Domenica delle Palme
e della Passione del Signore (A)
Matteo 26,14-27,66


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Letture

  • Matteo 21,1-11: per la benedizione delle palme;
  • Isaia 50,4-7; Salmo 21; Filippesi 2,6-11;
  • Matteo 26,14-27,66: Vangelo della Passione

In quel tempo Gesù comparve davanti al governatore, e il governatore lo interrogò dicendo: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Tu lo dici». E mentre i capi dei sacerdoti e gli anziani lo accusavano, non rispose nulla. Allora Pilato gli disse: «Non senti quante testimonianze portano contro di te?». Ma non gli rispose neanche una parola, tanto che il governatore rimase assai stupito. A ogni festa, il governatore era solito rimettere in libertà per la folla un carcerato, a loro scelta. In quel momento avevano un carcerato famoso, di nome Barabba. (…)

Quel centurione che vide un re morire di amore
Ermes Ronchi

Si aprono, con la lettura della Passione del Signore, i giorni supremi, quelli da cui deriva e a cui conduce tutta la nostra fede. E quelli che fanno ancora innamorare.
Volete sapere qualcosa di voi e di me? – dice il Signore – Vi dò un appuntamento: un uomo in croce. La croce è l’immagine più pura e più alta che Dio ha dato di se stesso. E tuttavia domanda perennemente aperta.
«A stento il nulla» di David Maria Turoldo:
No, credere a Pasqua non è / Giusta fede: / troppo bello sei a Pasqua! / Fede vera / È al venerdì santo / Quando tu non c’eri lassù / Quando non una eco risponde / Al suo alto grido / E a stento il Nulla / Dà forma / Alla tua assenza
E prima ancora l’appuntamento di Gesù è stato un altro: uno che è posto in basso. Che cinge un asciugamano e si china a lavare i piedi ai suoi. Chi è Dio? Il mio lavapiedi. In ginocchio davanti a me. Le sue mani sui miei piedi. Davvero, come Pietro, vorrei dire: lascia, smetti, non fare così, è troppo. E Lui: sono come lo schiavo che ti aspetta, e al tuo ritorno ti lava i piedi. Ha ragione Paolo: il cristianesimo è scandalo e follia. Dio è così: è bacio a chi lo tradisce, non spezza nessuno, spezza se stesso. Non versa il sangue di nessuno, versa il proprio sangue. Non chiede più sacrifici, sacrifica se stesso.
Ne esce capovolta ogni immagine, ogni paura di Dio. Ed è ciò che ci permette di tornare ad amarlo da innamorati e non da sottomessi.
La suprema bellezza della storia è quella accaduta fuori Gerusalemme, sulla collina, dove il Figlio di Dio si lascia inchiodare, povero e nudo, a un legno per morirvi d’amore.
Pietra angolare della fede cristiana è la cosa più bella del mondo: bello è chi ama, bellissimo chi ama fino alla fine. L’ha colto per primo non un discepolo ma un estraneo, il centurione pagano: davvero costui era figlio di Dio. Non da un sepolcro che si apre, non da uno sfolgorare di luce, ma nella nudità di quel venerdì, vedendo quell’uomo sulla croce, sul patibolo, sul trono dell’infamia, un verme nel vento, un soldato esperto di morte dice: davvero costui era figlio di Dio. Ha visto qualcuno morire d’amore, ha capito che è cosa da Dio.
C’erano là molte donne che stavano ad osservare da lontano. In quello sguardo, lucente d’amore e di lacrime, in quell’aggrapparsi con gli occhi alla croce, è nata la Chiesa. E rinasce ogni giorno in chi ha verso Cristo, ancora crocifisso nei suoi fratelli, lo stesso sguardo di amore e di dolore. Che circola nelle vene del mondo come una possente energia di pasqua.
«Dalla fine» di Jan Twardowski:
Inizia dalla Risurrezione / Dal sepolcro vuoto / Da Nostra Signora della Gioia / Allora perfino la croce allieterà…/ Non fate di me una piagnucolona / Dice Nostra Signora / Una volta era così / Ora è diverso / Inizia dal sepolcro vuoto / Dal sole / Il vangelo si legge come le lettere ebraiche / Dalla fine.

