VI Domenica del Tempo Ordinario (A)
Matteo 5,17-37
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io vi dico: se la vostra giustizia non supererà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli. Avete inteso che fu detto agli antichi: “Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio”. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Avete inteso che fu detto: “Non commetterai adulterio”. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla, ha già commesso adulterio con lei nel proprio cuore. Avete anche inteso che fu detto agli antichi: “Non giurerai il falso, ma adempirai verso il Signore i tuoi giuramenti”. Ma io vi dico: non giurate affatto. Sia invece il vostro parlare: “sì, sì”, “no, no”; il di più viene dal Maligno».
(Letture: Siracide 15,16-21; Salmo 118; 1 Corinzi 2,6-10; Matteo 5,17-37)

Da Gesù non una nuova «morale», ma una liberazione
Ermes Ronchi
Un Vangelo da vertigini. E come è possibile? Anche Maria lo chiese quel giorno all’angelo, ma poi disse a Dio: “sia fatta la tua volontà, modellami nelle tue mani, io tua tenera argilla, trasformami il cuore”. E ha partorito Dio. Anche noi possiamo come lei, portare Dio nel mondo: partorire amore.
Avete inteso che fu detto… ma io vi dico. Gesù non contrappone alla morale antica una super-morale migliore, ma svela l’anima segreta della legge: «Il suo Vangelo non è una morale ma una sconvolgente liberazione» (G. Vannucci).
Gesù non è né lassista né rigorista, non è più rigido o più accondiscendente degli scribi: lui fa un’altra cosa, prende la norma e la porta avanti, la fa schiudere come un fiore, nelle due direzioni decisive: la linea del cuore e la linea della persona.
Gesù porta a pienezza la legge e nasce la religione dell’interiorità. Fu detto: non ucciderai; ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, cioè chiunque alimenta rabbie e rancori, è già in cuor suo un omicida. Gesù va alla sorgente: ritorna al cuore e guariscilo, solo così potrai curare i tuoi gesti. Ritorna al cuore e custodiscilo perché è la sorgente della vita. Non giurate affatto; il vostro dire sia sì, sì; no, no. Dal divieto del giuramento, arriva al divieto della menzogna. Dì la verità sempre, e non servirà giurare.
Porta a compimento la legge sulla linea della persona: se tu guardi una donna per desiderarla sei già adultero. Non dice semplicemente: se tu, uomo, desideri una donna; se tu, donna, desideri un uomo. Il desiderio è un servitore necessario alla vita. Dice: se guardi per desiderare e vuol dire: se ti avvicini ad una persona per sedurre e possedere, se riduci l’altro a un oggetto, tu pecchi contro la grandezza di quella persona.
Commetti adulterio nel senso originario del termine adulterare: tu alteri, falsifichi, manipoli, immiserisci la persona. Le rubi il sogno di Dio, l’immagine di Dio. Pecchi non contro la morale, ma contro la persona, contro la nobiltà e la profondità della persona.
Cos’è la legge morale allora? Ascolti Gesù e capisci che la norma è salvaguardia della vita, custodia di ciò che ci fa crescere oppure diminuire in umanità. Ascolti queste parole che sono tra le più radicali del Vangelo e capisci che diventano le più umane, perché Gesù parla solo in difesa della umanità dell’uomo, con le parole proprie della vita.
Allora il Vangelo diventa facile, umanissimo, anche quando dice parole che danno le vertigini. Perché non aggiunge fatica a fatica, non convoca eroi duri e puri, non si rivolge a santi, ma a persone autentiche, semplicemente a uomini e donne sinceri nel cuore.
Avvenire
“Ma io vi dico…”
Enzo Bianchi
Dopo le beatitudini (cf. Mt 5,1-12) e la definizione di chi le vive come sale della terra e luce del mondo (cf. Mt 5,13-16), ecco il corpo del “discorso della montagna”: tre capitoli nei quali Matteo ha innanzitutto raccolto parole di Gesù riguardanti la Legge data a Dio attraverso Mosè e il discepolo che vuole veramente viverla secondo l’intenzione del Legislatore, Dio. Nella parte restante del capitolo 5 Gesù crea sei contrapposizioni tra lo “sta scritto” tramandato di generazione in generazione e ciò che egli vuole annunciare, come un’interpretazione della Torah più autorevole e autentica di quella fornita dalla tradizione dei maestri.
