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Meditazioni di Papa Francesco per l’Avvento
Prima Settimana 

Testo word Meditazioni di Papa Francesco per l’Avvento – Prima Settimana 
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Lunedì della I settimanaIs 2,1-5   Sal 121    Mt 8,5-11:
Molti dall’oriente e dall’occidente verranno nel regno dei cieli.
Martedì della I settimanaIs 11,1-10   Sal 71     Lc 10,21-24:
Gesù esultò nello Spirito Santo.
Mercoledì della I settimanaIs 25,6-10a   Salmo 22     Mt 15,29-37:
Gesù guarisce i malati e moltiplica i pani.
Giovedì della I settimanaIs 26,1-6   Sal 117     Mt 7,21.24-27:
Chi fa la volontà del Padre mio, entrerà nel regno dei cieli.
Venerdì della I settimanaIs 29,17-24   Sal 26     Mt 9,27-31:
Gesù guarisce due ciechi che credono in lui.
Sabato della I settimanaIs 30,19-21.23-26   Sal 146  Mt 9,35-10,1.6-8:
Vedendo le folle, ne sentì compassione.

Lunedì – 1° di Avvento
Liturgia: Is 2,1-5 (opp. 4,2-6); Sal 121; Mt 8,5-11

Bellissima sorpresa

Comincia l’anno liturgico e con esso l’itinerario dell’Avvento, cammino liturgico e cammino di vita per ogni cristiano, chiamato all’«incontro» con Gesù. È proprio questa — “incontro” — la parola chiave che ha caratterizzato l’omelia di Papa Francesco.

Nella liturgia della prima domenica di Avvento la Chiesa «ha pregato così: “O Dio, nostro Padre, suscita in noi la volontà di andare incontro con le buone opere al tuo Cristo che viene, perché egli ci chiami accanto a sé nella gloria a possedere il regno dei cieli”». È la richiesta «al Padre di suscitare in noi la volontà di andare incontro a Gesù, incontro a suo Figlio». Ed è infatti questa «la grazia che noi vogliamo nell’Avvento, e la chiediamo: avere voglia di incontrare Gesù» e dunque di «camminare e andare all’incontro» con lui.

Un periodo questo segnato da «tanti incontri»: quello «di Gesù con sua madre nel grembo», quello «con san Giovanni Battista nel grembo» e poi «con i pastori» e «con i Magi», fino alla conclusione — non «liturgicamente» ma «simbolicamente» — «con il grande incontro di Gesù con il suo popolo, il 2 febbraio, quando Gesù, a quaranta giorni, è portato al tempio». E «noi speriamo di incontrarlo»  ricordando che «ieri, già, nella piazza c’era l’albero. Un segno. Ma, un segno che ci dice: “Stai attento: tu devi incontrare il Signore!”». E infatti dopo la prima lettura, il canto al Vangelo recita: «Andiamo con gioia all’incontro del Signore».

Quindi,  l’invito per tutti è ancora quello di chiedere «la grazia di andare incontro» a Cristo. Questo è «un tempo per non stare fermo. Il nostro cuore deve domandarsi: “Ma come posso andare all’incontro del Signore? Quali sono gli atteggiamenti che io devo avere per incontrare il Signore? Come devo preparare il mio cuore per incontrare il Signore?”».

Sempre nella liturgia del giorno si trova una risposta a queste domande: la colletta, infatti, «segnala tre atteggiamenti: vigilanti nella preghiera, operosi nella carità ed esultanti nella lode». Cioè «devo pregare, con vigilanza; devo essere operoso nella carità» e avere «la gioia di lodare il Signore».

Riguardo alla carità,  si parla di «carità fraterna»: quindi «non solo dare un’elemosina; anche tollerare la gente che mi dà fastidio, tollerare a casa i bambini quando fanno troppo rumore, o il marito o la moglie quando ci sono difficoltà, o la suocera». Insomma una «carità operosa»: «Così dobbiamo vivere questo cammino, questa volontà di incontrare il Signore. Per incontrarlo bene. Non stare fermi. E incontreremo il Signore».

Ma nel momento dell’incontro «ci sarà una sorpresa, perché lui è il Signore delle sorprese». Ricordando la preghiera liturgica che fa cenno «al tuo Figlio che viene», infatti è da notare che «anche lui non sta fermo: lui viene. Io sono in cammino per incontrarlo e lui è in cammino per incontrarmi, e quando ci incontriamo vediamo che la grande sorpresa è che lui mi sta cercando, prima che io incominci a cercarlo». È questa «la grande sorpresa dell’incontro con il Signore. Lui ci ha cercato prima». È vero che «il nostro cammino è importante», ma «lui sempre è primo. Lui fa il suo cammino per trovarci».

Del resto, «è la sorpresa che ha avuto il centurione».  «Non era un ebreo, e quando ha detto ai suoi che sarebbe andato da questo profeta, da questo guaritore per chiedere la grazia, qualcuno gli ha detto: “Ma, non immischiarti con gli ebrei, tu non sai, avrai problemi con i tuoi superiori…”, ma quante cose avrà sentito!». Nonostante ciò il centurione «ha preso coraggio» ed è andato incontro al Signore. E «la grande sorpresa era che il Signore voleva andare da lui: “Io verrò, a guarirlo”». Questo ci fa capire che «sempre il Signore va oltre, va prima. Noi facciamo un passo e lui ne fa dieci. Sempre».

