Passione del Signore
Gv 18,1-19,37

Ecco allora Dio, l’Amante nella passione di Gesù. Egli soffre per amore perché soffre per il male che noi ci facciamo: il male inflitto a Gesù vittima, infatti, è l’icona dei mali, delle sofferenze che infliggiamo agli altri, della mancanza di amore con cui li facciamo soffrire. E si faccia attenzione: «non siamo noi che abbiamo amato Dio, ma è lui che ha amato noi» (1Gv 4,10); dalla croce di suo Figlio Dio ci chiede di «credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), ci attira tutti alla croce perché «vuole che tutti siamo salvati» (cf. 1Tm 2,4).


Settimana Santa3

Liturgia della Croce
Enzo Bianchi

Abbiamo ascoltato il racconto della passione di Gesù, una passione gloriosa secondo il vangelo di Giovanni (Gv 18,1-19,37), perché in essa, a differenza di quella narrata dai sinottici, riusciamo a vedere al di là di ciò che è avvenuto mondanamente, riusciamo a vedere ciò che Dio ha operato, la sua gloria quale kavod, peso, splendore, potenza che si impone. È una gloria non analogica a quella che noi uomini immaginiamo, progettiamo o proiettiamo su Dio e su Gesù Cristo.

Nel racconto della passione secondo Giovanni – lo sappiamo bene – Gesù manifesta più ancora che nella sua vita e nelle sue azioni, più ancora che nei segni da lui operati, l’«egó eimí», l’«io sono» (Gv 18,5.6.8) proprio del Signore vivente. Sicché, quando Pilato lo flagella, Gesù appare come l’uomo per eccellenza («Ecce homo!»: Gv 19,5), l’uomo «coronato di gloria e splendore» del Salmo 8 (v. 6); quando i soldati lo disprezzano e lo deridono, appare come colui che li attira e li fa inginocchiare davanti a sé; quando sta di fronte a Pilato per essere condannato, appare come il giudice escatologico che siede sul trono del giudizio nel Litòstroto-Gabbatà (cf. Gv 19,13); quando sta in croce, appare come collocato su un trono da cui regna; quando viene scritta la sua condanna, in verità è confessato con un titolo, «Gesù il Nazareno, il re dei giudei» (Gv 19,19), che esprime la sua identità messianica autentica. E al vertice di tutto questo, quando Gesù spira, muore, secondo il quarto vangelo «consegna lo Spirito» (Gv 19,30), effonde cioè lo Spirito santo sull’intera creazione. La passione di sofferenza e di morte diventa gloria della passione, gloria dell’amare, dell’amore di Gesù «fino alla fine» (eis télos: Gv 13,1).

Ma nel leggere la passione secondo Giovanni noi ci interroghiamo quest’anno sulla presenza di Dio, su Dio quale protagonista dell’evento della passione. Perché proprio nel quarto vangelo si dice con chiarezza che la passione è la consegna da parte del Padre di suo Figlio Gesù: «Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio, l’unigenito» (Gv 3,16). Anche Paolo proclama: «Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato (verbo paradídomi) per tutti noi» (Rm 8,32); e lo stesso Giovanni nella sua Prima lettera scrive: «Dio ha mandato suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (1Gv 4,10). Sì, nelle Scritture del Nuovo Testamento e anche nel quarto canto del Servo di Isaia che abbiamo ascoltato (cf. Is 52,13-53,12) vi sono espressioni che dicono la consegna del Figlio da parte del Padre a noi uomini, nelle mani di noi peccatori. Dunque nella passione il Padre consegna il Figlio, Gesù è il consegnato e Gesù consegna poi a sua volta lo Spirito al Padre.