Gesù comincia con l’assicurazione di non essere venuto ad abrogare la Torah, a toglierle autorità, bensì a “compierla”, a svelarne il senso racchiuso, realizzandolo in primo luogo nella sua persona e rivelandone il pieno significato. Anche per Gesù resta vero che “Mosè ricevette la Torah sul Sinai, la trasmise a Giosuè, Giosuè la trasmise agli anziani e gli anziani ai profeti (Mishnah, Avot I,1); ma proprio in nome della sua autorità messianica egli ne dà l’interpretazione ultima e definitiva, dopo la quale non ce ne saranno altre. Matteo è stato molto intrigato dal rapporto fra tradizione e novità del Vangelo, perché si indirizzava a comunità cristiane di Siria e Palestina, nelle quali erano presenti numerosi giudeo-cristiani, che si interrogavano su cosa potesse essere tralasciato delle minuziose prescrizioni rabbiniche. Vi erano allora, come ancora oggi, conflitti fra tradizionalisti e innovatori, fra zelanti della Legge fino al legalismo e cristiani più sensibili al mutamento dei tempi e della cultura.
Secondo il primo vangelo, Gesù resta fedele alla Torah, non la sostituisce con un insegnamento altro, ma con exousía, con autorevolezza, rivela, alza il velo sulla Legge e ne svela la giustizia profonda, perché sia possibile al discepolo una sua osservanza autentica. Per Gesù non è sufficiente l’osservanza indicata dai teologi del tempo, interpreti ufficiali delle Scritture (gli scribi), né quella propria dei credenti impegnati e osservanti, associati nei movimenti (i farisei): vuole una giustizia superiore, più abbondante (verbo perisseúo), che superi quella indicata dalle scuole rabbiniche e fissate nella casistica. Gesù vuole inoltre che quella giustizia predicata sia osservata, vissuta da parte di chi la indica agli altri, perché proprio da questo vissuto dipendono lo stile e il contenuto di ciò che si predica agli altri.
Ecco allora la prima delle quattro antitesi proposte dal brano liturgico: “Avete inteso che fu detto agli antichi: ‘Non ucciderai’ (Es 20,13; Dt 5,17) … Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: ‘Stupido’, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: ‘Pazzo’, sarà destinato al fuoco della Geenna”. Innanzitutto, cosa chiede veramente Dio al credente in alleanza con lui? Solo di non uccidere? Questo il detto tramandato, ma il non-detto è svelato da Gesù: in tutte le relazioni umane occorre frenare l’aggressività, spegnere la collera prima che diventi violenza, fermare la lingua che può uccidere con la parola. Prima di diventare azione, la violenza cova nel cuore umano, e a questo istinto occorre fare resistenza. L’astenersi dalla violenza è più decisivo di un’azione di culto fatta a Dio, il quale vuole la riconciliazione tra noi fratelli prima della riconciliazione con lui; anche perché la riconciliazione con lui che nessuno vede è possibile solo per chi sa riconciliarsi con il fratello che ciascuno vede (cf. 1Gv 4,20).
Eppure noi sentiamo il bisogno di scaricare il male che ci abita, dicendo poco o tanto male di qualcuno. Usiamo la parola come una pietra scagliata, dicendo: “Quello è uno stupido, uno scemo!”, e così autorizziamo chi ci ascolta a ritenere una persona da evitare colui che abbiamo definito tale. Del resto, già i rabbini dicevano che “chi odia il suo prossimo è un omicida”. Ecco dunque svelata la profondità del comandamento: “Non ucciderai”, che significa anche “Sii mite, dolce, e sarai beato” (cf. Mt 5,5).
