in eterno, dove gli imperi fondati sulla violenza crollano, e sulle piaghe della vita si posa il bacio della speranza.
Pasqua è il tema più arduo e più bello di tutta la Bibbia. Balbettiamo, come gli evangelisti, che per tentare di raccontarla si fecero piccoli, non inventarono parole, ma presero in prestito i verbi delle nostre mattine, svegliarsi e alzarsi: si svegliò e si alzò il Signore.
Ed è così bello pensare che Pasqua, l’inaudito, è raccontata con i verbi semplici del mattino, di ognuno dei nostri mattini, quando anche noi ci svegliamo e ci alziamo. Nella nostra piccola risurrezione quotidiana.
Quel giorno unico è raccontato con i verbi di ogni giorno. Pasqua è qui, adesso. Ogni giorno, quel giorno. Perché la forza della Risurrezione non riposa finché non abbia raggiunto l’ultimo ramo della creazione, e non abbia rovesciato la pietra dell’ultima tomba (Von Balthasar).

Una pietra spostata, una vita ri-donata
Luca Rubin

Maria di Màgdala si recò al sepolcro di mattino, quando era ancora buio, e vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro.

Non c’è domenica che tenga: se devi fare qualcosa, se il pensiero occupa prepotentemente tutte le tue risorse cerebrali e cardiache, devi lasciargli il passo, assecondarlo, e seguirlo. Era ancora buio, saranno state le 5 di mattina? Più o meno. Fatto sta che era buio, un buio che dura da ore, da giorni, un buio che è oscurità e ha sconvolto la vita di quella donna; ora, dopo aver dormito poco e male, esce di casa, e va là dove il suo pensiero non ha mai cessato di essere: al sepolcro, contenente il corpo del Signore, del Maestro, di Gesù.

Si reca, si sposta da un luogo all’altro, a un passo normale, tanto più che è buio, e deve guardare dove mette i piedi. Questo è il passo di chi ha perso tutto, e procede quasi per inerzia, è il passo di chi vive un dolore che sconquassa la sua intera esistenza, e vive, e muore dentro, ma vive, in qualche maniera.

Ecco l’elemento che dà inizio a un nuovo capitolo: la pietra era stata tolta dal sepolcro. Il primo annuncio ci viene dal regno minerale, da una pietra che doveva custodire un corpo, una pesante pietra con la vocazione di schiacciare, contenere, nascondere e anestetizzare un dolore immenso. Immagina di andare presso la tomba di un tuo familiare e vedere la lapide rimossa: vandali? Ladri? Dispetto? Oltre alla gravità del fatto in se stesso (esiste un reato chiamato “violazione di sepolcro”), quella pietra è l’unica modalità fisica per poter vedere, simbolicamente, i nostri cari defunti. Vedere, appunto. Era ancora buio, e a questa tenebra se ne aggiunge un’altra: il sepolcro è stato manomesso e non è possibile “vedere”. Eppure nella notte e senza pietra, Maria vede.

Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!».

Di corsa! Appena si rende conto di questa oscurità raddoppiata, Maria corre: questo verbo fa proprio riferimento al corridore che mette tutto il suo impegno per arrivare primo e vincere la gara. La corsa di Maria raggiunge “Pietro e l’altro discepolo, quello che Gesù amava”, Giovanni, autore del vangelo. Quando siamo atterriti da una notizia cerchiamo un amico, una persona cara con la quale condividere il peso della situazione. Maria corre dai suoi amici e amici di Gesù, ai quali non parla di pietra spostata, ma dà la sua interpretazione: sottrazione di cadavere, pur evidenziando che il suo problema principale è “non sappiamo dove l’hanno posto”.

Pietro allora uscì insieme all’altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò.

Tutti che corrono. Pietro e Giovanni si dirigono al sepolcro, per vedere, anche loro, e anche loro di corsa. Anche qui assistiamo a una dinamica di gara podistica: Giovanni corre più veloce di Pietro e arriva prima (vince facile Giovanni: era molto più giovane!) Appena Giovanni arriva “si chinò, vide i teli posati là”, si china per guardare meglio, per capire cosa è successo. Maria vede e corre, Giovanni vede poi corre e si ferma: come non pensare a questi giorni di lockdown, di quarantena, nei quali siamo chiamati tutti a fermarci?

