Festa della Presentazione del Signore 
2 Febbraio 
Lc 2,22-40


Presentazione 4

Un figlio appartiene a Dio, non ai genitori
Ermes Ronchi

Quando furono compiuti i giorni della loro purificazione rituale, secondo la legge di Mosè, Maria e Giuseppe portarono il bambino a Gerusalemme per presentarlo al Signore – come è scritto nella legge del Signore: «Ogni maschio primogenito sarà sacro al Signore» – e per offrire in sacrificio una coppia di tortore o due giovani colombi, come prescrive la legge del Signore. […]

Maria e Giuseppe portarono il Bambino a Gerusalemme, per presentarlo al Signore. Una giovanissima coppia, col suo primo bambino, arriva portando la povera offerta dei poveri, due tortore, e il più prezioso dono del mondo: un bambino.
Sulla soglia, due anziani in attesa, Simeone e Anna. Che attendevano, dice Luca, «perché le cose più importanti del mondo non vanno cercate, vanno attese» (Simone Weil). Perché quando il discepolo è pronto, il maestro arriva.
Non sono i sacerdoti ad accogliere il bambino, ma due laici, che non ricoprono nessun ruolo ufficiale, ma sono due innamorati di Dio, occhi velati dalla vecchiaia ma ancora accesi dal desiderio. E lei, Anna, è la terza profetessa del Nuovo Testamento, dopo Elisabetta e Maria.
Perché Gesù non appartiene all’istituzione, non è dei sacerdoti, ma dell’umanità. È Dio che si incarna nelle creature, nella vita che finisce e in quella che fiorisce. «È nostro, di tutti gli uomini e di tutte le donne. Appartiene agli assetati, ai sognatori, come Simeone; a quelli che sanno vedere oltre, come Anna; a quelli capaci di incantarsi davanti a un neonato, perché sentono Dio come futuro e come vita» (M. Marcolini).
Simeone pronuncia una profezia di parole immense su Maria, tre parole che attraversano i secoli e raggiungono ciascuno di noi: il bambino è qui come caduta e risurrezione, come segno di contraddizione perché siano svelati i cuori.
Caduta, è la prima parola. «Cristo, mia dolce rovina» canta padre Turoldo, che rovini non l’uomo ma le sue ombre, la vita insufficiente, la vita morente, il mio mondo di maschere e di bugie, che rovini la vita illusa.
Segno di contraddizione, la seconda. Lui che contraddice le nostre vie con le sue vie, i nostri pensieri con i suoi pensieri, la falsa immagine che nutriamo di Dio con il volto inedito di un abbà dalle grandi braccia e dal cuore di luce, contraddizione di tutto ciò che contraddice l’amore.
Egli è qui per la risurrezione, è la terza parola: per lui nessuno è dato per perduto, nessuno finito per sempre, è possibile ricominciare ed essere nuovi. Sarà una mano che ti prende per mano, che ripeterà a ogni alba ciò che ha detto alla figlia di Giairo: talità kum, bambina alzati! Giovane vita, alzati, levati, sorgi, risplendi, riprendi la strada e la lotta.
Tre parole che danno respiro alla vita.
Festa della presentazione. Il bambino Gesù è portato al tempio, davanti a Dio, perché non è semplicemente il figlio di Giuseppe e Maria: «i figli non sono nostri» (Kalil Gibran), appartengono a Dio, al mondo, al futuro, alla loro vocazione e ai loro sogni, sono la freschezza di una profezia “biologica”. A noi spetta salvare, come Simeone ed Anna, almeno lo stupore.

Avvenire

INCONTRI
Clarisse Sant’Agata 

Gesù sale a Gerusalemme.

La città santa è un luogo di rivelazione per Lui, un centro di attrazione irresistibile dove più volte salirà lungo la Sua vita, fino all’ultimo viaggio che compirà (e che occupa la maggior parte del vangelo di Luca) “perché non è possibile che un profeta muoia fuori da Gerusalemme” (cfr. Lc 13,33).