È l’esperienza dell’«abbondanza della sua grazia, del suo amore, della sua tenerezza che non si stanca di cercarci». Un’esperienza che facciamo «anche, alle volte, con cose piccole: noi pensiamo che incontrare il Signore sia una cosa magnifica», e facciamo come Naaman il Siro nel racconto biblico: «anche lui ha avuto una sorpresa grande del modo di agire di Dio».

«Il nostro  è il Dio delle sorprese, il Dio che ci sta cercando, ci sta aspettando, e soltanto chiede da noi il piccolo passo della buona volontà». Per questo preghiamo: «O Dio, nostro Padre, suscita in noi la volontà di andare», perché al Signore «basta» questa volontà. Ciò vale per ogni aspetto della «vita nostra». Qualcuno, infatti, potrebbe dire: «Oh, io ho questo peccato da anni, questo peccato che mi tortura, ho una vita così, mai ho raccontato questo della mia vita, è una piaga che ho dentro, ma come vorrei…»; ma già quel «come vorrei» al Signore «basta». Egli infatti «dà la grazia che io arrivi al momento di chiedere il perdono». Ma «la volontà è il primo passo». E l’aiuto di Dio «ci accompagnerà durante la nostra vita». Infatti,  il Signore «tante volte ci vedrà allontanarci da lui», e ci aspetterà «come il Padre del figliol prodigo». Tante volte «vedrà che vogliamo avvicinarci» e lui uscirà «al nostro incontro».

Fondamentale, quindi, è l’«incontro». «A me sempre ha colpito quello che Papa Benedetto aveva detto, che la fede non è una teoria, una filosofia, un’idea: è un incontro. Un incontro con Gesù». Cioè: «tu puoi recitare il Credo a memoria, ma non avere fede, se non hai incontrato Gesù, se non hai incontrato la sua misericordia». Infatti «i dottori della legge sapevano tutto, tutto della dogmatica di quel tempo, tutto della morale di quel tempo, tutto», ma «non avevano fede, perché il loro cuore si era allontanato da Dio». Tutto si gioca su questa dinamica: «Allontanarsi o avere la volontà di andare incontro». Ed è proprio questa «la grazia che noi oggi chiediamo. “O Dio, nostro Padre, suscita in noi la volontà di andare incontro al tuo Cristo”», con «la vigilanza nella preghiera, l’operosità nella carità ed esultanti nella lode». Facendo così «incontreremo il Signore e avremo una bellissima sorpresa».

Santa Marta, 28.11.2016
L’Osservatore Romano 


A guardia bassa incontro a Gesù

Lasciamoci incontrare da Gesù «con la guardia bassa, aperti», affinché egli possa rinnovarci dal profondo della nostra anima. È questo l’invito di Papa Francesco all’inizio del tempo di Avvento.

Il cammino che cominciamo in questi giorni è «un nuovo cammino di Chiesa, un cammino del popolo di Dio, verso il Natale. E camminiamo all’incontro del Signore». Il Natale è infatti un incontro: non solo «una ricorrenza temporale oppure un ricordo di qualcosa bella. Il Natale è di più. Noi andiamo per questa strada per incontrare il Signore». Dunque nel periodo dell’Avvento «camminiamo per incontrarlo. Incontrarlo con il cuore, con la vita; incontrarlo vivente, come lui è; incontrarlo con fede».

In verità, non è «facile vivere con la fede». Infatti, «Il Signore, nella parola che abbiamo ascoltato — l’episodio del centurione che, secondo il racconto del vangelo di Matteo (8, 5-11), si prostra dinnanzi a Gesù per chiedergli di guarire il proprio servo — si meravigliò di questo centurione. Si meravigliò della fede che lui aveva. Aveva fatto un cammino per incontrare il Signore. Ma l’aveva fatto con fede. Per questo non solo lui ha incontrato il Signore, ma ha sentito la gioia di essere incontrato dal Signore. E questo è proprio l’incontro che noi vogliamo, l’incontro della fede. Incontrare il Signore, ma lasciarci incontrare da lui. È molto importante!».

Quando ci limitiamo solo a incontrare il Signore «siamo noi — ma questo diciamolo tra virgolette — i “padroni” di questo incontro». Quando invece «ci lasciamo incontrare da lui, è lui che entra dentro di noi» e ci rinnova completamente.

«Questo  è quello che significa quando viene Cristo: rifare tutto di nuovo, rifare il cuore, l’anima, la vita, la speranza, il cammino».

In questo periodo dell’anno liturgico, dunque, siamo in cammino per incontrare il Signore, ma anche e soprattutto «per lasciarci incontrare da lui». E dobbiamo farlo con cuore aperto, «perché lui mi incontri, mi dica quello che vuole dirmi, che non sempre è quello che voglio che lui mi dica!». Non dimentichiamo allora che «lui è il Signore e lui mi dirà quello che ha per me», per ciascuno di noi, perché «il Signore non ci guarda tutti insieme, come una massa: no, no! Lui ci guarda uno a uno, in faccia, negli occhi, perché l’amore non è un amore astratto ma è un amore concreto. Persona per persona. Il Signore, persona, guarda a me, persona». Ecco perché lasciarci incontrare dal Signore significa in definitiva «lasciarci amare dal Signore».

