III Settimana di Quaresima
Meditazioni di Papa Francesco

Lunedì della III settimana di Quaresima
2Re 5,1-15; Lc 4,24-30
La salvezza viene dal piccolo
La salvezza di Dio non viene dalle cose grandi, dal potere o dai soldi, dalle cordate clericali o politiche, ma dalle cose piccole e semplici che, alle volte, suscitano persino sdegno. È la meditazione proposta da Francesco.
«La Chiesa ci prepara alla Pasqua e oggi ci fa riflettere sulla salvezza: come noi pensiamo che sia la salvezza, quella salvezza che tutti noi vogliamo». E proprio la storia «della malattia di Naamàn», narrata dal secondo libro dei Re (5, 1-15), «ci avvicina al fatto della morte: e dopo?». Infatti «quando c’è la malattia, sempre ci rimanda a quel pensiero: la salvezza». Ma «come viene questa salvezza? Qual è la strada per la salvezza? Qual è la rivelazione di Dio a noi cristiani sulla salvezza?».
«La parola chiave per capire il messaggio di oggi della Chiesa è sdegno». Quando «Naamàn, arrivato da Eliseo, chiede la guarigione, Eliseo manda il ragazzo a dirgli di bagnarsi sette volte nel Giordano. Una cosa semplice». Forse proprio per questo «Naamàn si sdegnò» esclamando: «Ho fatto un viaggio così, con tanti doni…»: tutto invece si risolve con un semplice bagno nel fiume. Oltretutto, rincara Naamàn, «noi abbiamo fiumi più belli di questo».
Anche «gli abitanti di Nazareth — riferendosi al passo evangelico di Luca (4, 24-30) — si sdegnarono dopo aver sentito la lettura del profeta Isaia, che ha fatto Gesù quel sabato in sinagoga dicendo “oggi è successo questo”, che parla della liberazione, di come il popolo sarà liberato». E commentavano: «Ma questo cosa si crede? Questo è uno di noi, l’abbiamo visto crescere da ragazzo, mai ha studiato». E «si sdegnarono» tanto che «volevano ucciderlo».
Ancora «più avanti Gesù ha sentito questo disprezzo da parte dei dirigenti, i dottori della legge che cercavano la salvezza nella casistica della morale — “questo si può fino a qui, fino a là…” — e così avevano non so quanti comandamenti e il povero popolo…». Proprio per questo la gente non aveva fiducia in loro. Lo stesso capitava con «i sadducei, che cercavano la salvezza nei compromessi con i poteri del mondo, con l’impero: gli uni con le cordate clericali, gli altri con le cordate politiche cercavano la salvezza così». Ma «il popolo aveva fiuto e non credeva» in loro. Invece «credeva a Gesù perché parlava con autorità».
«Ma perché questo sdegno?». «Perché nel nostro immaginario la salvezza deve venire da qualcosa di grande, da qualcosa di maestoso: ci salvano solo i potenti, quelli che hanno forza, che hanno soldi, che hanno potere, questi possono salvarci». Invece «il piano di Dio è un altro». E così «si sdegnano perché non possono capire che la salvezza viene soltanto dal piccolo, dalla semplicità delle cose di Dio». E «quando Gesù fa la proposta della via di salvezza, mai parla di cose grandi», solo «di cose piccole».
In questa prospettiva bisogna rileggere le beatitudini evangeliche — «Tu sarai salvo se farai questo» — e il capitolo 25 di Matteo. Sono «i due pilastri del Vangelo: “Vieni, vieni con me perché hai fatto questo”». E si tratta di «cose semplici: tu non hai cercato la salvezza o la tua speranza nel potere, nelle cordate, nei negoziati, no; hai fatto semplicemente questo». Ma proprio «questo sdegna tanti».
«Come preparazione alla Pasqua io vi invito, anche io lo farò io, a leggere le beatitudini e a leggere Matteo 25, e pensare e vedere se qualcosa di questo mi sdegna, mi toglie la pace». Perché «lo sdegno è un lusso che possono permettersi soltanto i vanitosi, gli orgogliosi».
Proprio «alla fine delle beatitudini Gesù dice una parola» forte: «Beato colui che non si scandalizza di me», cioè «che non ha sdegno di questo, che non sente sdegno». E riflettendo sulle ragioni di queste parole, «ci farà bene prendere un po’ di tempo — oggi, domani — e leggere le beatitudini, leggere Matteo e stare attenti a cosa succede nel nostro cuore: se c’è qualcosa di sdegno». E «chiedere la grazia al Signore di capire che l’unica via della salvezza è la pazzia della croce, cioè l’annientamento del Figlio di Dio, del farsi piccolo». Nella liturgia di oggi, «il piccolo» è appunto «rappresentato dal bagno nel Giordano e dal piccolo villaggio di Nazareth».
2016-02-29 L’Osservatore Romano
Niente spettacolo
Lo stile di Dio è la «semplicità»: inutile cercarlo nello «spettacolo mondano». Anche nella nostra vita egli agisce sempre «nell’umiltà, nel silenzio, nelle cose piccole». È questa la riflessione quaresimale che Papa Francesco ha voluto proporre nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta.
«C’è una parola comune» alle due lettura: «l’ira; lo sdegno». Nel Vangelo di Luca (4, 24-30) si narra l’episodio in cui «Gesù torna a Nazaret, va alla Sinagoga e incomincia a parlare». In un primo momento «tutta la gente lo sentiva con amore, felice», ed era stupita delle parole di Gesù: «erano contenti». Ma Gesù prosegue nel suo discorso «e rimprovera la mancanza di fede del suo popolo; ricorda come questa mancanza sia anche storica» facendo riferimento al tempo di Elia (quando «c’erano tante vedove», ma Dio inviò il profeta «a una vedova di un paese pagano») e alla purificazione di Naaman il Siro, narrata nella prima lettura tratta dal secondo libro dei Re (5, 1-15).
