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IL TRIDUO SACRO NEL CAMMINO SPIRITUALE
DEL DISCEPOLO MISSIONARIO1

Con la Messa in “Coena Domini” del Giovedì della Settimana Santa inizia la celebrazione del Triduo Pasquale che comprende i giorni Venerdì, Sabato e Domenica di Pasqua.

Se in questi giorni accompagniamo Gesù nel suo cammino, percorriamo nello stesso tempo la via della nostra realizzazione umana e cristiana di discepoli missionari.

Questo cammino si sviluppa in quattro tappe: accettazione (Giovedì Santo), abbandono (Venerdì Santo), unificazione (Sabato Santo), rinnovamento (Pasqua).

Ma, perché questo avvenga, abbiamo bisogno di prenderci tempo non solo per partecipare nella liturgia, ma anche per approfondirla personalmente nei suoi contenuti e significati. In quest’ottica, è importante meditare sui simboli della liturgia, come il pane, il calice, la lavanda dei piedi, la croce, il sepolcro. Tutti essi sono punti di riferimento per la nostra vita e, nello stesso tempo, immagini per la nostra salvezza.

Il Giovedì Santo

La Liturgia in “Coena Domini” del Giovedì Santo si svolge intorno alla dimensione vitale dell’ ”accettazione”. Nell’Eucaristia, infatti, Gesù ci accetta in un modo perfetto e intenso. Per i giudei condividere il pasto con un altro era già accettare l’altro, unirsi a lui. Se io mangio con un altro, non posso avere niente contro di lui. Mangio dello stesso pane, bevo dello stesso calice e così divento un tutt’uno con l’altro. Gesù raccoglie questo simbolo, ma è Lui stesso che si dà nel pane e nel vino.

Così come il pane si fa “uno” con chi lo mangia e il vino inzuppa intimamente colui che lo beve, fino a inebriarlo, così Cristo si fa tutt’uno con noi nell’Eucaristia. Non c’è più niente in noi che non sia preso da lui.

Nel Giovedì Santo, ciò che si verifica nell’Eucaristia diviene ancora più patente in un rito proprio di questo giorno: nella lavanda dei piedi. In questa lavanda dei piedi Gesù manifesta ai suoi discepoli la sua morte, che si fa presente nell’Eucaristia. Nella morte Gesù si china fino ai nostri piedi, si abbassa fino alla polvere. Nella morte Egli prende veramente la figura di uno schiavo. Nella morte ci lava i piedi come fanno gli schiavi. Ci lava dal nostro fango. Adesso siamo completamente puliti. Adesso partecipiamo veramente di Lui, siamo in comunione con Lui. Nella lavanda dei piedi ci viene rivelato in forma visibile ciò che avviene in ogni Eucaristia, nella quale noi siamo accettati con la nostra colpa: il nostro peccato è lavato e siamo totalmente uno con Gesù. Quando mangiamo il suo Corpo, Egli si abbassa davanti a noi fino ai piedi e ci accetta.

Questo è un aspetto di questa “accettazione” del Giovedì Santo. L’altro aspetto si rivela nel giardino del Getsemani, dove Gesù, abbandonato dai suoi discepoli, lotta con il Padre. Il Padre lo vede capace di accettare la Passione, di morire nella Croce. Gesù ha paura di ciò e supplica il Padre che lasci passare questo calice, ma si consegna alla volontà del Padre. Accettare qui significa dire “sì” alla volontà del Padre, dire “sì” a ciò di cui Dio crede che uno è capace, riconciliarsi con il proprio destino. E in questa situazione, che non possiamo sorvolare, qualche volta nella nostra vita veniamo a trovarci tutti. La Chiesa c’invita il Giovedì Santo a passare la notte con Gesù per deciderci, come Lui, ad accettare la volontà di Dio. E dobbiamo vigilare con Lui per non cadere nella tentazione.

Le tentazioni che Gesù superò nel deserto si concentrano di nuovo nella lotta del giardino del Getsemani. Vigiliamo con Gesù per vincere queste tentazioni, per non accecarci con il fascino del potere e la superiorità sugli altri, così pure per non soccombere davanti all’offuscamento, ma per consegnarci alla volontà di Dio e, in questo modo, raggiungere la nostra vera liberazione. Non è necessario che in questa lotta ci sentiamo eroi. Vediamo Gesù nella sua angoscia e nella sua solitudine. Allo stesso modo, anche noi possiamo aver paura e sentirci soli. Fissando lo sguardo su Gesù, dobbiamo accettare la nostra angoscia e la nostra solitudine, una solitudine nella quale nessuna persona umana è capace di accompagnarci, ma nella quale solamente Lui ci aspetta.