«Nella preghiera all’inizio della messa abbiamo chiesto la grazia di fare questo cammino con alcuni atteggiamenti che ci aiutano. La perseveranza nella preghiera: pregare di più. La operosità nella carità fraterna: avvicinarci un po’ di più a quelli che hanno bisogno. E la gioia nella lode del Signore». Dunque «cominciamo questo cammino con la preghiera, la carità e la lode, a cuore aperto, perché il Signore ci incontri». Ma «per favore, che ci incontri con la guardia bassa, aperti!».

Santa Marta, 2.12.2013
L’Osservatorio Romano

Martedì – 1° di Avvento
Liturgia: Is 11,1-9; Sal 71; Lc 10,21-24

Il compito da perseguire e lo stile da mantenere

All’inizio del cammino di Avvento, nella messa celebrata a Santa Marta, Papa Francesco ha indicato due aspetti fondamentali per ogni cristiano: il compito da perseguire e lo stile da mantenere. Lo ha fatto centrando la sua riflessione sul brano del profeta Isaia (11, 1-10) proposto dalla liturgia del giorno.

Si tratta di un passo che «parla della venuta del Signore, della liberazione che porterà Dio al suo popolo, del compimento della promessa». È il brano in cui il profeta annuncia che «spunterà un germoglio dal tronco di Iesse». Si parla di un «virgulto» che è «piccolo come germoglio», sul quale, però, «si poserà lo spirito del Signore, spirito di sapienza e d’intelligenza, spirito di consiglio e di fortezza, spirito di conoscenza e timore del Signore», cioè «i doni dello Spirito Santo». Ecco allora il primo aspetto fondamentale: «Dalla piccolezza del germoglio alla pienezza dello Spirito. Questa è la promessa, questo è il regno di Dio». Che «incomincia nel piccolo, da una radice viene, spunta, un germoglio; cresce, va avanti — perché lo Spirito è lì — e arriva alla pienezza».

Una dinamica che si ritrova anche nello stesso Gesù, il quale «al suo popolo nella sinagoga di Nazaret» si presenta allo stesso modo. Non dice: «Io sono il germoglio»; ma si propone in umiltà e afferma: «Lo Spirito è sopra di me», consapevole di essere stato inviato «per dare il lieto annuncio, cioè per i poveri».

La stessa dinamica si applica alla «vita del cristiano». Occorre, infatti, essere coscienti «che ognuno di noi è un germoglio di quella radice che deve crescere, crescere con la forza dello Spirito Santo, fino alla pienezza dello Spirito Santo in noi». «Quale sarebbe il compito del cristiano?». La risposta è semplice: «Custodire il germoglio che cresce in noi, custodire la crescita, custodire lo Spirito. “Non rattristare lo Spirito”, dice Paolo».

Vivere da cristiano, dunque, «è questo custodire il germoglio, custodire la crescita, custodire lo Spirito e non dimenticare la radice». «Non dimenticare la radice, da dove tu vieni. Ricordati da dove vieni, questa è la saggezza cristiana».

Se questo è il compito, «lo stile qual è?».  «Si vede chiaro: uno stile come quello di Gesù, di umiltà». Infatti «ci vuole fede e umiltà per credere che questo germoglio, questo dono così piccolo arriverà alla pienezza dei doni dello Spirito Santo. Ci vuole umiltà per credere che il Padre, Signore del cielo e della terra, come dice il Vangelo di oggi, ha nascosto queste cose ai sapienti, ai dotti e le ha rivelate ai piccoli». Nella vita quotidiana, umiltà significa «essere piccolo, come il germoglio, piccolo che cresce ogni giorno, piccolo che ha bisogno dello Spirito Santo per poter andare avanti, verso la pienezza della propria vita».

Del resto, «Gesù era umile, anche Dio era umile. Dio è umile perché Dio ha avuto e ha tanta pazienza con noi. E l’umiltà di Dio si manifesta nell’umiltà di Gesù». Ma occorre chiarirsi le idee sul significato della parola umiltà: «Qualcuno crede che essere umile è essere educato, cortese, chiudere gli occhi nella preghiera…», avere una sorta di «faccia di immaginetta». Invece «no, essere umile non è quello».

«C’è un segno, un segnale, l’unico: accettare le umiliazioni. L’umiltà senza umiliazioni non è umiltà. Umile è quell’uomo, quella donna, che è capace di sopportare le umiliazioni come le ha sopportate Gesù, l’umiliato, il grande umiliato».

Ecco cosa mette alla prova il cristiano: «Tante volte, quando noi siamo umiliati, ci sentiamo umiliati da qualcuno, subito viene di fare la risposta o di fare la difesa». E invece? Invece occorre guardare a Gesù: «Gesù stava zitto nel momento dell’umiliazione più grande». E infatti, «non c’è umiltà senza accettazione delle umiliazioni». Quindi «umiltà non è soltanto essere quieto, tranquillo. No, no. Umiltà è accettare le umiliazioni quando vengono, come ha fatto Gesù». Il cristiano è chiamato ad accettare «l’umiliazione della croce», come Gesù che «è stato capace di custodire il germoglio, custodire la crescita, custodire lo Spirito».

Non è cosa semplice e immediata. Una volta una persona scherzava: «Sì, sì, umile, sì, ma umiliato mai!». Uno scherzo ma uno scherzo che «toccava un punto vero». Infatti sono molti coloro che dicono: «Sì, io sono capace di accettare l’umiltà, di essere umile, ma senza umiliazioni, senza croce».