Giovanni è colui che impersona meglio questa situazione: corro, vedo, mi fermo, e mi fermo per vedere meglio, per cogliere la portata dell’evento. Non entra dentro al sepolcro, Giovanni, qualcuno sostiene che è una forma di rispetto nei confronti di Pietro, più anziano. Non dimentichiamo che Giovanni era l’unico dei Dodici rimasto sotto la croce: ha visto in faccia la morte, non aveva bisogno di perlustrare il sepolcro, vuoto o pieno che fosse.

Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte.

Maria vede e corre, Giovanni corre, vede e si ferma, Pietro corre, entra e non vede, dice il testo greco, ma osserva, scruta: è la stessa radice da cui deriva ‘teatrò: guardare per coglierne un significato, fare discernimento. Pietro oltre ai teli vede anche il sudario: come in uno zoom sempre più dettagliato l’evangelista ci fa entrare nel sepolcro, ed è Pietro, come un attento ricercatore, che raccoglie ogni dettaglio, per poter ricostruire i fatti, le possibili soluzioni, per fare discernimento e cogliere il significato profondo. Pietro, a differenza di Giovanni, ha bisogno di entrare, di toccare, di scrutare e capire: due notti fa lui era sconvolto dalla paura, e in un pianto amarissimo; ora torna sui suoi passi per fare esperienza, ed entra così nel mistero di una vita e di una morte, nella dinamica di un tutto orientato all’amore senza misura.

Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette.

Terminato il lockdown, Giovanni entra anche lui nel sepolcro. Mentre prima ha visto fisicamente i teli, ora il testo originale usa un verbo diverso: Giovanni non solo vede fisicamente degli oggetti, e neppure osserva come Pietro, ma guarda con attenzione. Questi tre modi di usare gli occhi (vedere, osservare, guardare) sono il percorso che il discepolo compie, aiutato dalla corsa, dal chinarsi e dallo stare fermo. Non è solo: Pietro e Maria in modo diverso hanno compiuto anch’essi un cammino.

La resurrezione del Signore è esigente tanto quanto la sua passione e morte, perché anch’essa è regolata e normata dalla dura legge dell’incarnazione. Gesù risorto non è il supereroe invincibile circondato da lampi, tuoni e bagliori, bensì è una lampada accesa nel buio della notte, come le torce dei nostri smartphone. Pasqua non è un lieto fine ma è fare esperienza concreta che Dio abita la mia notte e con Lui posso arrivare all’alba del nuovo giorno. Come la primavera, che fiorisce nonostante il corona-virus, Gesù risorge e vive nella tua notte, facendola propria.

Che tu corra come Maria, che tu stia fermo come Giovanni, oppure che tu corra come Pietro, vedi, guarda, osserva, ma soprattutto credi, credi, credi che Dio non ti abbandona, non ti lascia. Sia questo per te Pasqua: la certezza della presenza e dell’amore di Dio per te, oggi.

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 “Cristo Risorto”:
la buona notizia che cambia l’uomo e la storia
P. Romeo Ballan

“Il primo giorno della settimana” (Vangelo, v. 1), Gesù è risorto! Esplode la vita, inizia la storia nuova dell’umanità: nulla è come prima, tutto ha un senso nuovo, positivo, definitivo. L’annuncio di quel fatto storico – che è il tesoro fondante della comunità dei credenti in Cristo – rimbalza di casa in casa, di chiesa in chiesa, ad ogni latitudine, in tutti gli angoli del mondo; diventa ‘vangelo = bella notizia’ per tutti i popoli. “Il sepolcro vuoto è diventato la culla del cristianesimo” (S. Girolamo). La tomba vuota ha marcato il passo decisivo della fede per Giovanni: egli corse al sepolcro, “si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò”; poi entrò insieme con Pietro, “e vide e credette” (v. 4.5.8). Era l’inizio della fede in Gesù risorto, che più tardi si rafforzò quando lo videro vivente.