Eppure a me sembra che una tale lettura non sveli davvero Dio, non lo spieghi, non sia fedele all’exeghésato (Gv 1,18) che Giovanni proclama come azione di Gesù che narra Dio. Questo terreno non è facile, e dobbiamo avere molto timore nell’incamminarci su di esso per cercare di entrare nel mistero e poterlo ridire con parole nostre. Ciononostante è nostro dovere farlo, perché altrimenti si potrebbe essere indotti da tali espressioni a leggere un Dio che ha bisogno del sacrificio del Figlio e, di conseguenza, lo ordina. Anche Joseph Ratzinger ha scritto: «Ci si allontana con orrore da un Dio che reclama la morte del Figlio. Quanto questa immagine è diffusa, tanto è falsa». Ora, resta vero che nel secondo millennio così si è compresa la passione e la croce; che Lutero ha parlato dell’abbandono di Gesù da parte del Padre; che Calvino diceva che il Padre ha mandato Gesù all’inferno, dove c’è condanna e dannazione; che la predicazione della controriforma cattolica indugiava sul Padre il quale, vedendo Gesù patire e morire, si sentiva soddisfatto perché la giustizia era ristabilita. Sì, questi sono secoli in cui – lo dobbiamo dire senza giudicare – su Dio sono state riversate immagini terribili, che sono all’origine di tante negazioni di Dio da parte degli uomini.

Ebbene, senza fare finta che ciò non sia avvenuto, non fermiamoci solo sulla passione di Gesù di Nazaret ma poniamoci la domanda: «Qual è il protagonismo di Dio, la sua azione nella passione di Gesù?». Il Padre, infatti, è presente più che mai nella passione, anzi è narrato più che in altre ore della vita di Gesù. Gesù in croce è più che mai «l’immagine del Dio invisibile» (Col 1,15). È sulla croce che egli grida più che mai: «Chi ha visto me, ha visto il Padre» (Gv 14,9). Origene ha potuto affermare: «È sulla croce che Gesù è stato rassomigliante in modo pieno al Padre che ci ama fino all’estremo, eis télos». L’origine dell’Amore, l’Amante, va adorato nudo sulla croce, per parafrasare le parole di Guigo I il Certosino. Il Padre non ha consegnato suo Figlio per essere soddisfatto, ma ha mostrato attraverso suo Figlio che lui voleva, vuole la comunione con gli uomini, che ama la sua vigna all’estremo, per ricorrere all’immagine usata da Gesù in una parabola (cf. Mc 12,1-12 e par.; Is 5,1-7). «Manderò mio Figlio: avranno rispetto almeno di lui?» (cf. Mc 12,6 e par.). Ecco l’amore del Padre per la vigna, per la sua comunità, per l’umanità. Dio è quel Padre che ama e aspetta sempre il figlio che si è allontanato ed è perduto (cf. Lc 15,11-32). Tante volte, come il padre della parabola, Dio è uscito per pregare noi di entrare nel banchetto di vita (cf. Lc 15,28.31-32): è lui che prega noi, mentre pensiamo sempre di essere noi a pregare lui… L’Amante, il Padre, è colui che dice: «Come potrei abbandonarti, Efraim, come consegnarti ai nemici, Israele? … Il mio cuore si commuove dentro di me, il mio intimo brucia di compassione» (Os 11,8).

Questo Padre avrebbe dunque abbandonato suo Figlio? L’avrebbe abbandonato sulla croce? Lui che ha seguito i deportati a Babilonia, accompagnandoli con la sua Shekinah (cf. Ez 10,18-22; 11,22-25), dov’era nella morte di Gesù? Era in lui, era accanto a lui, e Gesù lo raccontava fedelmente! Nel Credo diciamo di Gesù che «passus est sub Pontio Pilato» ma potremmo dire, con i Concili della chiesa antica: «Deus passus est». «Il Padre non è impassibile, ma soffre la passione dell’amore» («Pater ipse … patitur»: Omelie su Ezechiele 6,6; PG 13,714-715), scriveva ancora Origene. Dio ha sofferto, ha sofferto come si soffre nell’amore. Non c’è solo il dolore fisico o solo quello psicologico, ma c’è un dolore, una sofferenza più profonda che ognuno di noi conosce come ferita che brucia: soffrire per amore. Anzi, non c’è amore senza sofferenza, questo noi uomini lo sappiamo bene.