Ecco il riassunto del pensiero del giorno: «Custodire il germoglio in ognuno di noi. Custodire la crescita, custodire lo Spirito, che ci porterà la pienezza». E «non dimenticare la radice. E lo stile? Umiltà». «Come so se sono umile? Se sono capace, con la grazia del Signore, di accettare le umiliazioni». Ricordare l’esempio di «tanti santi che non solo hanno accettato le umiliazioni ma le hanno chieste: “Signore, mandami umiliazioni per assomigliare a te, per essere più simile a te”».

«Che il Signore ci dia questa grazia di custodire il piccolo verso la pienezza dello Spirito, di non dimenticare la radice e accettare le umiliazioni».

Santa Marta 5.12.2017
L’Osservatore Romano


Annunciare Cristo col sorriso: è impensabile una Chiesa senza gioia!

Pace e gioia. Papa Francesco ha svolto la sua omelia soffermandosi su questo binomio.  Non si può pensare a una Chiesa senza gioia, perché Gesù, il suo sposo, era pieno di gioia. Dunque tutti i cristiani devono vivere con la stessa gioia nel cuore e comunicarla fino agli estremi confini del mondo. 

«La parola di Dio oggi ci parla di pace e di gioia. Isaia nella sua profezia (11, 1-10) ci dice come saranno i giorni del Messia. Saranno giorni di pace». Perché Gesù porterà la pace fra noi e Dio, e la pace fra noi. Dunque la pace che tutti noi desideriamo è quella che porta il Messia.

Il Vangelo di Luca (10, 21-24) proclamato durante la liturgia aiuta a capire qualcosa di più su Gesù. «Possiamo intravvedere un po’ l’anima di Gesù, il cuore di Gesù. Un cuore gioioso». Siamo infatti abituati a pensare a Gesù mentre predica, mentre guarisce, mentre va per le strade a parlare alla gente, o quando sale sulla croce. Ma «non siamo tanto abituati a pensare a Gesù sorridente, gioioso. Gesù era pieno di gioia». Una gioia che gli derivava dall’intimità con il Padre. È proprio da questo rapporto con il Padre nello Spirito Santo che nasce la gioia interiore di Gesù. Quella gioia che «lui dà a noi. E questa gioia è la vera pace. Non è una pace statica, quieta, tranquilla: la pace cristiana è una pace gioiosa», perché è gioioso Gesù, è gioioso Dio.

«Nell’orazione all’inizio della messa abbiamo chiesto la grazia del fervore missionario perché la Chiesa si allieti con nuovi figli». Non si può pensare a «una Chiesa senza gioia», perché «Gesù ha voluto che la sua sposa, la Chiesa, fosse gioiosa». E «la gioia della Chiesa è proprio annunciare il nome di Gesù» per poter dire: «Il mio sposo è il Signore, è Dio» che «ci salva» e «ci accompagna».

In questa gioia di sposa, la Chiesa «diventa madre. Paolo VI diceva: la gioia della Chiesa è proprio evangelizzare» e trasmettere questa gioia «ai suoi figli».

Così capiamo che la pace di cui «ci parla Isaia è una pace di gioia, una pace di lode, una pace, diciamo, rumorosa nella lode. Una pace feconda nella maternità di nuovi figli, una pace che viene proprio nella gioia della lode alla Trinità e nella evangelizzazione, cioè nell’andare a dire ai popoli chi è Gesù».

Pace e gioia, dunque. «La gioia sempre, perché deriva da una dichiarazione dogmatica di Gesù che dice: tu hai deciso così, di rivelarti non ai sapienti ma ai piccoli. Anche nelle cose tanto serie, come questa, Gesù è gioioso». Così anche la Chiesa deve essere gioiosa. Sempre, anche «nel periodo della sua vedovanza», essa «è gioiosa nella speranza». «Preghiamo che il Signore dia a tutti noi questa gioia».

Santa Marta, 3.12.2013
L’Osservatore Romano

Mercoledì – 1° di Avvento
Liturgia: Is 25,6-10a; Sal 22; Mt 15,29-37

La Misericordia strumento di Comunione (cfr Mt 14,13-21)

Oggi vogliamo riflettere sul miracolo della moltiplicazione dei pani. All’inizio del racconto che ne fa Matteo (cfr 14,13-21), Gesù ha appena ricevuto la notizia della morte di Giovanni Battista, e con una barca attraversa il lago alla ricerca di «un luogo deserto, in disparte» (v. 13). La gente però capisce e lo precede a piedi così che «sceso dalla barca, egli vide una grande folla, e sentì compassione per loro e guarì i loro malati» (v. 14). Così era Gesù: sempre con la compassione, sempre pensando agli altri. Impressiona la determinazione della gente, che teme di essere lasciata sola, come abbandonata. Morto Giovanni Battista, profeta carismatico, si affida a Gesù, del quale lo stesso Giovanni aveva detto: «Colui che viene dopo di me è più forte di me» (Mt 3,11). Così la folla lo segue dappertutto, per ascoltarlo e per portargli i malati. E vedendo questo Gesù si commuove. Gesù non è freddo, non ha un cuore freddo. Gesù è capace di commuoversi. Da una parte, Egli si sente legato a questa folla e non vuole che vada via; dall’altra, ha bisogno di momenti di solitudine, di preghiera, con il Padre. Tante volte trascorre la notte pregando con suo Padre.