Dopo la violenza viene la sessualità, materia della seconda e della terza antitesi. Si comincia con: “Non commetterai adulterio” (Es 20,14; Dt 5,18). Ma per Gesù questo non è sufficiente. Occorre fare i conti con il desiderio che abita il cuore umano: se infatti uno desidera il possesso, se con il suo sguardo cerca di possedere l’altro, se con la sua brama non vede più la persona, ma solo una cosa di cui impadronirsi, allora anche se non arriva a consumare il peccato è già adultero nel suo cuore. Se si fa attenzione, qui Gesù sposta la colpa dalla donna sedotta, giudicata sempre lei come peccatrice e causa di peccato, a chi seduce e non sa resistere al desiderio. Tutto il corpo, e soprattutto i sensi attraverso i quali viviamo le relazioni con gli altri, devono essere dominati, ordinati e anche accesi dalla potenza dell’amore, non dall’eccitazione delle passioni. Certamente non è facile questa vigilanza e questa disciplina del cuore, ma non è possibile scindere la mente, il cuore e i sensi dalla sessualità. Proprio per questo Gesù ribadisce (e lo farà più ampiamente in Mt 19,1-9) che Dio non vuole il ripudio, l’infrazione dell’alleanza nuziale, non vuole la contraddizione alla storia d’amore sigillata nella pur faticosa avventura della vita.
La quarta antitesi riguarda la verità nei rapporti tra le persone. È l’ottavo comandamento dato al Sinai: “Non dirai falsa testimonianza” (Es 20,16; Dt 5,20). Gesù conosce bene quello che gli esseri umani vivono: incapaci di vivere la fiducia nelle relazioni reciproche, giungono a giurare, a chiamare Dio come testimone (cf. Es 20,7; Lv 19,12; Dt 23,22). Così avviene nel mondo, così fan tutti, ma ecco la radicalità di Gesù: “Io vi dico di non giurare mai, né per il cielo, perché è il trono di Dio, né per la terra, perché è lo sgabello dei suoi piedi, né per Gerusalemme, perché è la città del grande Re”. Alla casistica della tradizione Gesù oppone la semplicità del linguaggio, la verità delle parole: Gesù invita alla responsabilità della parola. Il parlare di ciascuno dev’essere talmente limpido da non aver bisogno di chiamare Dio o le realtà sante a testimone di ciò che si esprime. Non sono necessari garanti della verità che si esprime, e invocare il castigo, la sanzione di Dio per ciò che si è detto come non vero o per ciò che non si è realizzato, è temerario. Dio non è al nostro servizio e non interviene certo a punire le nostre menzogne, almeno durante la nostra vita.
E allora quando uno dice sia “sì”, sia “sì”, e quando dice “no”, sia “no”, perché il di più viene dal Maligno”, che “è menzognero e padre della menzogna” (Gv 8,44). Nessun “cuore doppio” (Sal 12,3), nessuna possibilità di simulazione per il discepolo di Gesù, nessun tentativo di dire insieme “sì” e “no”. Non è forse Gesù stesso “l’Amen di Dio” (cf. Ap 3,14), il “Sì” di Dio alle sue promesse, come predica Paolo (cf. 2Cor 1,19-20)? L’essere umano rispetto agli animali ha il privilegio della parola, ma questo mezzo così umanizzante per sé e per gli altri è uno strumento fragile… Il dominio della parola è davvero alla base della sapienza umana.
Quella di Gesù non è dunque una “nuova legge”, una “nuova morale”, ma è l’insegnamento di Dio dato a Mosè, interpretato con autorità, risalendo all’intenzione del Legislatore stesso. Solo Gesù, il Figlio di Dio, poteva fare questo.
La forza di un “ma”
Don Antonio Savone
Un giorno, poiché ritenuto sovversivo, un po’ fuori dalle righe, parlando ai suoi discepoli, il Signore non tardò a precisare di non essere venuto ad abolire nulla di quanto era stato detto prima di lui nella legge ma, piuttosto, a dargli compimento. Più volte, infatti, il capo di accusa nei suoi confronti sarà proprio quello di trasgredire, di essere l’uomo dei cambiamenti, accusa che gli valse un vero e proprio capo di imputazione tanto da ritenerlo reo di morte.
“Ma io vi dico…”.
Quale forza racchiude sulle labbra di Gesù la congiunzione “ma”! Tutto l’opposto di ciò che essa esprime quando affiora sulle nostre labbra. Sulle nostre labbra, infatti, essa “esplicita contrapposizione al termine che precede, il quale è per lo più espresso negativamente”.