Comincia così quella dinamica tra aspettative della gente e risposta di Dio. Infatti, mentre la gente «sentiva con piacere quello che diceva Gesù», a qualcuno «non è piaciuto quello che diceva» e «forse qualche chiacchierone si è alzato e ha detto: Ma questo di che viene a parlarci? Dove ha studiato per dirci queste cose? Che ci faccia vedere la laurea! In che università ha studiato? Questo è il figlio del falegname e ben lo conosciamo!».
Scoppiano così «la furia» e «la violenza»: si legge nel Vangelo che «lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte» per gettarlo giù. Ma «quella ammirazione, quello stupore» come sono passate «all’ira, alla furia, alla violenza?». È quello che accade anche al generale siriano di cui è scritto nel secondo libro dei Re: «Aveva fede quest’uomo, sapeva che il Signore lo avrebbe guarito. Ma quando il profeta dice: “Va’, bagnati”, si sdegna». Aveva altre aspettative, e infatti pensava di Eliseo: «Stando in piedi, invocherà il nome del Signore suo Dio, agiterà la sua mano verso la parte malata e toglierà la lebbra… Ma noi abbiamo fiumi più belli di questo Giordano». E così se ne va. Poi, però, «gli amici lo hanno fatto ragionare» e, tornato indietro, ecco che si compie il miracolo.
Due esperienze lontane nel tempo ma molto simili: «Cosa voleva questa gente, questi della sinagoga, e questo siriano?». Da una parte «a quelli della sinagoga Gesù rimprovera la mancanza di fede», tanto che il Vangelo sottolinea come «Gesù lì, in quel paese, non ha fatto miracoli, per la mancanza di fede». Dall’altra Naaman «aveva fede, ma una fede speciale». In ogni caso, tutti cercavano la stessa cosa: «Volevano lo spettacolo». Ma «lo stile del buon Dio non è fare lo spettacolo: Dio agisce nell’umiltà, nel silenzio, nelle cose piccole». Non a caso al siriano «la notizia della possibile guarigione gli viene da una schiava, ragazza, che faceva la domestica di sua moglie, da una umile ragazzina». «Così va il Signore: per l’umiltà. E se noi vediamo tutta la storia della salvezza, troveremo che sempre il Signore fa così, sempre, con le cose semplici».
Per far meglio comprendere questo concetto possiamo fare riferimento a diversi altri episodi delle Scritture. Ad esempio, «nel racconto della creazione non si dice che il Signore ha preso la bacchetta magica», non ha detto: «Facciamo l’uomo» e l’uomo è stato creato. Dio invece «l’ha fatto col fango il suo lavoro, semplicemente». E così, «quando ha voluto liberare il suo popolo, lo ha liberato per la fede e la fiducia di un uomo, Mosè». Allo stesso modo, «quando ha voluto far cadere la potente città di Gerico, lo ha fatto tramite una prostituta». E «anche per la conversione dei samaritani, ha chiesto il lavoro di un’altra peccatrice».
In realtà il Signore spiazza sempre l’uomo. Quando «ha inviato Davide a lottare contro Golia, sembrava una pazzia: il piccolo Davide davanti a quel gigante, che aveva una spada, aveva tante cose, e Davide soltanto la fionda e le pietre». Lo stesso avviene «quando ha detto ai Magi che era nato proprio il re, il gran re». Cosa hanno trovato? «Un bambino, una mangiatoia». Dunque, «le cose semplici, l’umiltà di Dio, questo è lo stile divino, mai lo spettacolo».
Del resto quella dello «spettacolo» è stata proprio «una delle tre tentazioni di Gesù nel deserto». Satana gli disse infatti: «Vieni con me, andiamo su, al terrazzo del tempio; tu ti getti giù e tutti vedranno il miracolo e crederanno in te». Il Signore, invece, si rivela «nella semplicità, nell’umiltà».
Allora «ci farà bene in questa Quaresima pensare nella nostra vita a come il Signore ci ha aiutato, a come il Signore ci ha fatto andare avanti, e troveremo che sempre lo ha fatto con cose semplici». Addirittura ci potrà sembrare che tutto sia accaduto «come se fosse una casualità». Perché «il Signore fa le cose semplicemente. Ti parla silenziosamente al cuore». Sarà quindi utile in questo periodo ricordare «le tante volte» in cui nella nostra vita «il Signore ci ha visitato con la sua grazia» e abbiamo capito che l’umiltà e la semplicità sono il suo «stile». Questo vale non solo nella vita quotidiana, ma anche «nella celebrazione liturgica, nei sacramenti», nei quali «è bello che si manifesti l’umiltà di Dio e non lo spettacolo mondano».
Lunedì, 9 marzo 2015 (da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.056, Mar. 10/03/2015)
Martedì della III settimana di Quaresima
Dn 3,25.34-43 Sal 24 Mt 18,21-35: Se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello, il Padre non vi perdonerà.
L’equazione del perdono
È la misericordia l’«asse» della liturgia di questo martedì. È la «parola più ripetuta» e su questa si è soffermata la riflessione di Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta.
In tutta la liturgia della parola risuona questo concetto. Nel salmo responsoriale si ripete: «Ricordati, Signore, della tua misericordia». Ed è come «dire: “Ma, ricordati del tuo nome, Signore: il tuo nome è misericordia!”».
Anche nella prima lettura, tratta dal libro del profeta Daniele (3, 25.34-43), la richiesta di misericordia è al centro del racconto. Si legge infatti della «preghiera di Azaria, uno di quei ragazzi che erano nel forno perché non volevano adorare l’idolo d’oro»: questi «chiede misericordia, per lui e per il popolo; chiede a Dio il perdono». Non «un perdono superficiale», non un semplice togliere una macchia «come fa quello della tintoria quando portiamo un vestito». La richiesta è di un «perdono del cuore» che, quando viene da Dio, «sempre è misericordia».