Ecco allora Dio, l’Amante nella passione di Gesù. Egli soffre per amore perché soffre per il male che noi ci facciamo: il male inflitto a Gesù vittima, infatti, è l’icona dei mali, delle sofferenze che infliggiamo agli altri, della mancanza di amore con cui li facciamo soffrire. E si faccia attenzione: «non siamo noi che abbiamo amato Dio, ma è lui che ha amato noi» (1Gv 4,10); dalla croce di suo Figlio Dio ci chiede di «credere all’amore (cf. 1Gv 4,16), ci attira tutti alla croce perché «vuole che tutti siamo salvati» (cf. 1Tm 2,4). Dio ci aspetta e ci ama mentre noi siamo suoi nemici, Dio ci perdona mentre noi crocifiggiamo suo Figlio e dunque rifiutiamo lui, uccidiamo lui, il Padre, l’Amante, l’origine dell’Amore (cf. Rm 5,6-11). Gesù narra così Dio, l’Amante, conformandosi in tutto al pensare di Dio, facendo sempre la sua volontà, fino all’estremo. Ecco dunque sulla croce non un Dio soddisfatto della morte del Figlio, non un Dio che vuole il sacrificio del Figlio, ma un Dio che mostra come il sacrificio, il dare la vita per gli altri è presente in sé come esito del suo essere l’Amante, colui che ama da se stesso e si offre all’altro, all’amato. Non c’è amante che non porti la croce inscritta nella sua carne, non posso non pensare qui alla porta di Mitoraj a Roma, dove quel Cristo amante ha la croce che gli attravera le carni. Dolore e sofferenza in sé non hanno nessuna capacità di redenzione: solo l’amore, che richiede sempre un «soffrire per amore», salva.

Nell’ultima cena Gesù inginocchiato che lava i piedi ai discepoli narra un Dio inginocchiato davanti a noi, che ci lava i piedi per togliere la nostra sporcizia. Sulla croce, quando Gesù vive la sua passione e morte, Dio ci racconta in Gesù il suo amore e la sua sofferenza per la nostra lontananza. Sempre Dio ci attira a sé, ci prega di rientrare nella sua comunione, perché egli ci ama e non può cessare di amarci.

Bose, 6 aprile 2012
Omelia di ENZO BIANCHI
http://www.monasterodibose.it

Gesù fuori dal comune.
Fuori: un destino che avrebbe segnato la sua vita
don Angelo Casati


