II Domenica di Quaresima (A)
Matteo 17,1-9


Le letture di questa seconda domenica di quaresima proseguono la riflessione penitenziale iniziata la settimana scorsa, proponendo un tema caro alla letteratura biblica e quaresimale: la trasfigurazione dal “cammino di morte” in “cammino di vita”. Il brano evangelico, in particolare, rappresenta una dei testi più significativi per tratteggiare l’identità e la missione del Figlio di Dio. Esso descrive lo stupore di fronte al Cristo trasfigurato, al volto di Colui che ama profondamente e attende di essere cercato.
Per afferrare maggiormente il senso complessivo del brano, accosteremo questi versetti di Matteo in modo trasversale: la chiave di lettura non sarà quindi lo sviluppo narrativo della scena, ma quei nuclei tematici che più o meno esplicitamente alludono alla storia antica del popolo di Israele.

Il riferimento cronologico iniziale.

v.1 – Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni suo fratello e li condusse in disparte, su un alto monte.

Il racconto inizia con la presentazione del tempo, del luogo e degli attori.
A prima vista l’inizio del v.1 appare consueto, forse un po’ banale per la presenza dell’espressione temporale “sei giorni dopo”, che risalta per la sua semplicità e sembra addirittura superflua. In realtà racchiude un grande significato dalle diverse sfumature: è probabile che l’evangelista faccia riferimento all’annuncio della passione formulato sei giorni prima, ma soprattutto alla creazione divina, in particolare al settimo giorno.

La prima allusione si evince nel racconto precedente al nostro brano. In Matteo 16,21-23, Gesù comincia a dire apertamente ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme, soffrire a causa degli anziani, dei sommi sacerdoti e degli scribi per poi venire ucciso e resuscitare tre giorni dopo.

L’antefatto di tale rivelazione è peraltro la confessione di Pietro, a cui Gesù assegna un ruolo e una missione di straordinario rilievo nella fondazione della Chiesa.

Questo richiamo biblico si combina poi con il valore simbolico dei numeri i quali, nella comprensione antica, mettono in luce la natura della cose. Il numero sei, ad esempio, indica propriamente la dimensione umana, da cui deriva che il sesto giorno è quello dell’attesa, della preparazione; il sette, invece simboleggia la sfera divina, e quindi il tempo della pienezza, del compimento, in altre parole della risurrezione.

Il senso profondo, cui accennavamo poc’anzi, è così precisato con maggior chiarezza: il riferimento cronologico sta ad indicare l’irrompere del divino nei confini dell’uomo.

L’alto monte

Alla fine del primo versetto troviamo un’altra indicazione carica di senso: Gesù prese in disparte gli apostoli Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte.

E’ curioso notare che, soprattutto in Matteo, Gesù, quando fa o dice qualcosa di importante, sale su un monte: l’ultima tentazione avviene sul monte (4,8); le beatitudini sono pronunciate sul monte (5,1), sul monte sono moltiplicati i pani (15,29), sul monte degli ulivi egli pronuncia il discorso escatologico (24,3); alla fine del vangelo, nel momento in cui i discepoli incontrano il Risorto e sono inviati nel mondo intero, si trovano sul monte che era stato loro indicato (28,16).

Per scoprire tanta insistenza, basta scorrere l’Antico Testamento. Nella Bibbia il monte era il luogo prediletto delle rivelazioni divine, come del resto presso tutti i popoli dell’antichità, i quali fissavano la dimora delle divinità sulla montagna.

Nell’AT, in particolare, ricordiamo l’incontro di Mosè sul Sinai, dove Dio gli consegnò le tavole della Legge che poi Mosè trasmise al popolo; in cima all’Oreb sia Mosè che Elia vissero la straordinaria manifestazione divina, che segnò inequivocabilmente le loro esistenze.

L’episodio si svolge su un monte non meglio precisato, anche se la tradizione cristiana lo identifica con il monte Tabor oppure con il monte Hermon. Al di là delle varie ipotesi, la situazione rimanda a quanto accadde sul monte Sinai: qui sia Mose che Elia incontrarono il Signore, il quale, passando in modo misterioso, li rese testimoni privilegiati, obbedienti alla sua volontà.

Anche nel racconto evangelico, Matteo intende descrivere una rivelazione divina che in questo caso riguarda la persona di Gesù. Qui Egli non vede, bensì “è visto” e ciò che appare primario è la sua identità di Figlio di Dio. I discepoli, infatti, sono chiamati a conoscerlo e riconoscerlo come Colui a cui il Signore è legato in modo profondissimo. e attraverso il quale Egli stesso parla.

Come Mosè ed Elia sul monte Sinai, così anche Pietro, Giacomo e Giovanni sono dei testimoni privilegiati.

La luce

Nella Bibbia compare spesso il simbolismo della luce per esprimere la realtà di Dio, soprattutto la sua partecipazione alle vicende del popolo biblico. Dio è raffigurato come una “colonna di fuoco” (Es13,21-22), è colui che “si rivela e parla dal fulmine e dal fuoco”(Es 3,2), che con il suo volto luminoso conquista la terra promessa (Sl 44,4).