Così come Gesù la usa, non denigra affatto ciò a cui fa riferimento, non banalizza quanto lo ha preceduto: essa introduce piuttosto qualcosa di cui il prima era solo primizia, caparra, qualcosa che non poteva neppure immaginare quanto sarebbe accaduto dopo. Come il tocco di un artista che riesce a far risplendere di luce nuova qualcosa che rischiava di essere buttato al macero perché aveva perduto lo spirito che ne aveva guidato la realizzazione. Non aveva fatto così con quegli uomini che passando aveva chiamato dietro di sé? Cosa sarebbe stato di Pietro, Giacomo, Giovanni, senza il tocco di questo artista singolare che stava permettendo loro di esprimere al meglio ciò di cui ciascuno era portatore inconsapevole?
È proprio così: se hai la grazia di incrociare il suo sguardo e di stargli dietro, nulla è più come prima.
Non ti basterà, infatti, riconoscere quasi con candore infantile (come sovente accade) di non aver ucciso; scoprirai, piuttosto, che già aver dato dello stupido a qualcuno è come aver mortificato la possibilità che quegli si esprima secondo la sua capacità.
Non ti basterà soltanto evitare di andare a letto con un’’altra donna o con un altro uomo; scoprirai, invece, che aver guardato con l’occhio di chi ha già denudato è aver mancato di rispetto verso l’altro. Che cos’è, infatti, che può indurre a cedere se non lo sguardo, anzitutto? Che cos’è che potrà portare all’eliminazione fisica dell’altro se non il disprezzarlo?
Un tale discorso è radicale, non c’è che dire. Ma proprio questo è il percorso proposto dal vangelo: prova ad andare alla radice dei tuoi comportamenti per scoprire che se non sei in grado di porre un freno per tempo, il rischio è quello di non riuscire a gestire alcuna relazione. A poco serve mettere il deodorante quando ti rifiuti di lavarti; serve poco insaponare la pelle quando sei il maggior azionista di produzione di veleno, foss’anche quello solo per topi.
Non basta un’adesione formale alla legge, ripete oggi il Signore. Sapeva bene, infatti, che come più tardi qualcuno riconoscerà, “per i nemici le leggi si applicano, per gli amici si interpretano” (Giolitti). Non è forse vero che la legge è il risultato di un vero e proprio compromesso tra il modo di fare e la giustizia, “tra il selvatico e l’umano”? La legge è data per contenere, ridurre, circoscrivere. “Per la durezza del vostro cuore”, ripeterà un giorno Gesù, Mosè permise ad esempio l’atto di ripudio. Era un modo per evitare il peggio, appunto. Basta, forse, avere una legge perché essa sia rispettata? Se così fosse non avremmo bisogno di tribunali e di luoghi di detenzione. La legge non ha certo in sé il potere di sconfiggere il male ma solo di arginarlo.
Non è forse vero che noi altaleniamo non poche volte tra prassi religiosa e tanti aspetti in cui è precluso l’accesso al vangelo? “Vedo il bene e lo approvo e tuttavia mi ritrovo a fare il male che non vorrei”, riconoscerà amareggiato l’apostolo Paolo. È come se altalenassimo continuamente tra confessione ed evasione, giaculatorie e bestemmie.
Per questo Gesù va alla radice: non basta accontentarsi del minimo quando sappiamo di essere stati resi capaci di palpitare al ritmo del cuore stesso di Dio. Non può capire l’amore chi non mette in conto l’eccesso: sempre esagerato l’amore, ma se non è esagerato, semplicemente non è.
Non basta giudicare l’atto compiuto, che è quello che fa la legge: è necessario scoprire ciò che ha mosso quell’atto. Altrimenti è la fine.
Ma io vi dico. Cosa? Vi dico che è possibile rompere l’automatismo secondo il quale basta accontentarsi del minimo. Non basta evitare il male, è necessario imparare a compiere il bene. Io vi dico, ripete, Gesù, che è possibile cambiare il copione di un’esistenza, quand’anche finora tu abbia fatto sempre in un certo modo.
Impara a dire: “ho sbagliato”, invece che concludere di essere un fallito.
Impara a riconoscere: “ho un desiderio non puro”, invece che concludere di essere un maiale. Piuttosto che vedere l’intera esistenza buttata via, comincia col prendere in mano ciò che è la causa di un certo malessere.
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