Azaria «chiede umilmente: “Per amore del tuo nome, ricordati di Abramo, di Isacco, di Giacobbe”». Il ragazzo, cioè, «fa memoria, a Dio, di tutte le sue promesse», ma riconosce il bisogno di perdono: «siamo diventati più piccoli, ora non abbiamo niente, né principe né profeta né olocausto a causa dei nostri peccati».
Entra qui la seconda parola chiave della meditazione odierna: «perdono». La dinamica è la seguente: «mi rivolgo a Dio ricordandogli la sua misericordia e gli chiedo perdono», ma «il perdono come lo dà Dio».
Questo perdono di Dio, la cui perfezione è tanto incomprensibile a noi uomini, arriva al punto che Egli si “dimentica” dei nostri peccati. «Quando Dio perdona il suo perdono è così grande che è come se “dimenticasse”». Così «una volta che siamo in pace con Dio per la sua misericordia» se chiedessimo al Signore: «Ma, ti ricordi quella brutta cosa che ho fatto?», la risposta potrebbe essere: «Quale? Non ricordo…».
È «tutto il contrario di quello che facciamo noi» e che emerge spesso dalle nostre «chiacchiere: “Ma questo ha fatto quello, ha fatto quello, ha fatto quello…”». Noi «non dimentichiamo» e di tante persone conserviamo «la storia antica, media, medievale e moderna». E la ragione si ritrova nel fatto «che non abbiamo il cuore misericordioso».
Rivolto al Signore, invece, Azaria può fare «un appello» alla sua misericordia «perché ci dia il perdono e la salvezza e dimentichi i nostri peccati». Perciò chiede: «Fa’ con noi secondo la tua clemenza»: e ancora: «Secondo la tua grande misericordia, salvaci!». È la stessa preghiera che ritorna nel salmo responsoriale: «Ricordati, Signore, della tua misericordia».
Anche nel passo liturgico del Vangelo di Matteo (18, 21-25) si affronta lo stesso argomento. Qui il protagonista è Pietro, il quale «aveva sentito tante volte parlare il Signore del perdono, della misericordia». L’apostolo, evidentemente, nella sua semplicità — «non aveva fatto tanti studi, non era un laureato: era un pescatore» — non aveva compreso in pieno il significato di quelle parole. Perciò «si avvicinò a Gesù e gli disse: “Ma, dimmi, Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Ti sembra, fino a sette volte?”». Sette volte: forse gli sembrava di essere stato addirittura «generoso». Ma «Gesù lo ferma e dice: “Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette”».
Per spiegarsi meglio, Gesù racconta la parabola del re «che vuole regolare i conti con i suoi servi». A costui, si legge nella Scrittura, venne presentato «uno che gli doveva diecimila talenti», una quantità enorme per la quale, «secondo la legge di quei tempi», sarebbe stato costretto a vendersi «tutto, anche la moglie, i figli e i campi». A questo punto, il debitore «incominciò a piangere, a chiedere misericordia, perdono», finché «il padrone ebbe “compassione”».
«Compassione» è un’altra parola che si accosta facilmente al concetto di misericordia. Quando nei Vangeli si parla di Gesù e quando si descrive il suo incontro con un malato, si legge infatti che egli «ebbe “compassione” di lui».
La parabola quindi continua con il padrone che «lasciò andare» il servo «e condonò il debito». Si trattava di «un debito grosso». Invece il servo, incontrato «il compagno che aveva con lui un debito di spiccioli, voleva mandarlo in carcere». Quell’uomo «non aveva capito quello che il suo re aveva fatto con lui» e così si «comportò egoisticamente». A conclusione del racconto il re richiama il servo a cui aveva condonato il debito e lo incarcera perché non era stato «generoso». Cioè, non aveva fatto «al suo compagno quello che Dio aveva fatto con lui».
Richiamiamola frase del Padre nostro nella quale si dice: «Perdona i nostri debiti come noi perdoniamo ai nostri debitori». Si tratta di «un’equazione», ovvero: «Se tu non sei capace di perdonare, come potrà Dio perdonarti?». Il Signore«ti vuole perdonare, ma non potrà se tu hai il cuore chiuso, e la misericordia non può entrare». Qualcuno potrebbe obiettare: «Padre, io perdono, ma non posso dimenticare quella brutta cosa che mi ha fatto…». La risposta è: «Chiedi al Signore che ti aiuti a dimenticare». In ogni caso, se è vero che «si può perdonare, ma dimenticare non sempre ci si riesce», sicuramente non si può accettare l’atteggiamento del «“perdonare” e “me la pagherai”». Bisogna invece «perdonare come perdona Dio», il quale «perdona al massimo».
Concludendo: «Non è facile, perdonare; non è facile»; in tante famiglie ci sono «fratelli che litigano per l’eredità dei genitori e non si salutano mai nella vita; tante coppie che litigano e cresce, cresce l’odio e quella famiglia finisce distrutta». Queste persone «non sono capaci di perdonare. E questo è il male».
La quaresima allora «ci prepari il cuore per ricevere il perdono di Dio. Ma riceverlo e poi fare lo stesso con gli altri: perdonare di cuore». Avere, cioè, un atteggiamento che ci porti a dire «Forse non mi saluti mai, ma nel mio cuore io ti ho perdonato».
È questa la maniera migliore per avvicinarci «a questa cosa tanto grande, di Dio, che è la misericordia». Infatti «perdonando apriamo il nostro cuore perché la misericordia di Dio entri e ci perdoni, a noi». E tutti noi abbiamo motivi per chiedere il perdono di Dio: «Perdoniamo e saremo perdonati».
Martedì, 1° marzo 2016 (da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVI, n.050, 02/03/2016)
Porta aperta
«Chiedere perdono non è un semplice chiedere scusa». Non è facile, così come «non è facile ricevere il perdono di Dio: non perché lui non voglia darcelo, ma perché noi chiudiamo la porta non perdonando» gli altri. Nell’omelia della messa a Santa Marta Papa Francesco ha aggiunto un tassello alla riflessione sul cammino penitenziale che caratterizza la quaresima: il tema del perdono.