Oggi Gesù è portato a Gerusalemme ancora bambino, a compimento “del tempo della loro purificazione”, e la meta di questo viaggio è il tempio, dove sarà presentato al Padre. L’evangelista Luca non ci dice chi porti Gesù al tempio, anche se possiamo supporre come soggetto sottinteso “i suoi genitori”, al termine della “loro purificazione”. Le norme rituali della Legge del Signore tuttavia, prevedevano solo la purificazione della madre (cfr. Lv 12,1-8), non di entrambi i genitori! Per cui possiamo leggere fra le righe che Luca sta indicando il compimento di un’altra purificazione.

Si tratta di quella purificazione di cui ci parla anche il profeta Malachia nella prima lettura di oggi: “e subito entrerà nel suo tempio il Signore che voi cercate; e l’angelo dell’alleanza, che voi sospirate, eccolo venire, dice il Signore degli eserciti. (…) Egli è come il fuoco del fonditore e come la lisciva dei lavandai. Siederà per fondere e purificare l’argento; purificherà i figli di Levi, li affinerà come oro e argento, perché possano offrire al Signore un’offerta secondo giustizia”. Ed è la purificazione che anche Gesù compirà nel vangelo di Luca, entrando nel tempio alle soglie della sua pasqua: “entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano, dicendo loro: “Sta scritto: La mia casa sarà casa di preghiera. Voi invece ne avete fatto un covo di ladri” (Lc 19,45-46).
L’ingresso del Signore Gesù nel tempio segna la purificazione di quello che il tempio rappresentava per Israele: il luogo dell’incontro fra Dio e il suo popolo.

Ora Luca sembra anticipare qui, nella presentazione del bambino Gesù al tempio, la purificazione della relazione dell’uomo con il suo Dio, per inaugurare l’incontro definitivo fra Dio e l’uomo.
In questa festa piena di luce, accogliamo allora questa Parola del Signore che viene nel tempio della nostra vita per “purificarlo” e farne il luogo dove possiamo anche noi “vedere con i nostri occhi la salvezza che Dio ha preparato per tutti i popoli” (cfr. Lc 2,30-31).
Questa festa della presentazione di Gesù al tempio è chiamata dai nostri fratelli orientali “festa dell’incontro”, l’incontro nel tempio fra Gesù che viene per offrire se stesso (cfr. Eb 9,12.14.28) e l’uomo capace di attesa. Simeone e Anna sono quelle figure profetiche che sintetizzano in sé tutta la capacità di attendere di Israele e dell’umanità.

Luca ce li presenta dettagliatamente: Simeone, uomo giusto (come Giuseppe) e pio, che aspettava la consolazione di Israele (come Isaia: Is 40,1; 51,12; 61,2), uomo su cui si posa lo Spirito in modo permanente (come si era posato su Maria; come avverrà agli apostoli a pentecoste; ma soprattutto come accade a Gesù: Gv 1,32-33); Simeone è l’uomo che vive l’ascolto della Parola (il nome “Simeone” deriva dal verbo ebraico “shm’”, “ascoltare”, come in Dt 6: “Shemà Israel, ascolta Israele”) guidato dallo Spirito.

In lui lo Spirito ha aperto lo spazio dell’attesa, dell’ascolto profondo di Dio che parla attraverso parole ed eventi. E questo spazio di attesa era abitato per Simeone dalla certezza che “non avrebbe visto la morte senza prima aver veduto il Cristo Dio”. Sappiamo bene che “vedere Dio” significa “morire”, secondo la Scrittura. E Simeone ha ricevuto dallo Spirito la promessa di vedere Dio faccia a faccia, in un incontro che segna la fine di un certo modo di vivere e l’inizio di una vita nuova.
Pensiamo sempre a Simeone come ad un vecchio (forse per assimilazione ad Anna che aveva 84 anni!) perché nel suo cantico evoca la morte come passaggio ormai vicino, ma Luca non ci dice che sia un uomo anziano. Se nell’iconografia tradizionale è rappresentato curvo, possiamo pensare che Simeone sia curvo sotto il peso dell’attesa, invecchiato dalla paziente frequentazione delle Scritture e del tempio, spazi che “ospitano” la rivelazione del Salvatore.