Nel vangelo della trasfigurazione, la luce domina l’intera scena. Al v.2 si legge che Gesù fu trasfigurato, nel senso che il suo volto risplendeva come il sole, ovvero la luce veniva da Lui, non era riflessa. Non si tratta neppure del cambio di persona o del passaggio da una figura all’altra perché i discepoli continuarono a distinguere il Gesù di tutti i giorni. Eppure, mentre egli era lo stesso, la sua persona era trasfigurata; per di più “le sue vesti divennero candide come la luce”.

Il riferimento alle vesti rappresenta uno sviluppo della simbologia del volto luminoso. Nella tradizione biblica, infatti, il vestito rivela la persona stessa come sembrano confermare le parole del salmo 102,1-2: “Signore, mio Dio, quanto sei grande! Splendore e maestà è il tuo vestito, avvolto di luce come un manto”. Si comprendono, dunque, sia la ricchezza dei termini sia il senso profondo del linguaggio di Matteo. L’immagine della luce resa con le forme del volto luminoso e delle vesti splendenti rivela qualcosa della stretto legame tra Gesù e il Padre.

Mosè ed Elia, Pietro e gli altri discepoli

Mosè è il personaggi dell’AT più citato (circa 80 volte). Nella maggior parte dei casi egli rappresenta innanzitutto il mediatore della Torah; in altre occasioni è considerato un profeta che preannuncia la venuta di Cristo. Elia è meno nominato, anche se ritenuto ugualmente una grande figura, poiché difese l’unità di JHWH dai culti pagani del Dio Baal, riportando il popolo all’adorazione del vero Dio.

Nel v 3 Matteo afferma che sul monte, alla presenza dei discepoli e di Gesù, fanno la comparsa i due più importanti “rappresentanti” dell’AT. Essi rappresentano la legge e i profeti. A differenza di quanto scriverà Luca, Matteo non precisa il contenuto della conversazione dei due con Gesù; per lui basta segnalare il fatto di tale conversazione, ad indicare come Gesù sta al centro delle Scritture e come esse, quindi, parlino di Lui.

La reazione dei discepoli

v.4 – Di fronte a questa scena c’è davvero di che rimanere spaesati. I personaggi che compaiono accanto a Gesù sono scomparsi da tempo, eppure sono lì, vivi e presenti; lo stesso Gesù appare in una luce assolutamente nuova ed irresistibile. Lo spaesamento sembra renderli incapace di reazioni, con l’eccezione di Pietro. Egli è il solo che riesce a verbalizzare i propri sentimenti, segnati dalla paura, dall’incredulità di comprendere appieno quanto sta accadendo. Lo fa quasi con un grido di preghiera, come risulta dal vocativo “Signore!”, ma soprattutto esprime un desiderio di fissare il tempo, impedirne il trascorrere.

La nube e la voce

v.5 – Egli stava ancora parlando, quando una nube luminosa li coprì con la sua ombra. Ed ecco una voce dalla nube che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo».

E’ interessante che l’apparizione della nube luminosa interrompa la Parola di Pietro, perché essa deve introdurre la Parola della voce misteriosa di Colui che la nube rivela e insieme occulta. I racconti biblici del Sinai collegano la nube luminosa (nube – fuoco) alla manifestazione di un Dio che vuole comunicarsi al suo popolo.

«Ascoltatelo»

Il momento è analogo a quello del Battesimo, quando Gesù si presentò come Messia tra i penitenti e i bisognosi di conversione, ma qui Matteo aggiunge l’imperativo ascoltatelo che esprime l’urgenza della sequela e dell’obbedienza. La reazione dei discepoli alla voce misteriosa è un cadere con la faccia a terra, in un gesto di adorazione, accompagnata però da quel timore sbigottito che l’uomo prova quando si avvicina al sacro. Sorprendente è che questo gettarsi faccia a terra non avvenga di fronte alla visione, ma davanti all’audizione. Il messaggio è chiaro: è solo la fede che nasce dall’ascolto della Parola che consente di incontrare il mistero di Dio.

Si avvicinò e li toccò

v.7 – Ma Gesù si avvicinò, li toccò e disse: «Alzatevi e non temete».

Colui che essi hanno visto trasfigurato, cioè nella luce della risurrezione, ora riappare nella sua dimensione terrena. Il gesto di toccare stabilisce una profonda comunione e trasfonde coraggio in loro, si tratta della “carezza di un amico” che desidera farsi vicino, attento e rassicurante, in un momento di disorientamento e fatica.

v.9 – Mentre scendevano dal monte, Gesù ordinò loro: «Non parlate a nessuno di questa visione, prima che il Figlio dell’uomo non sia risorto dai morti».

Gesù, scendendo dalla montagna, ammonisce i tre discepoli perché non raccontino nulla della visione ricevuta prima che egli sia risorto dai morti.
Davanti all’uomo sfigurato, all’uomo dei dolori, essi non dovranno dimenticare che proprio Lui è il trasfigurato, colui il cui volto splendeva come il sole.

Maria Chiara Zulato
http://www.figliedellachiesa.org