Avvenire 


Dai rami di Osanna al legno della Croce
Don Joseph Ndoum

Inizia con la Domenica delle Palme la grande settimana, la Settimana Santa, nella quale ogni cristiano è invitato a raccogliersi più intensamente nella meditazione della Passione del Signore nostro Gesù Cristo. Tuttavia, questa domenica fa ancora parte della quaresima, cioè dei quaranta giorni di rinnovamento spirituale che ci conducono al triduo pasquale.

I momenti più salienti dei riti liturgica di questa domenica sono tre: la benedizione dei rami d’olivo o delle palme, la solenne processione e la lettura della Passione di Gesù secondo Matteo. Inoltre, per desiderio del Papa Paolo VI, questa domenica è anche Giornata mondiale della Gioventù.

Le palme o i rami ricordano l’ingresso trionfale di Gesù in Gerusalemme, la città santa, perché il popolo aveva trovato in lui il suo re e messia. Nella processione, il popolo cristiano è invitato ad accompagnare Gesù, re dei martiri, nel suo combattimento. Ognuno di noi è invitato ad accompagnare Gesù, non tanto in un tempio fatto di pietre preziose, quanto piuttosto nel tempio vivo delle anime redente e purificate dal preziosissimo sangue. L’inno: “onore e gloria a te, o Cristo, re e Salvatore”, afferma il sovrano diritto di Gesù a regnare nei cuori, nelle famiglie, nella società e in tutte le attività dell’uomo. I rami sono portati a casa, in ricordo del Signore vincitore della morte, come segno e augurio di pace. È la Passione di Gesù l’evento redentore, riconciliatore e perciò pacificatore.

Per quanto riguarda il racconto della Passione, ogni evangelista ha un suo modo di narrare le vicende che conducono Gesù alla morte. In contrasto con la concezione giudaica di un Messia trionfatore, Matteo cerca di dimostrare che Gesù è la realizzazione del “Servo sofferente” predetto tanti secoli prima dal profeta Isaia, quale servo ripone tutta la sua fiducia in Dio. In questo terzo canto del servo, Isaia mette in rilievo le profezie di un Messia umile ed oppresso, avveratesi in Gesù.

Le parole di Paolo, nella seconda lettura, dalla Lettera ai Filippesi, sono quasi una sintesi della vita e della missione compiuta dal servo divino. Egli seppe vivere in atteggiamento di obbedienza al Padre, e di servizio ai fratelli, fino al dono della sua vita. E il Padre lo ha proclamato Signore. Paolo invita i cristiani ad avere in sé “gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù”.

Il tema conduttore della liturgia della parola della Domenica delle Palme, che introduce nella Settimana Santa, sembra quindi suggerito da questo inno cristologico della Lettera ai Filippesi. In esso si contempla e si celebra il dramma di umiliazione ed esaltazione di Cristo, il dramma del suo abbassamento che culmina nella sua glorificazione e nella salvezza di tutti. È l’adempimento e la pienezza delle Scritture. Si tratta di una concreta attuazione di un progetto eterno d’amore del Padre al quale il Figlio, con identico amore, ha aderito, fino alla morte e alla morte di croce.

Inoltre, la Giornata della Gioventù si celebra questa Domenica delle Palme: perché sono stati soprattutto i giovani, col loro entusiasmo, a promuovere il trionfo di Gesù nel suo ingresso nella Città santa. È anche un atto di riconoscimento da parte della Chiesa verso i giovani, necessari per la speranza di un futuro cristiano. Essi sono d’altra parte più capaci di entusiasmo e di creatività. La Chiesa ne aspetta anche più disponibilità e più oblatività.


Annunciare un “Dio in Croce”. Per tutti!
P. Romeo Ballan

Sul portale della Settimana Santa, che oggi comincia (Vangelo), c’è una domanda: “Chi è costui?” (Mt 21,10). Se lo chiedeva la gente della città, in agitazione, quando Gesù entrò in Gerusalemme, fra gli applausi dei simpatizzanti, seduto non su un cavallo da guerra o da corsa, ma su un’asina presa in prestito… Quell’ingresso fu un avvenimento missionario, un’epifania di Gesù alla gente. Un momento di trionfo effimero, proprio di un giorno soltanto; ma servì almeno per suscitare delle domande sull’identità di Gesù. La folla aveva una risposta pronta: «Questi è il profeta Gesù, da Nazareth di Galilea» (Mt 21,11). Una risposta vera, ma sulle loro labbra era una risposta alquanto effimera, a giudicare dai comportamenti dei giorni seguenti; era piuttosto il momento di approfondire l’identità di quel sorprendente profeta da Nazareth. Così come hanno fatto alcuni pellegrini greci, giunti a Gerusalemme, i quali dissero a Filippo: “Vogliamo vedere Gesù” (Gv 12,21).