È morto fuori. L’hanno ucciso fuori. Fuori dalla città. E l’hanno deposto in fretta dalla croce. Era vicina la festa, la più grande delle feste, e non sarebbe stato un bello spettacolo vedere un uomo inchiodato alla croce. Una morte fuori e una sepoltura di nascosto, nella fretta. E che la città non venisse sporcata dalla visione, dall’eterodossia dell’uomo di Galilea. La notte, la notte e il suo silenzio avrebbero inghiottito tutto. Una grotta, una pietra, la notte. Notte del Venerdì santo.
Ora che ritorna fra noi la memoria di quella notte fuori, mi viene spontaneo ricordare che anche la sua nascita avvenne fuori. Fuori: un destino che avrebbe segnato la sua vita, fin dall’in principio. Fin da quando ancora era chiuso nell’ombra del grembo. Strana assonanza tra la nascita di Gesù e la sua morte. Anche nel suo venire alla luce, fuori. Fuori dal suo paese, fuori dalla città delle origini, fuori dall’albergo dei pellegrini: non c’era posto. Una nascita trafugata come la sua morte. E ancora una grotta. E ancora il buio della notte. Rigato, ma per poco, da una luce e da un coro di angeli.
Fuori. Lo cacciarono fuori dalla sinagoga. Eppure era il suo paese. Lo cacciarono fuori dal territorio: portava male, liberava l’ossesso ma a prezzo di migliaia di porci finiti nel lago. Lo cacciarono fuori dal tempio: presero le pietre per cacciarlo. Era troppo diverso: aveva la pretesa d’inaugurare non mostre, non chiese, non campi sportivi, ma di inaugurare un inizio di regno di Dio sulla terra, un inizio del sogno di Dio. E che ci potesse essere una speranza per tutti, anche per i peccatori e i disperati, per i poveri e per i gravati. E lo giudicarono fuori, fuori di testa, anche quelli di casa, proprio i suoi, è scritto infatti: “Uscirono per andare a prenderlo, poiché dicevano: è fuori di sé” (Mc 4,21). Vallo a capire uno che non trova neanche il tempo per mangiare. E non per far soldi. Se fosse per far soldi lo capiresti. Ma per stare con la gente, dentro un’umanità dolente e in attesa.
Così per tutta la vita. Fuori dal comune modo di sentire. Fuori di testa anche per i suoi amici. E Pietro non glielo mandò a dire, lo tirò in disparte per dirgliene quattro il giorno in cui si azzardò a fare le previsioni, non del futuro del tempo, ma del suo futuro di croce. E lui dovette sentirsi sempre un po’ straniero, anche in mezzo ai suoi. Anche qualche giorno prima della morte di croce, quando nella sala del banchetto i suoi amici, proprio i suoi, fecero un gran chiacchierare sulla donna che gli aveva profumato il capo, accarezzato il corpo e asciugato coi capelli i piedi. Alla vigilia del grande viaggio. E non fu l’unica donna che lo unse. Per loro, per le donne, non era fuori di testa, era l’uomo dei sogni, del sogno di Dio.
Così fuori, forse sempre. Straniero anche oggi, se metto la sua immagine, non quella artefatta dei nostri documenti ma quella viva, precisa dei Vangeli, nella carrellata dei volti che dominano dai nostri schermi. È tornato straniero. E oggi, nel mese che odora di Pasqua, sento come una paura al cuore: che si senta straniero, fuori, anche accanto a me. Come se dicesse che non capisco, come se osasse orizzonti che neppure in sogno oso sfiorare, terre non inghiottite dal vuoto, terre non lacerate dall’arroganza, dalla competizione, dal mercato. Oggi che tutto è mercato. E non ce ne rendiamo conto. (…) Sento – ti dirò – un bisogno di purificazione. E che a lavarmi sia lo “spettacolo” della croce. Spettacolo, così lo chiama il Vangelo di Luca: “le folle che erano accorse a questo spettacolo” (Lc 23,48). Spettacolo di verità, spettacolo di un uomo fuori, uomo Dio, perciò fuori, fuori misura, il fuori misura dell’amore.