La riflessione è partita dal brano della prima lettura, tratto dal libro del profeta Daniele (3, 25.34-43), nel quale si legge del profeta Azaria che «era nella prova e ricordò la prova del suo popolo, che era schiavo». Ma il popolo «non era schiavo per caso: era schiavo perché aveva abbandonato la legge del Signore, perché aveva peccato». Perciò Azaria prega così: «Non ci abbandonare fino in fondo, per amore del tuo nome! Non ritirare da noi la tua misericordia! Noi siamo diventati più piccoli, abbiamo peccato. Oggi siamo umiliati. Oggi chiediamo misericordia». Azaria, cioè, «si pente. Chiede perdono del peccato del suo popolo». Il profeta, quindi, «nella prova non si lamenta davanti a Dio», non dice: «Ma tu sei ingiusto con noi, guarda cosa ci accade adesso…». Egli afferma invece: «Abbiamo peccato e noi meritiamo questo». Ecco il dettaglio fondamentale: Azaria «aveva il senso del peccato».
Inoltre Azaria non dice al Signore: «Scusa, abbiamo sbagliato». Infatti «chiedere perdono è un’altra cosa, è un’altra cosa che chiedere scusa». Si tratta di due atteggiamenti differenti: il primo si limita alla richiesta di scuse, il secondo implica il riconoscimento di aver peccato.
Il peccato infatti «non è un semplice sbaglio. Il peccato è idolatria», è adorare i «tanti idoli che noi abbiamo»: l’orgoglio, la vanità, il denaro, il «me stesso», il benessere. Ecco perché Azaria non chiede semplicemente scusa, ma «chiede perdono».
Il brano liturgico del Vangelo di Matteo (18, 21-35) ci porta ad affrontare l’altra faccia del perdono: dal perdono chiesto a Dio al perdono dato ai fratelli. Pietro pone una domanda a Gesù: «Signore, se mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli?». Nel Vangelo «non sono tanti i momenti in cui una persona chiede perdono». C’è, ad esempio, «la peccatrice che piange sui piedi di Gesù e bagna i piedi con le sue lacrime, li asciuga con i suoi capelli»: in quel caso, «quella donna ha peccato molto, ha amato molto e chiede perdono». Poi si potrebbe ricordare l’episodio in cui Pietro, «dopo la pesca miracolosa, dice a Gesù: “Allontanati da me, ché io sono un peccatore”»: lì però lui «si accorge che non ha sbagliato, che c’è un’altra cosa dentro di lui». Ancora, si può ripensare a «quando Pietro piange, la notte del giovedì santo, quando Gesù lo guarda».
In ogni caso, sono «pochi i momenti in cui si chiede perdono». Ma nel brano proposto dalla liturgia Pietro chiede al Signore quale deve essere la misura del nostro perdono: «Sette volte, soltanto?». All’apostolo «Gesù risponde con un gioco di parole che significa “sempre”: settanta volte sette, cioè tu devi perdonare sempre».
Qui si parla di «perdonare», non semplicemente di una richiesta di scuse per uno sbaglio: perdonare «a quello che mi ha offeso, che mi ha fatto del male, a quello che con la sua malvagità ha ferito la mia vita, il mio cuore».
Ecco allora la domanda per ciascuno di noi: «Qual è la misura del mio perdono?». La risposta può venire dalla parabola raccontata da Gesù, quella dell’uomo «al quale è stato perdonato tanto, tanto, tanto, tanti soldi, tanti, milioni», e che poi, ben «contento» del suo perdono, esce e «trova un compagno che forse aveva un debito di 5 euro e lo manda in carcere». L’esempio è chiaro: «Se io non sono capace di perdonare, non sono capace di chiedere perdono». Perciò «Gesù ci insegna a pregare così, il Padre: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”».
Che cosa significa in concreto? «Ma, padre, io mi confesso, vado a confessarmi… — E che fai, prima di confessarti? — Ma, io penso alle cose che ho fatto male — Va bene — Poi chiedo perdono al Signore e prometto di non farne più… — Bene. E poi vai dal sacerdote?». Ma prima «ti manca una cosa: hai perdonato a quelli che ti hanno fatto del male?». Se la preghiera che ci è stata suggerita è: «Rimetti i nostri debiti come noi li rimettiamo agli altri», sappiamo che «il perdono che Dio ti darà» richiede «il perdono che tu dai agli altri».
In conclusione: innanzitutto, «chiedere perdono non è un semplice chiedere scusa» ma «è essere consapevoli del peccato, dell’idolatria che io ho fatto, delle tante idolatrie»; in secondo luogo, «Dio sempre perdona, sempre», ma richiede anche che io perdoni, perché «se io non perdono», in un certo senso è come se chiudessi «la porta al perdono di Dio». Una porta invece che dobbiamo mantenere aperta: lasciamo entrare il perdono di Dio affinché possiamo perdonare gli altri.
2015-03-10 L’Osservatore Romano
Mercoledì della III settimana di Quaresima
Dt 4,1.5-9 Sal 147 Mt 5,17-19: Chi insegnerà e osserverà i precetti, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
Quali sono le prime parole, in cui ci imbattiamo in questo brano evangelico? “Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti…”. Queste parole ci fanno capire che è possibile farci vicini a Gesù, è possibile stare ad ascoltare Gesù, imprigionandolo dentro nostri schemi e deformandolo secondo nostre precomprensioni. L’evangelista Matteo, scrivendo questo passo, aveva in mente quel che stava succedendo tra i cristiani del suo tempo: c’erano cristiani, che assolutizzavano la Legge ebraica e relativizzavano Gesù ad essa, sostenendo che per salvarsi la fede in Gesù non bastava; c’erano altri cristiani, che invece in nome della novità e della superiorità di Gesù e del suo vangelo, negavano ogni valore alla tradizione religiosa ebraica e c’erano addirittura dei cristiani, che, ritenendosi spirituali e perfetti, si consideravano al di sopra di tutto, al di sopra della Legge e al di sopra dello stesso Cristo.