Anche quel giorno, dunque, il Maestro si dedicò alla gente. La sua compassione non è un vago sentimento; mostra invece tutta la forza della sua volontà di stare vicino a noi e di salvarci. Ci ama tanto Gesù, e vuole essere vicino a noi.

Sul far della sera, Gesù si preoccupa di dar da mangiare a tutte quelle persone, stanche e affamate e si prende cura di quanti lo seguono. E vuole coinvolgere in questo i suoi discepoli. Infatti dice loro: «Voi stessi date loro da mangiare» (v. 16). E dimostrò ad essi che i pochi pani e pesci che avevano, con la forza della fede e della preghiera, potevano essere condivisi per tutta quella gente. Gesù fa un miracolo, ma è il miracolo della fede, della preghiera, suscitato dalla compassione e dall’amore. Così Gesù «spezzò i pani e li diede ai discepoli e i discepoli alla folla» (v. 19). Il Signore va incontro alle necessità degli uomini, ma vuole rendere ognuno di noi concretamente partecipe della sua compassione.

Ora soffermiamoci sul gesto di benedizione di Gesù: Egli «prese i cinque pani e i due pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede» (v. 19). Come si vede, sono gli stessi segni che Gesù ha compiuto nell’Ultima Cena; e sono anche gli stessi che ogni sacerdote compie quando celebra la Santa Eucaristia. La comunità cristiana nasce e rinasce continuamente da questa comunione eucaristica. Vivere la comunione con Cristo è perciò tutt’altro che rimanere passivi ed estraniarsi dalla vita quotidiana, al contrario, sempre più ci inserisce nella relazione con gli uomini e le donne del nostro tempo, per offrire loro il segno concreto della misericordia e dell’attenzione di Cristo. Mentre ci nutre di Cristo, l’Eucaristia che celebriamo trasforma poco a poco anche noi in corpo di Cristo e cibo spirituale per i fratelli. Gesù vuole raggiungere tutti, per portare a tutti l’amore di Dio. Per questo rende ogni credente servitore della misericordia. Gesù ha visto la folla, ha sentito compassione per essa ed ha moltiplica i pani; così fa lo stesso con l’Eucaristia. E noi credenti che riceviamo questo pane eucaristico siamo spinti da Gesù a portare questo servizio agli altri, con la stessa sua compassione. Questo è il percorso.

Il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci si conclude con la constatazione che tutti si sono saziati e con la raccolta dei pezzi avanzati (cfr v. 20). Quando Gesù con la sua compassione e il suo amore ci dà una grazia, ci perdona i peccati, ci abbraccia, ci ama, non fa le cose a metà, ma completamente. Come è accaduto qui: tutti si sono saziati. Gesù riempie il nostro cuore e la nostra vita del suo amore, del suo perdono, della sua compassione. Gesù dunque ha permesso ai suoi discepoli di eseguire il suo ordine. In questo modo essi conoscono la strada da percorrere: sfamare il popolo e tenerlo unito; essere cioè al servizio della vita e della comunione. Invochiamo dunque il Signore, perché renda sempre la sua Chiesa capace di questo santo servizio, e perché ognuno di noi possa essere strumento di comunione nella propria famiglia, nel lavoro, nella parrocchia e nei gruppi di appartenenza, un segno visibile della misericordia di Dio che non vuole lasciare nessuno nella solitudine e nel bisogno, affinché discendano la comunione e la pace tra gli uomini e la comunione degli uomini con Dio, perché questa comunione è vita per tutti.

Udienza generale 27.8.2016

Giovedì – 1° di Avvento
Liturgia: Is 26,1-6; Sal 117; Mt 7,21.24-27

Senza trucco sulla roccia

Dalla «tentazione di tanta brava gente» a essere cristiana «solo di apparenza», con addosso «il trucco» che però si scioglie alla prima pioggia, ha messo in guardia Francesco nella messa celebrata giovedì , nella cappella della Casa Santa Marta. E ha rilanciato la testimonianza di tanti «cristiani di sostanza», che costruiscono la loro vita sulla «roccia di Gesù» e vivono la «santità nascosta», giorno per giorno.

Oggi in entrambe le letture — tratte dal libro di Isaia (26. 1-6) e dal Vangelo di Matteo (7, 21.24-27) — la Chiesa, «parla della fortezza di un cristiano e della debolezza; di roccia e di sabbia». Infatti «il cristiano è forte quando non solo dice di esserlo, ma quando fa la sua vita come cristiano, quando mette in pratica la dottrina cristiana, le parole di Dio, i comandamenti, le beatitudini». Il punto centrale è, difatti, «mettere in pratica».

Invece «ci sono i cristiani di apparenza soltanto: persone che si truccano da cristiani e nel momento della prova hanno soltanto il trucco». E «noi sappiamo cosa succede a una donna truccata quando va per la strada e viene la pioggia e non ha l’ombrello: tutto viene giù, le apparenze finiscono per terra». Quella del trucco, del resto, «è una tentazione». Così non basta dire «io sono cristiano, Signore» per esserlo veramente. È Gesù stesso a dire che non basta ripetere «Signore! Signore!» per entrare nel suo regno. Bisogna fare «la volontà del Padre» e mettere «in pratica la Parola». Ecco, dunque, la differenza tra «il cristiano di vita» e quello solo «di apparenza».