Le risposte alla domanda iniziale le troviamo in vari testi di questa Settimana speciale. Una prima risposta la dà Gesù stesso, provocato dalla richiesta di quei greci: Egli è il chicco di grano, che cade in terra e muore per produrre molto frutto (cfr. Gv 12,24); Egli è il Maestro che invita tutti a seguirLo per condividere la sua sorte (cfr. Gv 12,26); è il Signore che può affermare: “Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Il destino universale della sua morte in croce, elevato da terra, è chiaramente indicato anche nelle varianti dei codici antichi: attirerò ‘tutto’, ‘tutti gli uomini’, ‘ogni uomo’… La sua salvezza è offerta, come dono, per tutti coloro che, con cuore sincero, “volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto” (Gv 19,37), cioè per coloro che, con fede, compassione e amore guardano il Cristo innalzato sulla croce (cfr. Nm 21,8; Zc 12,10). Questa fu l’esperienza sorprendente del centurione romano e degli altri soldati pagani, che, alla vista di quello che succedeva, dicevano: “Davvero costui era Figlio di Dio!” (Mt 27,54). Gesù è davvero il Figlio di Dio, proprio perché è rimasto sulla Croce anziché scendere (cfr. Mt 27,40.42). Mentre i giudei lo rifiutano, i pagani lo riconoscono.

La chiave per capire chi è questo Figlio di Dio, che si fa chicco di grano, che muore in Croce per attirare tutti a sé, ce la offre l’evangelista Giovanni nell’Ultima Cena di Gesù con i suoi discepoli: “Li amò sino alla fine” (Gv 13,1). È la dichiarazione di un amore estremo, aperto a tutti nello spazio e nel tempo. Parole che invitano a vivere la Settimana Santa in dimensione universale, contemplando ed annunciando un Dio in croce per tutti. S. Daniele Comboni aveva compreso quanto fosse necessario per i suoi missionari formarsi in questa contemplazione e lo raccomandava nella sua Regola: “Si formeranno questa disposizione essenzialissima (spirito di sacrificio) col tener sempre gli occhi fissi in Gesù Cristo, amandolo teneramente, e procurando di intendere ognora meglio cosa vuol dire un Dio morto in croce per la salvezza delle anime”. (Scritti, n. 2721).

La lunga narrazione (Vangelo) della condanna, passione ed esecuzione di un innocente va ben oltre i soliti fattacci di cronaca nera: contiene la Buona Notizia’ di Cristo Salvatore, morto e risorto, che i missionari della Chiesa portano ovunque nel mondo intero. Da questo nucleo centrale del Vangelo, scaturiscono scelte e atteggiamenti fondamentali per i discepoli. Ne cito uno fra i tanti: il ripudio della violenza e dell’uso delle armi, come insegna Gesù a Pietro: «Rimetti la tua spada al suo posto, perché tutti quelli che prendono la spada, di spada moriranno» (v. 26,52). Una parola emblematica per i cristiani, che già l’apologeta Tertulliano (III sec.) commentava così: “Disarmando Pietro, Gesù ha tolto le armi di mano a ogni soldato”.

Il cantico del Servo (I lettura), che ascolta e non si tira indietro (v. 4.5), e soprattutto l’inno cristologico dei Filippesi (II lettura) cantano il ciclo completo di quel Dio-uomo in croce: la Sua preesistenza divina, lo svuotamento volontario, l’abbassamento fino alla croce, la glorificazione con il nome di Signore, davanti al quale tutti sono invitati all’adorazione, “a gloria di Dio Padre” (v. 11). La gloria del Padre è la meta a cui tende tutta l’azione missionaria della Chiesa. Oltre all’obbedienza filiale, l’inno dei Filippesi “ci mostra anche l’aspetto di solidarietà con i fratelli: Cristo è diventato simile agli uomini, ha assunto la nostra condizione umile; anzi, si è fatto solidale con le persone più criminali, con i condannati alla morte di croce” (Albert Vanhoye).