 Don Angelo Casati – da “Il seme nella città” – EDB 2005

Stare sotto la croce
don Alberto Brignoli
   

“Stabat Mater dolorosa, iuxta crucem lacrimosa, dum pendebat Filius”: con queste parole, uno dei maggiori poeti dell’era medievale, il beato Jacopone da Todi, dava inizio alla sua composizione più famosa, lo Stabat Mater, appunto, che divenne talmente famosa e popolare da essere poi assunta nella liturgia come Sequenza della memoria della Beata Vergine Maria Addolorata. Questa prima strofa è facilmente traducibile: La Madre, addolorata, stava in lacrime sotto la croce dalla quale pendeva il Figlio”.
Pur nello strazio del suo dolore, quello “Stabat”, che è la trascrizione esatta della narrazione del Vangelo di Giovanni che abbiamo appena ascoltato, dice molto bene la fierezza e la fermezza dello “stare” sotto la croce (o presso la croce, come dice l’evangelista) di questa donna che vede suo Figlio, l’unico suo Figlio, ingiustamente condannato a morte, e a una morte di croce. Le raffigurazioni che mostrano Maria svenuta dal dolore e sostenuta a fatica dalle altre Marie e da Giovanni che la accompagnavano sotto la croce, non sono veritiere, e non hanno alcun fondamento biblico. Rispondono forse all’esigenza di un effetto scenico, o a un fattore umano comprensibilmente plausibile; ma se Giovanni (testimone oculare di quella crocifissione) usa questo termine, “stava”, sicuramente ha voluto dirci qualcosa.
Sotto quella croce, infatti, quel pomeriggio, non c’erano solo la madre di Gesù, il discepolo che egli amava e le altre Marie. Sotto quella croce c’era un gran movimento di persone, un brulichio esagerato di personaggi che con tutti i loro movimenti, gesti, azioni, parole, rischiavano di far passare inosservato, o forse scontato, un momento che invece era carico di drammaticità, soprattutto per una madre che vede il proprio figlio morire, innocentemente, in quel modo. E allora l’evangelista “ferma” la scena: o meglio, in quella concitata scena ferma alcune persone intorno alla staticità di Maria, pietrificata dal dolore. Perché mai ribadire che Maria e gli altri seguaci di Cristo “stavano” sotto la croce, se non per differenziare il loro atteggiamento da quello di tutti gli altri?
Gli altri erano tutti troppo occupati. Occupati a leggere l’iscrizione della condanna di Gesù, e a contestarne immediatamente la validità e la profezia; occupati a spartirsi le vesti di Gesù, pensando anche a come poterle utilizzare dignitosamente senza scinderle o strapparle; occupati a dare da bere aceto ai condannati a morte; occupati a spezzare loro le gambe per accelerarne la morte, perché il giorno dopo era necessario fare festa; occupati a passare in fretta davanti al patibolo lanciando un insulto o una risata. Occupati in tutto, meno che a passare del tempo “stando” sotto la croce, fermandosi sotto la croce, lasciandosi immergere nel mistero di quella croce.
Alla fine, però, la mattina del primo giorno dopo il sabato, non è certo a questi, incapaci di fermarsi sotto la croce, che viene rivelato il mistero della tomba vuota; quella tomba verrà trovata vuota da chi, come Maria Maddalena e come lo stesso Giovanni, sotto la croce, in compagnia della Madre, hanno avuto il coraggio di “stare”.
Ed è così che, in quel perpetuo “Stabat Mater” della storia, in cui spesso gli innocenti pagano con il loro dolore per le colpe di tutti, solo chi ha il coraggio, la forza e la dignità di “stare” sotto la croce e di lasciarsi immergere nel mistero del dolore, può sperimentare la forza della vita, talmente forte da rotolare via l’enorme macigno che separa il mondo dei viventi dall’ombra della morte.
Solo chi vive il dolore, prima con rabbia, poi con delusione, poi con rassegnazione e infine con dignità, è capace di sperimentare la forza della vita, la forza di ripartire, la forza di ricominciare ancora, nonostante tutto. Chi invece fugge dal dolore; chi sotto la croce si rifiuta di starci; chi di fronte al dolore altrui vive nell’indifferenza e continua a rimanere occupato nelle proprie cose, magari addirittura insultando il dolore dell’avversario, gioendo delle sue disgrazie, pensando: “Ben ti sta, te la sei cercata!”, non avrà mai la possibilità di rinascere e di ripartire, di gioire di fronte alla vita che riprende il suo corso, di sperimentare la forza di una tomba lasciata incredibilmente vuota.
Solo chi vive il mistero del dolore e non fugge di fronte a esso, ma “ci sta dentro” con tutto se stesso, è capace di comprendere il mistero della resurrezione e della vita. Solo chi si immerge nel Venerdì Santo riesce a vivere la Domenica di Pasqua
Costa, è vero: costa parecchio, come tutte le cose di valore. Ma quando la vita ci chiama a stare sotto la croce, rispondiamo con fiducia e abbandono: “Io ci sto!”. Abbiamo solo da guadagnarci.

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