Il rischio si presenta anche per noi cristiani di oggi. Mi viene in mente un passo (n.94) della esortazione apostolica Evangelii gaudium, dove papa Francesco accenna a due degenerazioni presenti in tanti cristiani di oggi: la degenerazione “dello gnosticismo, una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti”; e la degenerazione di un “neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. È una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente”.
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Giovedì della III settimana di Quaresima
Ger 7,23-28 Sal 94 Lc 11,14-23: Chi non è con me è contro di me.
Storia di una fedeltà fallita
Riconoscersi peccatori ed essere capaci di chiedere perdono è il primo passo per rispondere con chiarezza, senza intavolare negoziati, alla domanda diretta che Gesù rivolge a ciascuno di noi: «sei con me o contro di me?». L’invito ad aprirsi incondizionatamente alla misericordia di Dio è stato rilanciato dal Papa durante la messa celebrata giovedì mattina.
All’inizio della prima lettura il profeta Geremia (7, 23-28) «ci ricorda il patto di Dio col suo popolo: “Ascoltate la mia voce e io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo; camminate sempre sulla strada che vi prescriverò, perché siate felici”». È «un patto di fedeltà». E «ambedue le letture ci raccontano un’altra storia: questo patto è caduto e oggi la Chiesa ci fa riflettere sulla, possiamo chiamarla così, storia di una fedeltà fallita». In realtà «Dio rimane sempre fedele, perché non può rinnegare se stesso» invece il popolo cade nella infedeltà «una dietro l’altra: è infedele, è rimasto infedele!».
Nel libro di Geremia si legge che il popolo non tenne fede al patto: «Ma essi non ascoltarono, né prestarono orecchio alla mia Parola». La Scrittura «ci racconta anche tante cose che ha fatto Dio per attirare i cuori del popolo, dei suoi: “Da quando i vostri padri sono usciti dall’Egitto fino a oggi, io vi ho inviato con assidua premura tutti i miei servi e profeti. Ma non mi hanno ascoltato né prestato orecchio. Anzi hanno reso dura la loro cervice, divenendo peggiori dei loro padri”». E questo passo di Geremia finisce con un’espressione forte: «La fedeltà è sparita! È stata bandita dalla loro bocca».
L’«infedeltà del popolo di Dio», come la nostra infedeltà, «indurisce il cuore: chiude il cuore!»; e «non lascia entrare la voce del Signore che, come padre amorevole, ci chiede sempre di aprirci alla sua misericordia e al suo amore». Nel salmo 94 «abbiamo pregato tutti insieme: ascoltate oggi la voce del Signore; non indurite il vostro cuore!». Davvero «il Signore sempre ci parla così» e «anche con tenerezza di padre ci dice: ritornate a me con tutto il cuore, perché sono misericordioso e pietoso».
Però «quando il cuore è duro questo non si capisce». Infatti «la misericordia di Dio si capisce soltanto se tu sei capace di aprire il tuo cuore, perché possa entrare». E «questo va avanti, va avanti: il cuore si indurisce e vediamo la stessa storia» nel passo del Vangelo di Luca (11, 14-23) proposto oggi dalla liturgia. «C’era quella gente che aveva studiato le Scritture, i dottori della legge che sapevano la teologia, ma erano tanto tanto chiusi. La folla era stupita: lo stupore! Perché la folla seguiva Gesù. Qualcuno dirà: “Ma lo seguiva per essere guarito, lo seguiva per questo”».
La realtà era che la gente «aveva fede in Gesù! Aveva il cuore aperto: imperfetto, peccatore, ma il cuore aperto». Invece «questi teologi avevano un atteggiamento chiuso». E «cercavano sempre una spiegazione per non capire il messaggio di Gesù». Tanto che in questo caso specifico, come racconta Luca, dicono: «Ma no, questo caccia i demoni in nome del capo dei demoni». E così cercavano sempre altri pretesti, continua il brano evangelico, «per metterlo alla prova: gli domandavano un segno del cielo». Il problema di fondo era il loro essere «sempre chiusi». E così «era Gesù che doveva giustificare quello che faceva».
«Questa è la storia, la storia di questa fedeltà fallita, la storia dei cuori chiusi, dei cuori che non lasciano entrare la misericordia di Dio, che hanno dimenticato la parola “perdono” — “Perdonami Signore!” — semplicemente perché non si sentono peccatori: si sentono giudici degli altri». Ed è «una lunga storia di secoli».
Proprio «questa fedeltà fallita Gesù la spiega con due parole chiare per finire questo discorso di questi ipocriti: “Chi non è con me è contro di me”». Il linguaggio di Gesù è «chiaro: o sei fedele, con il tuo cuore aperto, al Dio che è fedele con te o sei contro di Lui: “Chi non è con me è contro di me!”». Qualcuno potrebbe pensare che, forse, c’è «una via di mezzo per fare un negoziato», sfuggendo alla chiarezza della parola di Gesù «o sei fedele o sei contro». E in effetti «un’uscita c’è: confessati, peccatore!». Perché «se tu dici “io sono peccatore” il cuore si apre ed entra la misericordia di Dio e incominci ad essere fedele».
Chiediamo «al Signore la grazia della fedeltà». Con la consapevolezza che «il primo passo per andare su questa strada della fedeltà è sentirsi peccatore». Difatti «se tu non ti senti peccatore, hai incominciato male». Dunque «chiediamo la grazia che il nostro cuore non si indurisca, che sia aperto alla misericordia di Dio, e la grazia della fedeltà». E anche «quando ci troviamo noi» a essere «infedeli, la grazia di chiedere perdono».