Del resto, è chiaro come «ci vuole il Signore». Anzitutto, «un cristiano di vita è fondato sulla roccia». Del resto Paolo lo dice chiaramente quando «parla dell’acqua che usciva dalla roccia nel deserto: la roccia era Cristo, la roccia è Cristo». Quindi l’unica cosa che conta è «soltanto essere fondato sulla persona di Gesù, sul seguire Gesù, per la strada di Gesù». Incontriamo «tante volte gente non cattiva, gente buona, ma che è vittima di questa mania della “cristianità delle apparenze”». Gente che dice di se stessa «io sono di una famiglia molto cattolica; io sono membro di quella associazione e anche benefattore di quell’altra». Ma la vera domanda da porre a queste persone è: «dimmi, la tua vita è fondata su Gesù? La tua speranza dov’è? Su quella roccia o su queste appartenenze?».

Ecco l’importanza di «essere fondato sulla roccia». Del resto «abbiamo visto tanti cristiani delle apparenze che crollano alle prime tentazioni, cioè alla pioggia». E infatti «quando i fiumi straripano, quando i venti soffiano — le tentazioni e le prove della vita — un cristiano dell’apparenza cade, perché non c’è sostanza lì, non c’è roccia, non c’è Cristo». Dall’altra parte, invece, ci sono i «tanti santi che abbiamo nel popolo di Dio — non necessariamente canonizzati, ma santi! — tanti uomini e donne che portano la loro vita in Cristo, che mettono in pratica i comandamenti, mettono in pratica l’amore di Gesù. Tanti!».

«Pensiamo ai più piccoli; agli  ammalati che offrono le loro sofferenze per la Chiesa, per gli altri». E, ancora, «pensiamo a tanti anziani soli che pregano e offrono. Pensiamo a tante mamme e padri di famiglia che portano avanti con tanta fatica la loro famiglia, l’educazione dei figli, il lavoro quotidiano, i problemi, ma sempre con la speranza in Gesù» e «che non si pavoneggiano, ma fanno quello che possono».

Davvero «ci sono santi della vita quotidiana». E  anche «tanti preti che non si fanno vedere, ma che lavorano nelle loro parrocchie con tanto amore: la catechesi ai bambini, la cura degli anziani, degli ammalati, la preparazione ai novelli sposi. E tutti i giorni lo stesso, lo stesso, lo stesso. Non si annoiano perché nel loro fondamento c’è la roccia». Sono persone che vivono in «Gesù: è questo che dà santità alla Chiesa; è questo che dà speranza». Ecco perché «dobbiamo pensarci tanto alla santità nascosta che c’è nella Chiesa, quella dei cristiani non di apparenza ma fondati sulla roccia, su Gesù». Guardare a quei «cristiani che seguono il consiglio di Gesù nell’Ultima Cena: “Rimanete in me”». Sì, «cristiani che rimangono in Gesù». Certo, «peccatori, tutti lo siamo». Così quando «qualcuno di questi cristiani fa qualche peccato grave» poi si pente, chiede perdono: e «questo è grande». Significa avere «la capacità di chiedere perdono; di non confondere peccato con virtù; di sapere bene dove è la virtù e dove è il peccato». Anche da questo si comprende che sono cristiani «fondati sulla roccia e la roccia è Cristo: seguono il cammino di Gesù, seguono Lui».

Nella prima lettura Isaia «parla di una città forte che ha salvezza, che segue Dio, che è giusta: un popolo forte. La città è un popolo. Un popolo forte. La sua volontà è salda e Dio gli assicura la pace: pace per chi confida in Lui». E poi aggiunge: «Confidate nel Signore sempre, perché il Signore è una roccia eterna, perché egli ha abbattuto coloro che abitavano in alto». E cioè «i superbi, i vanitosi, i cristiani di apparenza saranno abbattuti, umiliati». Dice ancora Isaia: «Ha rovesciato la città eccelsa, l’ha rovesciata fino a terra, l’ha rasa al suolo». Proprio «così finiscono i cristiani di apparenza»: da una parte «le rovine di una città» e poi «l’altra città, l’altra casa, salda, robusta perché è fondata sulla pietra».

«Mi hanno fatto pensare gli ultimi due versetti della prima lettura». Il riferimento è «a questa città che è caduta, questa città vanitosa, questa città che non era fondata sulla roccia di Cristo». Si legge infatti: «I piedi la calpestano: sono i piedi degli oppressi, i passi dei poveri». È un’espressione che «ha odore di vendetta». Sì, «sembra una vendetta», ma «non è vendetta».

Anche «la Madonna, nel suo canto, lo aveva detto: Lui ha rovesciato i potenti dai troni, ha umiliato i superbi». E «i poveri saranno quelli che trionferanno, i poveri di spirito, quelli che davanti a Dio si sentono niente, gli umili» che «portano avanti la salvezza mettendo in pratica la parola del Signore». Invece «tutto il resto è apparenza: oggi ci siamo, domani non ci saremo».  Dice san Bernardo: «pensa, uomo, cosa sarà di te, pasto dei vermi». Perché «ci mangeranno i vermi a tutti» e «se non abbiamo questa roccia, finiremo calpestati».

Proprio «in questo tempo di preparazione al Natale chiediamo al Signore di essere fondati saldi nella roccia che è Lui, la nostra speranza è Lui». È vero, «noi siamo tutti peccatori, siamo deboli, ma se mettiamo la speranza in Lui potremo andare avanti». E «questa è la gioia di un cristiano: sapere che in Lui c’è la speranza, c’è il perdono, c’è la pace, c’è la gioia». Perciò non ha senso «mettere la nostra speranza in cose che oggi sono e domani non saranno».