Il Venerdì Santo

La liturgia del Venerdì Santo è una vera rappresentazione del mistero, un vero psicodramma. Qui non c’è nessun sermone, né niente da spiegare o chiarire con parole, ma vengono realizzati riti così densi che non ammettono nessuna spiegazione prolissa. La rappresentazione comincia con un profondo silenzio. Il sacerdote si stende sul pavimento. Deve prostrarsi davanti al mistero. L’unico modo con cui possiamo celebrare questo mistero della nostra salvezza, è quello di lasciarci impressionare e rimanere muti, stupiti… Il silenzio ci prepara per ascoltare le misteriose parole del profeta Isaia:

«Egli si è caricato delle nostre sofferenze […]. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati curati» (Is 53, 4ss).

In queste parole c’è data la chiave di come dobbiamo contemplare la Passione di Gesù: gli scherni e gli oltraggi che soffrì, le sue debolezze e il suo fallimento, il suo abbandono e la sua disperazione, queste sono le nostre ferite. Ma, nello stesso tempo, queste sono anche le ferite per mezzo delle quali saremo guariti. La storia della Passione è una storia unica della salvezza: la storia della guarigione delle nostre ferite interiori.

Per questo saranno messe allo scoperto in modo inesorabile queste ferite, le nostre ferite, ma anche il panorama infermiccio del nostro mondo in cui gli uni gettano la colpa sugli altri, gli uni tradiscono gli altri; in cui gli uomini sono triturati nel mulinello della necessità; in cui uno mette in ridicolo l’altro, si burla di lui e, alla fine, contempla maliziosamente come muore tra indicibili tormenti.

San Giovanni, nella storia della Passione, ci descrive questo mondo. Ma, nello stesso tempo, ci descrive la sua salvezza. Ci vuole rivelare come Gesù passò per tutte queste perniciose situazioni e le redense. Egli prese sulla Croce le nostre ferite e quelle di questo mondo, e lì le tolse da questo mondo. Per San Giovanni, il cammino della Passione è nello stesso tempo il cammino dell’esaltazione. La Croce non è semplicemente uno strumento di martirio, ma anche il trono dal quale Cristo Gesù governa il mondo intero. È nella Croce dove si accumulano le nostre ferite e necessità, dove regna Cristo Gesù come vincitore d’ogni sofferenza.

All’annuncio della Passione, la Chiesa reagisce nelle grandi preci, nelle quali supplica per il mondo intero. Per mezzo della sua preghiera deve venire la salvezza al mondo d’oggi. La Liturgia non è inutile. Mette il mondo davanti a Dio. Enumera tutti i settori del nostro mondo: i governanti e quelli che soffrono sotto la loro sferza, i credenti ed i non credenti, i pellegrini ed i rifugiati. E ogni volta rispondiamo con un gesto. C’inginocchiamo e rimaniamo inginocchiati in silenzio, uniti agli esseri per i quali chiediamo.

Alle preci segue l’adorazione della Croce. La Croce coperta è introdotta solennemente nella chiesa e in tre fasi successive si va scoprendo poco a poco. Il sacerdote canta in quest’occasione: «Ecco il legno della Croce, a cui fu appeso il Cristo, Salvatore del mondo». E tutti cadono in ginocchio e adorano la Croce. Per mezzo di questo gesto la Redenzione vuole penetrare nel corpo. Il sapere che siamo redenti, che in questo segno d’ignominia è pure fondata la nostra speranza, deve arrivarci fino alle ossa.

Davanti a questa Croce, come segno di vittoria, la Chiesa intona il venerabile e antico canto tradizionale del trisagion. In greco, in latino e nella lingua materna si loda Dio come il Dio santo, forte ed immortale, chiedendogli che abbia pietà di noi. E poi tutti, uno ad uno, si vanno inginocchiando davanti alla Croce e la baciano: qualcosa che è come il segno dell’amore che Dio ha per noi, segno di come Dio si è umiliato fino all’estremo per noi nella Croce e ci ha lavato i piedi.