Giovedì, 3 marzo 2016 (da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLVI, n.052, 04/03/2016)
Cuori pietrificati
Nessun compromesso: o ci lasciamo amare «dalla misericordia di Dio» o scegliamo la via «dell’ipocrisia» e facciamo quello che vogliamo lasciando che il nostro cuore «si indurisca» sempre più. È la storia del rapporto tra Dio e l’uomo, dai tempi di Abele ai giorni nostri, al centro della riflessione proposta da Papa Francesco.
Partendo dalla preghiera del salmo responsoriale — «Non indurite il vostro cuore» — ci chiediamo: «Perché accade questo?». Per comprenderlo andiamo anzitutto alla prima lettura tratta dal libro del profeta Geremia (7, 23-28) dove è, per così dire, sintetizzata la «storia di Dio». Ma come, ci si potrebbe chiedere, «Dio ha una storia?». Come è possibile visto che «Dio è eterno»? È vero, «ma dal momento che Dio è entrato in dialogo con il suo popolo, è entrato nella storia».
E quella di Dio con il suo popolo «è una storia triste» perché «Dio ha dato tutto» e in cambio «soltanto ha ricevuto cose brutte». Il Signore aveva detto: «Ascoltate la mia voce: io sarò il vostro Dio e voi sarete il mio popolo. Camminate sempre sulla strada che vi prescriverò e così sarete felici». Quella era la «strada» per la felicità. «Ma essi non ascoltarono, né prestarono orecchio» e anzi: «procedettero ostinatamente secondo il loro cuore malvagio»: non volevano, cioè, «ascoltare la Parola di Dio».
Questa scelta ha caratterizzato tutta la storia del popolo di Dio: «pensiamo all’assassinio, alla morte di Abele, ucciso da suo fratello, cuore malvagio di invidia». Nonostante però il popolo abbia continuamente «voltato le spalle» al Signore, Egli afferma: «Io non mi sono stancato». E invia «con assidua premura» i profeti. Ancora, però, gli uomini non hanno ascoltato. Anzi, si legge nella Scrittura, «hanno reso dura la loro cervice divenendo peggiori dei loro padri». E così «la situazione del popolo di Dio è peggiorata, nelle generazioni».
Il Signore dice a Geremia: «Di’ tutte queste cose, ma non ti ascolteranno, non ti risponderanno. E tu dirai: questa è la nazione che non ascolta la voce del Signore, né accetta la correzione». E poi aggiunge una parola «terribile: “La fedeltà è sparita. Voi non siete un popolo fedele”». Qui sembra che Dio pianga: «Ti ho amato tanto, ti ho dato tanto e tu… tutto contro di me». Un pianto che ricorda quello di Gesù «guardando Gerusalemme». Del resto «nel cuore di Gesù c’era tutta questa storia, dove la fedeltà era sparita». Una storia di infedeltà che riguarda «la nostra storia personale», perché «noi facciamo la nostra volontà. Ma facendo questo, nel cammino della vita seguiamo una strada di indurimento: il cuore si indurisce, si pietrifica. La parola del Signore non entra. Il popolo si allontana». Per questo «oggi, in questo giorno quaresimale, possiamo domandarci: Io ascolto la voce del Signore, o faccio quello che io voglio, quello che a me piace?».
Il consiglio del salmo responsoriale — «Non indurite il vostro cuore» — si ritrova «tante volte nella Bibbia» dove, per spiegare l’«infedeltà del popolo», si usa spesso «la figura dell’adultera». Ad esempio, il brano famoso di Ezechiele 16: «Tutta una storia di adulterio, è la tua. Tu, popolo, non sei stato fedele a me, sei un popolo adultero». O anche le tante volte in cui Gesù «rimprovera questo cuore indurito ai discepoli», come fece con quelli di Emmaus: «O stolti e duri di cuore!».
Il cuore malvagio — e «tutti ne abbiamo un pezzettino» — «non ci lascia capire l’amore di Dio. Noi vogliamo essere liberi», ma «con una libertà che alla fine ci fa schiavi, e non con quella libertà dell’amore che ci offre il Signore».
Questo succede anche alle «istituzioni»: ad esempio «Gesù guarisce una persona, ma il cuore di questi dottori della legge, di questi sacerdoti, di questo sistema legale era tanto duro, sempre cercavano scuse». E così gli dicono: «Ma tu cacci i demoni in nome del demonio. Tu sei uno stregone demoniaco». Sono cioè dei legalisti «che credono che la vita della fede sia regolata soltanto dalle leggi che fanno loro». Per loro «Gesù usa quella parola: ipocriti, sepolcri imbiancati, tanto belli al di fuori ma dentro pieni di putredine e di ipocrisia».
Purtroppo lo stesso «è accaduto nella storia della Chiesa». Pensiamo «alla povera Giovanna d’Arco: oggi è santa! Poverina: questi dottori l’hanno bruciata viva, perché dicevano che era eretica». O ancora più vicino nel tempo, pensiamo «al beato Rosmini: tutti i suoi libri all’indice. Non si potevano leggere, era peccato leggerli. Oggi è beato». «Nella storia di Dio con il suo popolo, il Signore mandava, per dirgli che amava il suo popolo, i profeti». E «nella Chiesa, il Signore manda i santi». Sono loro «che portano avanti la vita della Chiesa: sono i santi. Non sono i potenti, non sono gli ipocriti». Sono «l’uomo santo, la donna santa, il bambino, il ragazzo santo, il prete santo, la suora santa, il vescovo santo…»: quelli cioè «che non hanno il cuore indurito», ma «sempre aperto alla parola d’amore del Signore», quelli che «non hanno paura di lasciarsi accarezzare dalla misericordia di Dio. Per questo i santi sono uomini e donne che capiscono tante miserie, tante miserie umane, e accompagnano il popolo da vicino. Non disprezzano il popolo».