La fede è graduale: Maria di Màgdala, Pietro e Giovanni corsero al sepolcro con l’intenzione di recuperare un cadavere sparito; erano impreparati ad un avvenimento che non era nei loro calcoli; solo più tardi arrivarono alla fede nel Signore risorto; e ne divennero perfino testimoni ed annunciatori coraggiosi (I lettura): “Noi siamo testimoni… testimoni prescelti da Dio… E ci ha ordinato di annunciare al popolo e di testimoniare…” (v. 39.41.42). Da allora, il cammino ordinario della trasmissione della fede cristiana è la testimonianza di persone che hanno creduto prima di noi. Per questo, noi professiamo che la fede è apostolica: perché è radicata nella fede degli Apostoli e nella loro testimonianza. “Il fatto principale nella storia del cristianesimo sta in un certo numero di persone che affermano di aver visto il Risorto” (Sinclair Lewis).

Da sempre, la Chiesa missionaria dà inizio a nuove comunità di fedeli proprio annunciando che Gesù Cristo è il Figlio di Dio, crocifisso e risorto. È Lui il motivo radicale e il fondamento della missione. Il fatto storico della risurrezione di Cristo, avvenuto intorno all’anno 30 della nostra era, costituisce il nucleo centrale e dirompente del messaggio cristiano, mentre la catechesi ne arricchisce i contenuti e li trasmette con metodologia adeguata. La missione è portatrice del messaggio di vita, che è Cristo stesso: il Vivente per la sua risurrezione, dopo la passione e morte. Questo è il kerigma, annuncio essenziale per quelli che non sono ancora cristiani; e annuncio fondamentale anche per risvegliare e purificare la fede in coloro che si soffermano quasi soltanto alla prima parte del mistero pasquale. Vi sono cristiani, infatti, che si concentrano quasi solo sul Cristo sofferente nella passione, e quasi non fanno il salto della fede nel Cristo risorto. Sembra loro più facile e consolante identificarsi con il Cristo morto, soprattutto quando si vivono situazioni di sofferenza, depressione, povertà, umiliazione, lutto… In realtà, tale consolazione sarebbe soltanto apparente e passeggera senza la fede nel Risorto.

La testimonianza, che unisce insieme annuncio e coerenza di vita, è la prima forma di missione (cfr. AG 11-12; EN 21; RMi 42-44). I veri testimoni del Risorto sono persone contagiose. Le persone trasformate dal Vangelo di Gesù risorto, che vivono i valori superiori dello spirito (II lettura), sono le uniche in grado di contagiare altre persone e interessarle agli stessi valori: quali l’accettazione e la serenità nella sofferenza, la speranza anche davanti alla morte, la preghiera come abbandono nelle mani del Padre, la gioia nel servizio agli altri, l’onestà a tutta prova, l’umiltà e l’autocontrollo, la promozione del bene altrui, l’attenzione ai bisogni degli ultimi, la testimonianza dell’Invisibile… La missione si estende e si realizza capillarmente così, ancor prima e meglio che attraverso le sole parole, le strutture e le gerarchie. “Celebra la Pasqua con Cristo solo chi sa amare, sa perdonare… con un cuore grande come il mondo, senza nemici, senza rancori”, come insegnava in una catechesi il vescovo Mons. Oscar Arnulfo Romero, poco prima di essere ucciso a San Salvador il 24 marzo 1980.

La missione è un evento eminentemente pasquale, perché affonda le sue radici e i contenuti nella Risurrezione di Cristo. Questa è la notizia più bella di cui il mondo ha bisogno: in Cristo crocifisso, morto e risorto “Dio dona la vita nuova, divina ed eterna. È questa la buona novella, che cambia l’uomo e la storia dell’umanità e che tutti i popoli hanno il diritto di conoscere” (Giovanni Paolo II, in RMi 44). “L’evangelizzazione, nel nostro tempo, sarà possibile soltanto per contagio di gioia”. (Papa Francesco). Tale evangelizzazione – gioiosa, paziente e progressiva – è la prima attività della Chiesa missionaria presso tutti i popoli.