Secondo la psicologia del profondo (C. G. Jung), la Croce è il segno della Redenzione, perché è un simbolo molto efficace per la nostra autorealizzazione umana. La Croce è una volta per tutte il simbolo dell’offerta del proprio Io in beneficio di se stesso. L’uomo deve sacrificare il suo Io, al quale si attacca ostinatamente; deve liberarsi di lui, per penetrare nel suo vero Io per incontrare il Se stesso. Deve offrire i suoi impulsi per elevare la sua libido (= istinti animali), la sua energia vitale, ad una realtà spirituale. Quest’offerta esige la consegna totale di tutto l’uomo; per tanto, non solamente un addomesticamento dei suoi istinti animali, ma la rinuncia totale ad essi e, inoltre, un’educazione delle sue funzioni spirituali specificamente umane, orientate ad un fine sopramondano. Quest’ideale comporta una dura formazione… e ha condotto lungo i secoli ad uno sviluppo della coscienza che, senza questa formazione, sarebbe stato semplicemente impossibile.

La Croce è anche il simbolo della sofferenza. Il progresso nel cammino dell’autorealizzazione si può raggiungere soltanto attraverso la sofferenza. L’essere umano è pieno di contraddizioni; non è univoco, non è soltanto buono né soltanto cattivo, ma è sempre le due cose nello stesso tempo. E non potrà eliminare questi contrasti né con l’ascesi né con la preghiera. Nel cammino verso la sua autorealizzazione, sarà trascinato bruscamente, da un lato all’altro, da queste contraddizioni durante tutto il tempo della sua vita, dovrà soffrirle fino alla fine. Jung opina che «chi vuole raggiungere la sua identità, anche se soltanto pretende avvicinarsi ad essa, sa esattamente che ciò significa portare la Croce». La persona umana vorrebbe fuggire dalla sofferenza.

In Occidente, molti cercano di sopprimerla con le droghe; in Oriente, preferiscono eliminarla ignorandola. Jung si oppone ai due intenti di eludere la sofferenza. Egli esige: «La sofferenza deve essere superata, e sarà soltanto superata nella misura in cui sia assunta».

La finalità della sofferenza è la divinizzazione dell’uomo. Nella sofferenza, l’uomo entra nell’ambito divino. Prende parte nella contrapposizione tra Dio e uomo, ed esperimenta un conflitto divino… Precisamente nel conflitto più estremo e più minaccioso il cristiano esperimenta la salvezza come approdo verso la divinità, per il fatto che lui non si spezza, ma prende sopra di sé il peso di essere un eletto. Soltanto così si realizza in lui la imago Dei, la Incarnazione di Dio.

Come simbolo dell’unificazione delle contrapposizioni, la Croce è anche simbolo della totalità dell’uomo e così, della sua salvezza, giacché l’uomo può essere completamente sano se accetta e integra in sé le contraddizioni.

Nei riti del Venerdì Santo veneriamo la Croce non perché sia un archetipo in sé, ma perché, a causa della morte di Cristo per noi, è divenuta il simbolo della nostra redenzione. Tuttavia nei riti è sempre efficace la funzione archetipica dei simboli. Qualcosa succede in noi, ci trasformiamo. Tutti ed ognuno di noi ci opponiamo a lasciare di essere come siamo. Il rito sveglia in noi qualcosa; orienta l’energia vitale verso il cammino retto, in modo che all’improvviso possiamo realizzare ciò che con la ragione abbiamo saputo che ci è assolutamente necessario per il nostro autosviluppo: che ci distacchiamo da noi stessi e ci abbandoniamo al Padre per essere di nuovo da Lui creati.

NB: Archetipo = primo esemplare o modello, l’opera originale, da cui derivano altre opere.

Il Sabato Santo

Anche il Sabato Santo ha una funzione importante nel cammino della nostra autorealizzazione. La Liturgia ci crede capaci di immaginarci per un’intera giornata Gesù morto nel sepolcro. E c’invita a scendere nella nostra tomba, nella nostra profondità, e lì otteniamo l’unificazione con il fondamento del nostro essere, con la radice della nostra vita. Gesù non solo ha esperimentato la nostra morte, ma rimase morto per tre lunghi giorni. Egli non poteva agire né sentire più; era senza vita, isolato da ogni genere di comunicazione. Nel sepolcro, Gesù esperimentò la morte come abbandono totale, come la solitudine più radicale, nella quale non c’è posto per nessuna parola d’amore.