Con questo popolo che «ha perso la fedeltà» il Signore è chiaro: «Chi non è con me, è contro di me». Qualcuno potrebbe chiedere: «Ma non ci sarà una via di compromesso, un po’ di qua e un po’ di là?» No, «o tu sei sulla via dell’amore, o tu sei sulla via dell’ipocrisia. O tu ti lasci amare dalla misericordia di Dio, o tu fai quello che tu vuoi, secondo il tuo cuore che si indurisce di più, ogni volta, su questa strada». Non c’è «una terza via di compromesso: o sei santo, o vai per l’altra via». E chi «non raccoglie» con il Signore, non solo «lascia le cose», ma «peggio: disperde, rovina. È un corruttore. È un corrotto, che corrompe».
Per questa infedeltà «Gesù pianse su Gerusalemme» e «su ognuno di noi». Nel capitolo 23 di Matteo si legge una maledizione «terribile» contro i «dirigenti che hanno il cuore indurito e vogliono indurire il cuore del popolo». Dice Gesù: «Verrà su di loro il sangue di tutti gli innocenti, incominciando da quello di Abele. Saranno i colpevoli di tanto sangue innocente, versato dalla loro malvagità, dalla loro ipocrisia, dal loro cuore corrotto, indurito, pietrificato».
Giovedì, 12 marzo 2015 (da: L’Osservatore Romano, ed. quotidiana, Anno CLV, n.059, Ven. 13/03/2015)
Venerdì della III settimana di Quaresima
Os 14,2-10 Sal 80 Mc 12,28-34:
Il Signore nostro Dio è l’unico Signore: lo amerai.
Ritorno a casa
«Se vuoi conoscere la tenerezza di un padre prova a rivolgerti a Dio: prova, poi mi racconti!». È il consiglio spirituale che Papa Francesco ha suggerito nella messa celebrata nella cappella della Casa Santa Marta.
Per quanti peccati possiamo aver commesso, Dio ci aspetta sempre ed è pronto ad accoglierci e a fare festa con noi e per noi. Perché è un Padre che non si stanca mai di perdonare e non guarda se alla fine il “bilancio” è negativo: Dio non sa fare altro che amare.
Questo atteggiamento è ben descritto nella prima lettura della liturgia, tratta dal libro del profeta Osea (14, 2-10). È un testo che «ci parla della nostalgia che Dio, nostro Padre, ha di tutti noi che siamo andati lontano e ci siamo allontanati da lui». Eppure «con quanta tenerezza ci parla!».
Scrive Osea: «Così dice il Signore: torna, Israele, al Signore». Sì, «torna a casa!». «Forse quando sentiamo la parola che ci invita alla conversione — convertitevi! — ci suona un po’ forte perché ci dice di cambiare la vita, è vero». Ma dentro la parola conversione c’è proprio «questa nostalgia amorevole di Dio». È la parola appassionata di un «Padre che dice al figlio: torna, torna, è ora di tornare a casa!».
«Soltanto con questa parola possiamo passare tante ore di preghiera». «Dio non si stanca» mai: lo vediamo in «tanti secoli» e «con tante apostasie del popolo». Eppure «lui torna sempre, perché il nostro Dio è un Dio che aspetta». E così anche «Adamo è uscito dal paradiso con una pena e anche una promessa. E il Signore è fedele alla sua promessa perché non può rinnegare se stesso: è fedele!».
Ecco, dunque, che «Dio ha aspettato tutti noi, lungo la storia». Infatti «è un Dio che ci aspetta sempre». E, in proposito, potremmo contemplare «quella bella icona del padre e del figliol prodigo». Il Vangelo di Luca (15, 11-32) «ci dice che il Padre vede il figlio da lontano perché l’aspettava e andava sulla terrazza tutti i giorni a guardare se il figlio tornava». Il padre, dunque, aspettava il ritorno del figlio e così «quando lo vede arrivare, è andato di fretta e gli si è gettato al collo». Il figlio, sulla strada del ritorno, aveva persino preparato le parole da dire per ripresentarsi a casa: «Padre, ho peccato contro il cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio». Ma «il padre non lo lasciò parlare» e «con l’abbraccio gli tappò la bocca».
La parabola di Gesù ci fa capire chi «è nostro padre: il Dio che ci aspetta sempre». Qualcuno potrebbe dire: «Ma, padre, io ho tanti peccati non so se lui sarà contento!». «Provaci! Se tu vuoi conoscere la tenerezza di questo Padre, va da lui e prova! Poi mi racconti!». Perché «il Dio che ci aspetta è anche il Dio che perdona: il Dio della misericordia». E «non si stanca di perdonare; siamo noi che ci stanchiamo di chiedere il perdono. Ma lui non si stanca: settanta volte sette! Sempre! Avanti col perdono!».
Certo, «dal punto di vista di un’azienda il bilancio è negativo, è vero! Lui perde sempre, perde nel bilancio delle cose. Ma vince nell’amore perché Lui — si può dire questo — è il primo che compie il comandamento dell’amore: lui ama, non sa fare altre cose!», come ricorda il passo evangelico della liturgia del giorno (Marco 12,28-34).
È un Dio che ci dice, come si legge nel libro di Osea: «Io ti guarirò perché la mia ira si è allontanata da te!» È così che parla Dio: «Io ti chiamo per guarirti!». Tanto che «i miracoli che Gesù faceva con tanti ammalati erano anche un segno del grande miracolo che ogni giorno il Signore fa con noi, quando abbiamo il coraggio di alzarci e andare da lui».
Il Dio che aspetta e perdona è anche «il Dio che fa festa». Ma non organizzando un banchetto, come «quell’uomo ricco che aveva alla porta il povero Lazzaro. No, questa festa non gli piace!». Invece Dio prepara «un altro banchetto, come il padre del figliol prodigo». Nel testo di Osea, ha spiegato, Dio ci dice che «pure tu fiorirai come il giglio». È la sua promessa: ti farà festa. Tanto che «si spanderanno i tuoi germogli, e avrai la bellezza dell’olivo e la fragranza del Libano».
«La vita di ogni persona, di ogni uomo, ogni donna che ha il coraggio di avvicinarsi al Signore, troverà la gioia della festa di Dio». Da qui l’auspicio finale: «Che questa parola ci aiuti a pensare a nostro Padre, il Padre che ci aspetta sempre, che ci perdona sempre e che fa festa quando noi torniamo!».