Santa Marta, 4.12.2014
L’Osservatore Romano 


Parole impazzite

Le «parole cristiane» svuotate della presenza di Cristo sono come parole impazzite, senza senso e ingannatrici che sfociano nell’orgoglio e nel «potere per il potere». È un invito a un «esame di coscienza» sulla coerenza tra il dire e il fare quello proposto da Papa Francesco nella messa celebrata questo giovedì, nella cappella della Casa Santa Marta.

«Molte volte il Signore ha parlato di questo atteggiamento», quello di conoscere la Parola senza però metterla in pratica. Come dice il Vangelo, Gesù «anche ai farisei rimproverava» di «conoscere tutto, ma di non farlo». E così «alla gente diceva: fate tutto quello che dicono, ma non quello che fanno, perché non fanno quello che dicono!». È la questione delle «parole staccate dalla pratica», parole che invece vanno vissute. Eppure «queste parole sono buone», «sono belle parole». Ad esempio, «anche i Comandamenti e le beatitudini» rientrano fra queste «parole buone», così come anche «tante cose che Gesù ha detto. Noi possiamo ripeterle, ma se non ci portano alla vita non solo non servono, ma fanno male, ci ingannano, ci fanno credere che noi abbiamo una bella casa, ma senza fondamenta».

Nel passo evangelico di Matteo (7, 21.24-27), il Signore dice che proprio colui «che ascolta la Parola e la mette in pratica sarà simile a quell’uomo saggio che ha costruito la sua casa sulla roccia». In fin dei conti si tratta di «un’equazione matematica: conosco la Parola — la metto in pratica — sono costruito sulla roccia». La questione essenziale però  è «come la metto in pratica?». E  proprio «qui sta il messaggio di Gesù: metterla in pratica come si costruisce una casa sulla roccia». E «questa figura della roccia si riferisce al Signore».

Il profeta Isaia, nella prima lettura (26, 1-6), dice: «Confidate nel Signore sempre perché il Signore è una roccia eterna». Dunque «la roccia è Gesù Cristo, la roccia è il Signore. Una parola è forte, dà vita, può andare avanti, può tollerare tutti gli attacchi se questa parola ha le sue radici in Gesù Cristo». Invece «una parola cristiana che non ha le sue radici vitali, nella vita di una persona, in Gesù Cristo, è una parola cristiana senza Cristo. E le parole cristiane senza Cristo ingannano, fanno male».

Lo scrittore inglese Gilbert Keith Chesterton (1874-1936) «parlando sulle eresie» ha detto «che un’eresia è una verità, una parola, una verità che è diventata pazza». È un fatto che «quando le parole cristiane sono senza Cristo incominciano ad andare sul cammino della pazzia». Isaia «è chiaro e ci indica qual è questa pazzia». Si legge infatti nel passo biblico: «Il Signore è una roccia eterna, perché egli ha abbattuto coloro che abitavano in alto, ha rovesciato la città eccelsa». Sì, «coloro che abitavano in alto. Una parola cristiana senza Cristo ti porta alla vanità, alla sicurezza di te stesso, all’orgoglio, al potere per il potere. E il Signore abbatte queste persone».

Questa verità «è una costante nella storia della salvezza. Lo dice Anna, la mamma di Samuele; lo dice Maria nel Magnificat: il Signore abbatte la vanità, l’orgoglio di quelle persone che si credono di essere roccia». Sono «persone che vanno soltanto dietro una parola, senza Gesù Cristo». Fanno propria una parola che è cristiana «ma senza Gesù Cristo: senza il rapporto con Gesù Cristo; senza la preghiera con Gesù Cristo; senza il servizio a Gesù Cristo; senza l’amore a Gesù Cristo».

«Quello che il Signore oggi ci dice» è un invito a «costruire la nostra vita su questa roccia. E la roccia è Lui. Lo dice esplicitamente Paolo quando si riferisce a quel momento nel quale Mosè colpì la roccia col bastone. E dice: la roccia era Cristo. Cristo è la roccia». Questa meditazione comporta «un esame di coscienza» che «ci farà bene». Un «esame di coscienza» che si può fare rispondendo a una serie di domande essenziali: «Ma come sono le nostre parole? Sono parole sufficienti in se stesse? Sono parole che credono di essere potenti? Sono parole che anche credono di darci la salvezza? Sono parole con Gesù Cristo? Sempre è Gesù Cristo quando noi diciamo una parola cristiana?». E ciò riferito espressamente «alle parole cristiane. Perché quando non c’è Gesù Cristo  anche questo ci divide fra noi e fa la divisione nella Chiesa».

Chiediamo «al Signore la grazia di aiutarci in questa umiltà che dobbiamo avere: sempre dire parole cristiane in Gesù Cristo, non senza Gesù Cristo»; e di aiutarci anche «in questa umiltà di essere discepoli, salvati, di andare avanti non con parole che, per crederci potenti, finiscono nella pazzia della vanità e nella pazzia dell’orgoglio». Che «il Signore ci dia questa grazia dell’umiltà di dire parole con Gesù Cristo. Fondate su Gesù Cristo».