Il Sabato Santo ci vuol assicurare che Gesù è penetrato nella nostra solitudine, nella nostra freddezza, nella nostra rigidità. E lì, dove l’unica cosa che comanda è la morte, l’unica cosa che vive è il suo amore. Lì, dove siamo isolati dalla vita, ci raggiunge Lui con la sua parola d’amore.

Gesù scese nel regno della morte, agli inferi, allo sheol, come dicono i giudei. Lo sheol è il regno delle ombre. Dalla psicologia possiamo interpretare quest’immagine nel modo seguente: Gesù è sceso nelle nostre profondità, nel nostro inconscio, per redimere tutto ciò che giace sotterrato nelle nostre ombre. In psicologia si parla di inconscio collettivo. Lì ci sono molte energie positive, ma anche altre distruttive e caotiche, che possono distruggere una persona.

Gesù non soltanto ha raggiunto il male che affiora apertamente, ma è arrivato anche fino al male che è occulto sotto la superficie. E questo è notevolmente più caotico e più distruttivo di tutto quanto si manifesta apertamente come cattivo. Noi stessi certamente ci spaventiamo dei pensieri e desideri cattivi e disumani che con frequenza emergono in noi; ci spaventa la distruttività della quale siamo capaci. Gesù è disceso anche lì.

Così possiamo discendere assieme a Lui nella nostra tomba, nel nostro inconscio, così lontano, giacché ci troviamo in comunione con il Signore Gesù. Se non scendiamo con Lui, abusiamo delle nostre forze. Per questo dobbiamo osservare i timori e le angustie che sorgono in noi. Quando l’angustia è troppo forte, non dobbiamo continuare a fidarci dell’inconscio. Allora è meglio che fissiamo lo sguardo su Gesù, perché abbiamo bisogno della sua luce per illuminare le nostre tenebre. Se non vediamo più i raggi della sua luce, allora dobbiamo fermarci. Qualunque altra cosa sarebbe presunzione e orgoglio.

La psicologia riconosce non solo un incosciente collettivo, ma anche un incosciente personale. Là dentro abbiamo represso molte cose che abbiamo allontanato dalla nostra vita. Abbiamo escluso molti desideri e bisogni, e con ciò abbiamo eliminato molto della nostra vita. Abbiamo eliminato attitudini e possibilità semplicemente perché avevamo paura di esse. Abbiamo affondato nelle nostre ombre molti valori e così abbiamo impedito la loro vitalità. In questo modo, trasciniamo con noi un gran peso morto, molte cose che giacciono nella tomba e ci sospingono ad un’esistenza velata di tristezza.

Nel Sabato Santo, si tratta del fatto che noi, assieme a Gesù, possiamo scendere nelle nostre ombre e ricuperare e rendere fecondo tutto quanto Dio ci ha dato in dono come possibilità di crescita. Nella nostra vita avvertiamo la morte in molti terreni. La notiamo nel nostro corpo: ci sono parti del nostro corpo che sono come morte; non le percepiamo, viviamo senza di esse. Viviamo soltanto a livello della testa, abbiamo mutilato la nostra vitalità. E certe zone concrete del nostro corpo sono morte: ci sentiamo legati nelle spalle, nella schiena, nel collo; siamo rigidi, senza vita. Trasciniamo con noi parti del nostro corpo come se non ci appartenessero. Ma noi siamo il nostro corpo. E se una parte del nostro corpo è morta, allora è morta anche una parte del nostro cuore, del nostro stesso essere intimo. Il giorno del Sabato Santo dovremmo lasciare entrare la vita di Gesù in tutte le parti morte del nostro corpo.

