8 Febbraio
Santa Giuseppina Bakhita.
La schiava al servizio della speranza vera
Esistono vite la cui storia è un inno alla speranza che consola. Tra di esse c’è quella di santa Giuseppina Bakhita, suora canossiana morta a Schio (Vicenza) nel 1947. I primi anni della sua esistenza – era nata nel 1868 in Darfur – furono segnati dalla schiavitù: tra il 1877 e il 1882 passò da un padrone all’altro, tra atroci sofferenze. Venne poi comprata dal console italiano di Karthoum, Callisto Legnani, che, una volta tornato in Italia la affidò a una famiglia di amici di Mirano (Venezia) e diventò la bambinaia della figlia Alice. Per un periodo venne quindi inviata assieme alla bimba nel collegio retto dalle Canossiane a Venezia. Qui conobbe Cristo e trovò la vocazione: nel 1890 ricevette il Battesimo e nel 1896 emise i voti. Da religiosa a Schio, poi, fu per 50 anni un esempio di santità.
Matteo Liut
Avvenire
GIOVANNI PAOLO II
AI MEMBRI DELLA CONFERENZA DEI VESCOVI DEL SUDAN
Lunedì, 15 dicembre 2003
(…) Desidero ricordare due audaci testimoni della fede, due persone sante, le cui vite sono intimamente legate alla vostra terra: santa Giuseppina Bakhita e san Daniele Comboni. Sono certo che l’esempio di fermo impegno e di carità cristiana offerto da questi due devoti servi del Signore possa gettare una grande luce sulle realtà attuali che la Chiesa nel vostro Paese deve affrontare.
2. Sin da piccola, santa Giuseppina Bakhita ha sperimentato la crudeltà e la brutalità con cui l’uomo può trattare i suoi simili. Rapita e venduta come schiava quando era ancora bambina, ha conosciuto fin troppo bene la sofferenza e la vittimizzazione che tuttora affliggono innumerevoli uomini e donne nella sua patria, in tutta l’Africa e nel mondo. La sua vita ispira la ferma determinazione di operare in modo efficace per liberare le persone dall’oppressione e dalla violenza, assicurando che la loro dignità sia rispettata nel pieno esercizio dei loro diritti. È questa stessa determinazione che deve guidare la Chiesa in Sudan oggi, mentre la nazione compie la transizione dall’ostilità e dal conflitto alla pace e alla concordia. Santa Bakhita è una splendente fautrice dell’emancipazione autentica. La sua vita mostra chiaramente che il tribalismo e le forme di discriminazione basate sull’origine etnica, sulla lingua e sulla cultura non fanno parte di una società civile e non hanno assolutamente alcun posto nella comunità dei credenti. (…)
Tenendo presente questa immagine del Buon Pastore, desidero ora rivolgere la mia attenzione alla figura di san Daniele Comboni, il quale, come sacerdote e Vescovo missionario, ha lavorato instancabilmente per far conoscere e accogliere Cristo in Africa centrale, incluso il Sudan. San Daniele si è preoccupato profondamente che gli africani svolgessero un ruolo importante nell’evangelizzare il continente, e ha avuto l’ispirazione di redigere un piano missionario per la regione, un “piano per la rinascita dell’Africa”, che prevedeva l’aiuto da parte degli stessi popoli indigeni. Nel corso della sua attività missionaria, non ha consentito alle grandi sofferenze e alle numerose difficoltà che ha dovuto sopportare, come le privazioni, lo sfinimento, la malattia e la diffidenza, di distoglierlo dal compito di predicare la Buona Novella di Gesù Cristo.
Il Vescovo Comboni, inoltre, è stato un grande fautore dell’inculturazione della fede. Si è impegnato molto per conoscere le culture e i linguaggi delle popolazioni locali che serviva. In tal modo, è riuscito a presentare il Vangelo nei modi e conformemente alle usanze che i suoi ascoltatori prontamente comprendevano. In modo molto reale, per noi, oggi, la sua vita è un esempio che dimostra chiaramente che “l’evangelizzazione della cultura e l’inculturazione del Vangelo sono parte integrante della nuova evangelizzazione e sono, perciò, un compito proprio dell’ufficio episcopale” (Pastores gregis, n. 30).
Fratelli, questo stesso fervore apostolico, questo zelo missionario e questa profonda preoccupazione per la salvezza delle anime devono distinguere anche il vostro ministero come Vescovi. Rendete vostro primo e principale dovere quello di prendervi cura del gregge che vi è stato affidato, vegliando sul suo benessere spirituale e fisico, trascorrendo del tempo con i fedeli, in particolare con i vostri sacerdoti e i religiosi nelle vostre Diocesi. Il ministero pastorale del Vescovo, infatti, “si esprime in un “essere per” gli altri fedeli che non lo sradica dal suo “essere con” loro” (Pastores gregis, n. 10). (…)
San Girolamo Emiliani.
Il riscatto che nasce da una mano tesa
La malattia, la povertà, la prigionia ma anche una dipendenza, un incidente, un crimine subito: sono tante le situazioni in cui la libertà appare limitata, compromessa o perduta. Ma il riscatto nasce dalla carità, da una mano tesa che accompagna verso la luce. E la “mano tesa” di san Girolamo Emiliani continua a tendersi nella storia attraverso i suoi padri Somaschi, i membri della Società dei Servi dei poveri. Emiliani era nato a Venezia nel 1486 e aveva intrapreso la carriera militare, ma nel 1511 fu imprigionato dai soldati della Lega di Cambrai: quei giorni in catene segnarono la sua “conversione”. Sulla sua strada ebbe come amico Gaetano di Thiene e come confessore Gian Pietro Carafa. Si dedicò ai malati di peste e agli orfani; tra il 1531 e il 1534 prese corpo la sua opera che venne istituita a Somasca, tra Bergamo e Lecco. Morì di peste nel 1537.
Altri santi. Sant’Onorato di Milano, vescovo (VI sec.); Evenzio, vescovo (IV sec.).
Matteo Liut
Avvenire