Il messaggio della Passione resta sempre una strada in salita, ma porta alla Vita. Davanti alla Passione di Gesù, nessuno è un mero spettatore. Ognuno è attore, ha un ruolo, oggi, nella Passione che Gesù continua a vivere nel suo Corpo mistico, nella famiglia umana. I protagonisti della Passione siamo noi. Dietro le figure di Pietro, di Pilato, di Giuda, dei Sommi sacerdoti, della folla, possiamo vedere il volto di ognuno di noi. Quale ruolo abbiamo nella Passione oggi? Da che parte stiamo? Bene per noi se scegliamo il ruolo di Simone il cireneo (v. 32), della moglie di Pilato (v. 19), del centurione (v. 54), le pie donne, Magdalena, Maria, Giovanni, Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo… Il ruolo del cristiano, e in particolare del missionario, è quello di Cireneo, solidale con i crocifissi della storia, portatore della salvezza operata da Gesù.


La passione del Messia Gesù
Enzo  Bianchi

Isaia 50,4-7

La prima lettura contiene la profezia riguardo al “servo del Signore”, letterariamente il terzo dei quattro “canti del servo” nel libro di Isaia (cf. Is 42,1-7; 49,1-7; 50,4-9; 52,13-53,12). È il servo stesso che parla della sua missione: da servo che ascolta ogni mattina a servo che annuncia la parola del Signore. E ciò a caro prezzo, fino a dover subire, senza difendersi, i flagelli, gli insulti, la tortura e la persecuzione, ma sempre conservando la fiducia del Signore Dio, che è fedele e che gli sta accanto anche nell’ora della passione.

Lettera ai Filippesi 2,6-11

Nel canto dell’incarnazione del Figlio di Dio, Gesù Cristo, Paolo legge questo movimento: colui che era Dio si svuotò delle prerogative divine fino ad assumere la condizione dello schiavo, fino a vivere una passione con l’esito dell’umiliazione, della morte ignominiosa sulla croce. Ma Dio risponde all’abbassamento di suo Figlio, fattosi servo, con l’esaltazione, donandogli il nome di Kýrios, Signore. Ciò che la passione secondo i vangeli narra in un lungo racconto, l’Apostolo lo riassume in poche espressioni che sintetizzano il movimento della nostra salvezza nell’abbassamento/innalzamento del Figlio di Dio Gesù Cristo.


Mt 26,14-27,66

La liturgia di questa domenica della Passione del Signore, detta anche delle Palme, prevede la lettura del racconto della passione secondo Matteo. L’evangelista non ci consegna innanzitutto una “cronaca”, ma ci fornisce l’interpretazione, scaturita dalla fede della chiesa, di quei fatti che hanno costituito la fine della vita di Gesù il Cristo. Il vangelo è scritto da chi confessa la resurrezione di Gesù e dunque legge gli eventi antecedenti nella luce di quell’evento che spiega, dà senso, illumina la passione e la morte. Per questo Matteo insiste sul “compimento delle Scritture”, ritmando il racconto con questo adagio: “come sta scritto…”, “ciò è avvenuto perché si compissero le Scritture…”. Leggendo la passione secondo Matteo assistiamo, come folla convocata, al processo di Gesù, nel quale si affrontano la volontà di Dio e quella degli uomini, in un dramma che è pasquale non solo per la sua collocazione temporale, ma anche per la sua dinamica.

Possiamo distinguere il racconto in tre grandi parti:

– il preludio (Mt  26,1-46);
– il processo religioso (Mt  26,47-75);
– il processo politico, la morte e la sepoltura (Mt  27,1-66).

Nel preludio, dopo il complotto (cf. Mt 26,1-5), leggiamo come apertura l’unzione di Gesù da parte di una donna anonima a Betania (casa del povero), vera introduzione alla passione (cf. Mt 26,6-13). Versando sul capo di Gesù olio profumato, la donna profetizza quell’unzione regale e sacerdotale che Gesù riceverà sulla croce. Ella “discerne” Gesù come “il Povero”, colui che va alla morte nella solitudine, nell’abbandono e senza difesa; Gesù approva il suo gesto, che non è spreco, ma vero dono fatto al Povero. Non comprendere questo, significa – come farà Giuda (cf. Mt 26,14-16) – vendere Gesù a prezzo di denaro, perché si stima il valore del denaro più importante dell’attenzione da dedicare a Gesù stesso. Per questo, come Gesù afferma con solennità: “Amen, io vi dico: dovunque sarà annunciato questo Vangelo, nel mondo intero, in ricordo di lei si dirà anche ciò che ella ha fatto” (Mt 26,13), il suo gesto d’amore.