Anche Anna è una donna abitata dall’attesa; una donna per la quale attendere è diventato l’unico verbo della vita, declinato come preghiera e digiuno. Attendere ha occupato tutto lo spazio della sua esistenza (è descritta dalla sua giovinezza fino alla sua vecchiaia), in ogni suo momento (notte e giorno): “non si allontanava mai dal tempio” e dal servizio di Dio, vivendo protesa alla ricerca di Lui (digiuno e preghiera sono una forma di invocazione rivolta a Dio con il corpo).
L’evangelista Luca oggi proclama che l’incontro fra Dio che viene e l’attesa dell’uomo avviene in uno spazio non ufficiale (non durante una solenne liturgia o nel “Santo dei santi”), ma in uno spazio del tempio qualsiasi, dove si incontrano la piccolezza di Dio (Dio è un bambino!) e la fragilità dell’uomo (una vedova, un vecchio…).
Si incontra Dio come Salvatore solo se i nostri occhi si fanno attenti alla piccolezza di Dio che si affaccia alla nostra vita, portato da qualcun altro. La salvezza si offre a noi nuda e fragile come un bambino. E accogliendolo fra le braccia, cioè abbracciando la forma fragile ed inevidente con cui Dio si offre a noi, possiamo accogliere Gesù come “segno di contraddizione” nella nostra vita. Ciò che Simeone dice a Maria non è riferito solo a lei! A ciascuno di noi Dio si offre come segno di contraddizione, cioè non come ce lo aspetteremmo. Forse noi attendiamo qualcuno che venga che salvarci e per prendersi cura di noi. Ma oggi la liturgia ci dice che Dio viene perché noi ci prendiamo cura di Lui, come accade per un Bambino. Dio viene ancora, nel tempio della nostra vita, fragile e piccolo perché, prendendoci cura di Lui, possiamo sperimentare la salvezza. E la salvezza non consiste nell’essere tolti da ogni situazione difficile o di prova, ma nello scoprire che Dio è lì presente con noi, nella fragilità della sua umanità che ha abbracciato la nostra

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Commento di Paolo Curtaz

Illuminati
Nel passato in questa giornata si benedivano i ceri che servivano ad illuminare le nostre chiese quando ancora non esisteva l’illuminazione elettrica. E sempre questa giornata, ancora oggi, rappresenta un momento importante per le persone consacrate che rinnovano la loro totale adesione a Cristo, il dono di sé al Padre, gesto richiamato dalla presentazione al tempio di Gesù.
E il valore di questa festa è rimasto talmente inciso nella memoria della liturgia che quest’anno, cadendo di domenica, finisce col sostituirla.
È una festa che richiama il tempo di Natale appena concluso, festa dal sapore sacro che odora di incenso: con la fantasia rivediamo le alte colonne che sorreggevano il portico di Salomone e i vasti cortili lastricati che immettevano nella zona più sacra del tempio di Gerusalemme.
Maria e Giuseppe, giovane coppia spaurita della Galilea, otto giorni dopo la nascita del loro primogenito, adempie il precetto della Legge della circoncisione, forte segno nella carne che testimonia l’appartenenza del popolo di Israele al Dio rivelatosi a Mosè.
Un segno che consacra ogni vita al Dio che l’ha donata.
Bella storia.

Obbedienti
Mi affascina questo gesto compiuto da Maria e Giuseppe, un gesto di obbedienza alla tradizione, di rispetto per le Leggi di Israele. Sanno bene che quel bambino è ben più di un primogenito da consacrare, sanno e hanno appena fatto esperienza del mistero infinito che lo abita.
Potrebbe pensare di essere superiori alle Leggi, di non averne bisogno perché sorreggono fra le braccia colui che ha dato la Legge e che, misteriosamente, ha deciso di diventare uomo. Invece no, vanno al tempio come una coppia qualsiasi, compiono quel gesto senza farsi troppe domande.
Fa tenerezza immaginare la coppia di Nazareth incedere timidamente negli ampi spazi del ricostruito tempio, in mezzo ad un viavai di gente indaffarata, alle preghiere pronunciate ad alta voce, all’odore acre dell’incenso mischiato alla carne bruciata… Sono lì ad assolvere un gesto di obbedienza secondo la Legge mosaica: un’offerta da compiere per riscattare il primogenito, un rito che ricorda che la vita appartiene a Dio e a lui ne va riconosciuto il dono.
Gesù obbedisce alla Legge, Dio si sottomette alle tradizioni degli uomini. Nell’obbedienza vuole cambiare le regole, nel solco della tradizione vuole ridare vitalità e senso ai gesti del suo popolo.