Gesù giace nella tomba. Anche questo fatto è un simbolo per la nostra vita. Infatti, con frequenza giacciamo nella tomba: nel sepolcro della nostra autocompassione, della nostra rassegnazione, del nostro orgoglio. Ci compatiamo del fatto che abbiamo tutto tanto difficile, che tutto ci va così male, che non possiamo uscire da noi stessi e che ormai non possiamo cambiare più in niente. Con questo modo di procedere, rimaniamo nella nostra tomba. Ciò che ci lega ad essa, spesso, sono le smisurate speranze che abbiamo posto nella vita, la nostra illusione perfezionista e la nostra paura del fallimento, di fare i ridicoli. Siccome non vogliamo perdere, non ci esponiamo alla lotta. E siccome ci fa gran paura pensare che possano ridere di noi, non ci curiamo dell’altro né apriamo la bocca quando ci troviamo in un gruppo numeroso. In una parola, siccome abbiamo paura che le nostre aspettative non possano realizzarsi, preferiamo rimanere stesi nella nostra tomba.

Il giorno del Sabato Santo dovremmo affrontare la nostra “situazione sepolcrale” e introdurre nella nostra angustia la fede nella risurrezione. Credere nella risurrezione significa alzarci in mezzo e sopra le nostre debolezze, senza paura che, anche al risuscitare, le nostre debolezze ritorneranno a tradirci e gli altri si accorgeranno.

Nel Sabato Santo si tratta, inoltre, del ristabilimento della storia della propria vita, della guarigione dei ricordi. I monaci dell’Egitto hanno conosciuto un metodo che ci può aiutare per guarire il nostro passato carico di tante ferite. Si tratta di immaginarci che stiamo tre giorni nel sepolcro. Se avessimo il coraggio di rappresentarci questo una volta, che cosa abbandoneremmo nella nostra tomba? Quali pretensioni esagerate che ci mutilano la vita, quali ricordi, quali falsi motivi? Quali pezzi di pietra che avremmo potuto lasciare nella tomba trasciniamo inutilmente con noi? Quanti morti trasciniamo realmente in noi, nel nostro corpo, nei nostri sentimenti? Quante asprezze rimangono come briciole nel nostro stomaco? Tutto questo dovremmo lasciarlo nella tomba. Così, potremmo risuscitare meno preoccupati, più liberi, più naturali.

E dovremmo lasciare indietro le nostre ferite. Con frequenza siamo inetti per la vita, incapaci di vivere il presente, perché trasciniamo con noi le ferite del passato, perché queste ferite ci occupano troppo e ci offuscano la visione del momento. Queste ferite molto spesso hanno bisogno di molto tempo per cicatrizzarsi. Ci dovremmo domandare: quali sono le ferite che ancora porto con me, per le quali continuo a soffrire e che non lascio guarire? Delusioni, difetti, oltraggi, insuccessi con me stesso, ingiurie e maltrattamenti da parte di altri, paure? Che cosa sorge quando frugo nel mio passato? Dove, a che punto della mia storia, si presentano l’ira ed il rancore, dove affiorano le aggressioni perché in un baleno mi rendo conto del male ricevuto, del pagliaccio e ridicolo che sono arrivato ad essere, che altri sarebbero stati preferiti; che i miei più profondi desideri di tenerezza ed affetto, di protezione e di essere compreso non furono soddisfatti perché i miei genitori erano troppo occupati con se stessi? Che cos’è che da bambino mi ferì, in che cosa penso ancora oggi pieno d’ira e di rancore?

Dovremmo ripassare tutta la storia della nostra vita d’accordo con le esperienze che ci hanno danneggiato, le ingiurie e maltrattamenti che gli uomini ci hanno inferto, e dovremmo domandarci come abbiamo reagito davanti a queste offese. Forse non abbiamo voluto ammetterle in tutta la loro magnitudine, perché ci hanno danneggiato troppo. E allora abbiamo voluto stringere fortemente i denti e in questo modo ci siamo chiusi in blinde per non dover sentire il dolore. Per questo sono morte tutte queste cose. Adesso ne sentiamo la mancanza e le trasciniamo come pezzi rigidi e morti che in verità non ci appartengono.

Molte persone rifiutano il ristabilimento, la guarigione interiore. E forse scopriamo anche noi che non siamo disposti a lasciarci guarire incondizionatamente da Dio. Non vogliamo lasciarci sfuggire di mano tutte le scuse con le quali ci difendiamo da una trasformazione.