Segue il racconto della cena (cf. Mt 26,17-35), che secondo l’evangelista è una cena pasquale, e proprio in essa la denuncia del peccato del traditore: uno dei Dodici consegna Gesù, gli altri fuggiranno tutti e Pietro, la roccia, tremando come un fuscello dirà di non conoscere Gesù. Questa è la comunità di Gesù, alla quale egli dona il suo corpo e il suo sangue, la sua stessa vita. Sì, i convitati di quella cena sono dei peccatori, degli infedeli, un’assemblea che noi giudichiamo indegna di ricevere in dono la vita stessa del Signore. Ma quel dono è per la remissione dei peccati, il calice è sangue dell’alleanza versato per la remissione dei peccati, a cominciare da quelli dei Dodici.

Dopo la cena, Gesù discende con la sua comunità al Getsemani, al di là del torrente Cedron, nella valle sotto il tempio, dove in un’intensa preghiera assume fino in fondo quegli eventi che ormai stavano precipitando (cf. Mt 26,36-46). Egli sarebbe potuto fuggire, rinnegando ciò che aveva fatto e detto; avrebbe potuto assumere lo stile di chi combatte anche con la violenza, facendo resistenza: sceglie invece di vivere fino alla fine facendo il bene, accogliendo su di sé il male piuttosto che farlo. Questa è la volontà di Dio per tutti, per ogni essere umano! Dunque Gesù è pronto, fa degli eventi che sopraggiungono un atto nella sua libertà e a causa del suo amore. C’è stata una lotta, possiamo dire che Gesù ha subito nuovamente la tentazione (cf. Mt 4,1-11), ma ancora una volta, come sempre, ha rimesso il suo destino nelle mani del Padre.

Segue la cattura nella tenebra, su indicazione di Giuda, attraverso un bacio, e la ferma confessione da parte di Gesù che quanto sta accadendo è conforme a ciò che le Scritture avevano annunciato: ora più che mai egli compie la vocazione ricevuta (cf. Mt 26,47-56). Poi Gesù viene condotto dal sommo sacerdote Caifa per il processo religioso (cf. Mt 26,57-68): là si erano riuniti alcuni scribi e alcuni anziani del popolo, convocati frettolosamente nella notte da Caifa. Con questo processo si vuole condannare Gesù, individuando nelle sue azioni e nelle sue parole contraddizioni alla Legge, bestemmie contro Dio, tradimento della comunità di Israele. Testimoni prezzolati intervengono per riferire parole di Gesù contro il tempio, la dimora di Dio.

Anche se Matteo non ci fornisce un resoconto preciso, un verbale, capiamo che la causa di quel processo sta tutta nell’identità di Gesù in rapporto a Dio. Così il sommo sacerdote gli chiede di confessare se è lui il Cristo, il Messia, il Figlio di Dio. E Gesù risponde rinviando Caifa alle sue parole e alla sua coscienza (“Tu l’hai detto”: Mt 26,64), ma svelando anche che, proprio in quella morte ormai prossima, ci sarebbe stato lo svelamento del Figlio dell’uomo seduto come Giudice alla destra di Dio nella gloria. Parole che indignano e spaventano Caifa, portandolo anche a strappare le sue vesti, segno che il sommo sacerdozio che giudica Gesù è ormai finito, svuotato.

In parallelo al processo religioso di Gesù da parte del sommo sacerdote, vi è l’interrogatorio di Pietro da parte di alcune serve, di persone anonime e senza potere. Pietro rinnega, non riconosce Gesù come Messia sofferente e non riesce neppure a riconoscerlo colui del quale era stato discepolo (cf. Mt 26,69-75). E Giuda? Avendo preferito il denaro a Gesù, non riesce a dare senso alla propria vita e decide quindi di suicidarsi (cf. Mt 27,3-10).