2014-03-28 L’Osservatore Romano
Sabato della III settimana di Quaresima
Os 6,1-6 Sal 50 Lc 18,9-14:
Il pubblicano tornò a casa giustificato, a differenza del fariseo
La preghiera umile ottiene misericordia (cfr Lc 18,9-14)
(…) Oggi, con un’altra parabola, Gesù vuole insegnarci qual è l’atteggiamento giusto per pregare e invocare la misericordia del Padre; come si deve pregare; l’atteggiamento giusto per pregare. E’ la parabola del fariseo e del pubblicano (cfr Lc 18,9-14).
Entrambi i protagonisti salgono al tempio per pregare, ma agiscono in modi molto differenti, ottenendo risultati opposti. Il fariseo prega «stando in piedi» (v. 11), e usa molte parole. La sua è, sì, una preghiera di ringraziamento rivolta a Dio, ma in realtà è uno sfoggio dei propri meriti, con senso di superiorità verso gli «altri uomini», qualificati come «ladri, ingiusti, adulteri», come, ad esempio, – e segnala quell’altro che era lì – «questo pubblicano» (v. 11). Ma proprio qui è il problema: quel fariseo prega Dio, ma in verità guarda a sé stesso. Prega se stesso! Invece di avere davanti agli occhi il Signore, ha uno specchio. Pur trovandosi nel tempio, non sente la necessità di prostrarsi dinanzi alla maestà di Dio; sta in piedi, si sente sicuro, quasi fosse lui il padrone del tempio! Egli elenca le buone opere compiute: è irreprensibile, osservante della Legge oltre il dovuto, digiuna «due volte alla settimana» e paga le “decime” di tutto quello che possiede. Insomma, più che pregare, il fariseo si compiace della propria osservanza dei precetti. Eppure il suo atteggiamento e le sue parole sono lontani dal modo di agire e di parlare di Dio, il quale ama tutti gli uomini e non disprezza i peccatori. Al contrario, quel fariseo disprezza i peccatori, anche quando segnala l’altro che è lì. Insomma, il fariseo, che si ritiene giusto, trascura il comandamento più importante: l’amore per Dio e per il prossimo.
Non basta dunque domandarci quanto preghiamo, dobbiamo anche chiederci come preghiamo, o meglio, com’è il nostro cuore: è importante esaminarlo per valutare i pensieri, i sentimenti, ed estirpare arroganza e ipocrisia. Ma, io domando: si può pregare con arroganza? No. Si può pregare con ipocrisia? No. Soltanto, dobbiamo pregare ponendoci davanti a Dio così come siamo. Non come il fariseo che pregava con arroganza e ipocrisia. Siamo tutti presi dalla frenesia del ritmo quotidiano, spesso in balìa di sensazioni, frastornati, confusi. È necessario imparare a ritrovare il cammino verso il nostro cuore, recuperare il valore dell’intimità e del silenzio, perché è lì che Dio ci incontra e ci parla. Soltanto a partire da lì possiamo a nostra volta incontrare gli altri e parlare con loro. Il fariseo si è incamminato verso il tempio, è sicuro di sé, ma non si accorge di aver smarrito la strada del suo cuore.
Il pubblicano invece – l’altro – si presenta nel tempio con animo umile e pentito: «fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto» (v. 13). La sua preghiera è brevissima, non è così lunga come quella del fariseo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Niente di più. Bella preghiera! Infatti, gli esattori delle tasse – detti appunto, “pubblicani” – erano considerati persone impure, sottomesse ai dominatori stranieri, erano malvisti dalla gente e in genere associati ai “peccatori”. La parabola insegna che si è giusti o peccatori non per la propria appartenenza sociale, ma per il modo di rapportarsi con Dio e per il modo di rapportarsi con i fratelli. I gesti di penitenza e le poche e semplici parole del pubblicano testimoniano la sua consapevolezza circa la sua misera condizione. La sua preghiera è essenziale. Agisce da umile, sicuro solo di essere un peccatore bisognoso di pietà. Se il fariseo non chiedeva nulla perché aveva già tutto, il pubblicano può solo mendicare la misericordia di Dio. E questo è bello: mendicare la misericordia di Dio! Presentandosi “a mani vuote”, con il cuore nudo e riconoscendosi peccatore, il pubblicano mostra a tutti noi la condizione necessaria per ricevere il perdono del Signore. Alla fine proprio lui, così disprezzato, diventa un’icona del vero credente.
Gesù conclude la parabola con una sentenza: «Io vi dico: questi – cioè il pubblicano –, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato» (v. 14). Di questi due, chi è il corrotto? Il fariseo. Il fariseo è proprio l’icona del corrotto che fa finta di pregare, ma riesce soltanto a pavoneggiarsi davanti a uno specchio. E’ un corrotto e fa finta di pregare. Così, nella vita chi si crede giusto e giudica gli altri e li disprezza, è un corrotto e un ipocrita. La superbia compromette ogni azione buona, svuota la preghiera, allontana da Dio e dagli altri. Se Dio predilige l’umiltà non è per avvilirci: l’umiltà è piuttosto condizione necessaria per essere rialzati da Lui, così da sperimentare la misericordia che viene a colmare i nostri vuoti. Se la preghiera del superbo non raggiunge il cuore di Dio, l’umiltà del misero lo spalanca. Dio ha una debolezza: la debolezza per gli umili. Davanti a un cuore umile, Dio apre totalmente il suo cuore. E’ questa umiltà che la Vergine Maria esprime nel cantico del Magnificat: «Ha guardato l’umiltà della sua serva. […] di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono» (Lc 1,48.50). Ci aiuti lei, la nostra Madre, a pregare con cuore umile. E noi, ripetiamo per tre volte, quella bella preghiera: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Udienza generale del Mercoledì, 1° giugno 2016