Donati
Gesù è offerto al Padre, è donato da subito e quel gesto si ripeterà infinite volte nella sua luminosa vita. Gesù è e resta dono, diventa dono al Padre che ne fa dono all’umanità.
E in questa logica del dono, oggi, desideriamo fortemente fare della nostra piccola vita un’offerta a Dio. Da lui l’abbiamo ricevuta, a lui vogliamo donarla: ciò che siamo sia utile alla realizzazione del Regno, ci aiuti a fare di ogni gesto, di ogni giorno, un atto consapevole di amore verso Dio e il suo progetto di salvezza…
Gesù stesso si comporterà allo stesso modo, senza rigettare le prescrizioni rituali, senza porsi al di sopra della tradizione religiosa del suo popolo, senza fare l’anarchico ma vivendo con autenticità e verità le norme della Torah.
Il gesto di andare al tempio ci incoraggia a vivere la nostra fede attraverso i sicuri sentieri della tradizione, ripercorrendo l’esperienza che ha coagulato l’esperienza dei discepoli attorno a momenti ben precisi, celebrando nella vita la presenza del Signore anche attraverso segni ben concreti, come i Sacramenti.
Troppe volte chi cerca di vivere con maggiore intensità e verità la fede si sente “migliore” di chi, invece, la vive senza grande coinvolgimento. La tentazione, però, è quella di costruirsi una fede che guarda dall’alto le devozioni, le tradizioni, i percorsi abituali della santità.
Non dobbiamo ignorarli od evitarli, ci suggeriscono Maria e Giuseppe, ma riempirli di verità.

Illuminati
Il vecchio Simeone vede il neonato e capisce.
Nella splendida preghiera che ci riporta Luca, vede in quel bambino la luce che illumina ogni uomo, la luce delle nazioni.
In realtà Gesù non emana luce, non ha nessuna caratteristica che lo distingua da qualunque altro bambino. Nessun prodigio, nessun discorso edificante, nessun gesto miracoloso: solo un bambino che sonnecchia, beato, fra le braccia della mamma.
È nel cuore di Simeone la luce. Nel suo sguardo.
Così è la fede: anche noi siamo chiamati a vedere con lo sguardo del cuore, a capire che ogni cosa è illuminata. E di quanta luce necessitiamo, oggi! Di una chiave di interpretazione che ci aiuti a vedere al di là, al di sopra e al di dentro delle evidenze sconfortanti di una società ripiegata su se stessa.
Agli inizi del cristianesimo i seguaci del Nazareno venivano chiamati, fra altri modi, anche “illuminati”.
E Dio solo sa di quanta luce ha bisogno questo mondo! Portiamo luce perché siamo accesi, come le candele che oggi benediciamo.

Simeone
Gesù è portato al Tempio per la circoncisione: è un segno di obbedienza alla Legge da parte dei suoi genitori che non si sentono diversi o migliori, ma appartenenti ad un popolo ricco di tradizioni religiose che essi vogliono rispettare. Nel momento dell’offerta del primogenito a Dio, Maria e Giuseppe incontrano il vecchio e sconfortato Simeone.
Simeone è il simbolo della fedeltà del popolo di Israele che aspetta con fiducia la venuta del Messia, da tutta la vita sale al Tempio sperando di vedere il Messia, ma ora è anziano e Luca ci lascia intuire la sua stanchezza interiore, che è la stanchezza di tanti anziani che incontro ogni giorno.
Simeone è il simbolo dell’ansia profonda di ogni uomo, perché la vita è desiderio insoddisfatto, la vita è cammino, la vita è attesa.
Attesa di luce, di salvezza, di un qualche senso che sbrogli la matassa delle nostre inquietudini e dei nostri “perché”.
La preghiera intensa di Simeone che finalmente vede l’atteso è bellissima: ora è sazio, soddisfatto, ora ha capito, ora può andare, ora tutto torna. Sono sufficienti tre minuti per dare senso e luce a tutta una vita di sofferenze, tre minuti per dare luce ad una vita di attesa.
Che il Signore ci conceda, nell’arco della nostra vita, almeno questi tre minuti…


da http://www.lachiesa.it