Il rifiuto di ascoltare la chiamata di Gesù per uscire dal sepolcro, è relazionato, secondo Hans Böhringer, con quattro giuramenti che fin dall’infanzia ci hanno servito per reagire di fronte alle ferite causateci dalla nostra vita e con i quali impediamo ogni guarigione.

Il primo giuramento dice così: I dolori che da bambino ho sofferto e sopportato sono stati così grandi che la mia capacità di soffrire è stata esaurita per sempre. Non voglio soffrire più, non riceverò nessun nuovo dolore. Mi basta essere stato abbandonato quando ero bambino; non voglio correre il rischio di tornare a trovarmi solo un’altra volta. Perciò per principio preferisco tirarmi indietro. Mi basta che nella mia infanzia si siano presi gioco di me e non mi abbiano preso sul serio.

Il giuramento, la decisione, per cui il dolore già sofferto è sufficiente per tutta la vita, significa che io mi attacco fortemente al mio stato attuale e mi rifiuto di cambiare, giacché ogni cambiamento comporterebbe un nuovo dolore, ed io non voglio più soffrire, voglio più niente che mi faccia del male. Così mi metto una corazza intorno a me perché mi difenda da nuovi dolori e, allo stesso tempo, m’impedisca di dover percepire gli antichi dispiaceri.

Il secondo giuramento aggiunge conseguentemente: Chiudo gli occhi davanti a me stesso, non voglio riflettere su di me. Ho paura di scoprire in me qualcosa di spiacevole; perciò, preferisco non guardare nel mio interiore. Il rifiuto a riflettere su se stessi è alla base di ogni sviluppo interiore sbagliato.

Il terzo giuramento è formulato così: Posso e voglio risolvere i miei problemi da solo e non ho bisogno dell’aiuto di nessuno per farlo, nemmeno di Dio. Posso capirmi e farcela da solo. Perché dovrei andare a dar fastidio ad un altro con i miei problemi? Nonostante abbia sperimentato che non me la posso cavare da solo, mi attacco con fermezza a questo proposito, rimango fedele al giuramento.

Il quarto giuramento nasce dal proposito precedente: Ho bisogno di questa posizione di forza di saper risolvere da solo i miei problemi per compensare le mie mancanze.

Ho bisogno dell’orgoglio di superarmi, di farcela da solo, per poter vivere, altrimenti l’intero edificio della mia vita crollerebbe. Voglio proteggermi da quest’eventualità e quindi mantengo il mio giuramento. Non accetto che nessuno mi renda insicuro, né un essere umano, né Dio.

Il Sabato Santo c’invita a mettere allo scoperto le nostre ferite ed i nostri giuramenti, e quindi a scoprire tutte le nostre soddisfazioni vicarie, come anche le sicurezze ed i mezzi d’autoconsolazione che abbiamo costruito per compensare tutte le nostre offese, le nostre amarezze ed i sentimenti di rancore che abbiamo nutrito fino ad oggi. Dovremmo lasciare tutto ciò nel sepolcro, abbandonarlo lì, per permettere che lo guarisca Gesù, Lui che nella sua Risurrezione è stato guarito dalla ferita più profonda e dolorosa della morte e vuole guarire anche noi.

Allora passeremo dalla morte alla vita e saremo LIBERI PER AMARE E SERVIRE COME LUI:

«Amare il prossimo … implica, come ricorda Gesù, l’amore di sé: “Amerai il tuo prossimo come te stesso” (Mc 12,31). Per attuare questo comando occorre vincere quell’odio di sé che presso gli umani è infinitamente più frequente e radicato rispetto all’amore di sé. Occorre conoscere, nominare e accogliere il nemico interiore. Occorre amare, cioè smettere di odiare le parti di sé che non vorremmo vedere in noi e che pure ci abitano. Occorre arrendersi alla loro presenza e anzi, accoglierle. Dire loro di sì. Perdonarsi di ospitarle, ovvero di essere come siamo. Non ci sarà mai nessun amore del nemico senza questa accettazione del nemico interiore. Senza arrivare ad “amare” le parti di noi che odiavamo». (Manicardi).

A cura di P. Carmelo Casile

Casavatore, febbraio 2022

1 Cf Anselm Grun, “L’anno liturgico come terapia”, Edizioni Paoline 2007, pp. 61-74. Anselm Grun è monaco benedettino e psicoterapeuta di formazione Junghiana.