Il processo religioso poteva emettere condanne, ma non infliggere a Gesù una pena. Per questo egli è rinviato all’autorità politica romana, a Ponzio Pilato, in quegli anni governatore della Giudea (cf. Mt 27,1-3.11-26). Per Pilato Gesù è un caso interessante solo se rappresenta una minaccia al potere politico di Cesare. Per questo gli chiede: “Sei tu il Re dei giudei?” (Mt 27,11). Ovvero: “Sei tu un concorrente al potere imperiale? Riconosci il potere politico di Roma o lo vuoi per te?”. Ancora una volta, però, Gesù non risponde con un “sì” o con un “no”, ma rimanda Pilato alle sue parole: “Tu lo dici, tu fai questa affermazione, io non l’ho mai fatta!” (ibid.). Pilato comprende allora che Gesù non è un pericolo, ma fa appello alle accuse che le autorità religiose giudaiche muovevano contro di lui. Gesù però non risponde, tace (cf. Mt 26,14), con un silenzio che, se fosse ascoltato, griderebbe la verità con più forza di qualsiasi parola.

Pilato tenta poi uno scambio tra Gesù e un prigioniero famoso, un sedizioso, Barabba, ma la gente, sobillata dai capi religiosi, preferisce la morte di Gesù, e giunge a gridare: “Sia crocifisso!” (Mt 27,22). Qui il potere totalitario mostra il suo volto: vedendo che il tumulto cresce, avendo compreso che Gesù non conta nulla e non è difeso da nessuno, Pilato preferisce acconsentire alla volontà della massa, alla maggioranza in preda alla vertigine della rabbia, del rancore e della violenza (cf. Mt 27,20-26). Ma prima dell’esecuzione della condanna, la violenza trova la possibilità di sfogarsi contro un giusto inerme, fino al disprezzo e alla tortura. Gesù è incoronato Re dei giudei, secondo l’accusa presentata, e viene celebrato in una parodia: è rivestito di un mantello scarlatto, incoronato di spine e gli viene data una canna come scettro, icona che i cristiani mai dimenticheranno. “Fino a quel punto” hanno trattato Gesù, il Figlio dell’uomo, l’uomo vittima dell’ingiustizia e del sopruso… Il processo politico si chiude con la consegna di Gesù ai soldati da parte di Pilato, affinché eseguano la crocifissione fuori della città, nel luogo detto Golgota (cf. Mt 27,27-37).

Gesù è crocifisso tra due delinquenti (cf. Mt 27,38), annoverato anche nella morte tra i peccatori, i malfattori, e la parodia continua con un cartello che lo disprezza: “Costui è Gesù, il Re dei giudei” (Mt 27,37), un Messia fallito, condannato dall’autorità religiosa come bestemmiatore e da quella politica come malfattore, posto su una croce, il supplizio ignominioso riservato agli schiavi e ai maledetti da Dio e dagli uomini (cf. Dt 21,23; Gal 3,13). Sulla croce Gesù continua ad ascoltare oltraggi, nonché l’ultima eco delle tentazioni vissute all’inizio e poi sempre nella sua missione (cf. Mt 27,39-44). Scendere dalla croce manifestando la sua onnipotenza divina? Salvare se stesso come ha salvato tanti altri? Avere fede in Dio solo se lo libera da quella fine? No, Gesù resta fedele alla sua missione fino alla fine, per questo pone al Padre un’ultima domanda: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46; Sal 22,2). Non è una contestazione, ma una preghiera, una richiesta di luce nella tenebra, una confessione: “O Dio, ti resto fedele anche in ciò che vivo come abbandono, tuo silenzio, lontananza da te!”. Nessuno tra i presenti può comprendere, ma solo un centurione pagano, sotto la croce, vedendo quella morte arriva a confessare: “Davvero costui era Figlio di Dio!” (Mt 27,54).

Così, mentre scende la sera e il corpo di Gesù viene deposto in un sepolcro da discepoli e discepole (cf. Mt 27,57-61), in un pagano è generata la fede in Gesù: in quella morte così atroce, il centurione vede che Gesù ha speranza, che resta fedele a Dio, che vive quella fine come dono, come amore per tutti gli uomini. Quella morte comincia ormai a manifestarsi come resurrezione, come vita, finché il terzo giorno si manifesterà in pienezza il grande mistero della Pasqua di Gesù (cf. Mt 28,1-10).

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