Santa Marta, 5.12.2013
L’Osservatore Romano

Venerdì – 1° di Avvento
Liturgia: Is 29,17-24; Sal 26; Mt 9,27-31

Il grido che dà fastidio

Pregare con insistenza e con la certezza che Dio ascolterà la nostra preghiera. La preghiera ha due atteggiamenti: è “bisognosa” e allo stesso tempo è “sicura” del fatto che Dio, nei suoi tempi e nei suoi modi, esaudirà il bisogno.

La preghiera, quando è cristiana sul serio, oscilla tra il bisogno che sempre contiene e la certezza di essere esaudita, anche se non si sa con esattezza quando. Questo perché chi prega non teme di disturbare Dio e nutre una fiducia cieca nel suo amore di Padre. Cieca come i due non vedenti del brano del Vangelo di oggi, che gridano dietro a Gesù il loro bisogno di essere guariti. O come il cieco di Gerico, che invoca l’intervento del Maestro con una voce più alta di chi vuole zittirlo. Perché Gesù stesso ci ha insegnato a pregare come “l’amico fastidioso” che mendica del cibo a mezzanotte, o come “la vedova col giudice corrotto”:

“Non so se forse questo suona male, ma pregare è un po’ dare fastidio a Dio, perché ci ascolti. Ma, il Signore lo dice: come l’amico a mezzanotte, come la vedova al giudice… E’ attirare gli occhi, attirare il cuore di Dio verso di noi… E questo lo hanno fatto anche quei lebbrosi che gli si avvicinarono: ‘Se tu vuoi, puoi guarirci!’. Lo hanno fatto con una certa sicurezza. Così, Gesù ci insegna a pregare. Quando noi preghiamo, pensiamo a volte: ‘Ma, sì, io dico questo bisogno, lo dico al Signore una, due, tre volte, ma non con tanta forza. Poi mi stanco di chiederlo e mi dimentico di chiederlo’. Questi gridavano e non si stancavano di gridare. Gesù ci dice: ‘Chiedete’, ma anche ci dice: ‘Bussate alla porta’, e chi bussa alla porta fa rumore, disturba, dà fastidio”.

Insistenza ai limiti del fastidio, dunque. Ma anche una incrollabile certezza. I ciechi del Vangelo sono ancora di esempio. “Si sentono sicuri di chiedere al Signore la salute”, perché alla domanda di Gesù se credano che Egli possa guarirli, loro rispondono: “Sì, Signore, crediamo! Siamo sicuri!”:

“E la preghiera ha questi due atteggiamenti: è bisognosa ed è sicura. Preghiera bisognosa sempre: la preghiera, quando noi chiediamo qualcosa, è bisognosa: ‘Ho questo bisogno, ascoltami, Signore’. Ma anche, quando è vera, è sicura: ‘Ascoltami! Io credo che tu possa farlo perché tu lo hai promesso’”.

“Lui l’ha promesso”: ecco la pietra angolare su cui poggia la certezza di una preghiera. “Con questa sicurezza noi diciamo al Signore i nostri bisogni, ma sicuri che lui possa farlo”. Pregare è sentirci rivolgere da Gesù la domanda ai due ciechi: “Tu credi che io possa fare questo?”:

“Lui può farlo. Quando lo farà, come lo farà non lo sappiamo. Questa è la sicurezza della preghiera. Il bisogno di dirlo con verità, al Signore. ‘Sono cieco, Signore. Ho questo bisogno. Ho questa malattia. Ho questo peccato. Ho questo dolore…’, ma sempre la verità, come è la cosa. E Lui sente il bisogno, ma sente che noi chiediamo il suo intervento con sicurezza. Pensiamo se la nostra preghiera è bisognosa ed è sicura: bisognosa, perché diciamo la verità a noi stessi, e sicura, perché crediamo che il Signore possa fare quello che noi chiediamo”.

Santa Marta, 6.12.2013

Sabato – 1° di Avvento
Liturgia: Is 30,19-21.23-26; Sal 146; Mt 9,35-38 – 10,1.6-8

Nel Vangelo  troviamo l’invito di Gesù: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Quando Gesù dice questo, ha davanti agli occhi le persone che incontra ogni giorno per le strade della Galilea: tanta gente semplice, poveri, malati, peccatori, emarginati… Questa gente lo ha sempre rincorso per ascoltare la sua parola – una parola che dava speranza! Le parole di Gesù danno sempre speranza! – e anche per toccare anche solo un lembo della sua veste. Gesù stesso cercava queste folle stanche e sfinite come pecore senza pastore (cfr Mt 9,35-36) e le cercava per annunciare loro il Regno di Dio e per guarire molti nel corpo e nello spirito. Ora li chiama tutti a sé: «Venite a me», e promette loro sollievo e ristoro.

Questo invito di Gesù si estende fino ai nostri giorni, per raggiungere tanti fratelli e sorelle oppressi da condizioni di vita precarie, da situazioni esistenziali difficili e a volte prive di validi punti di riferimento. Nei Paesi più poveri, ma anche nelle periferie dei Paesi più ricchi, si trovano tante persone stanche e sfinite sotto il peso insopportabile dell’abbandono e dell’indifferenza. L’indifferenza: quanto male fa ai bisognosi l’indifferenza umana! E peggio, l’indifferenza dei cristiani! Ai margini della società sono tanti gli uomini e le donne provati dall’indigenza, ma anche dall’insoddisfazione della vita e dalla frustrazione. Tanti sono costretti ad emigrare dalla loro Patria, mettendo a repentaglio la propria vita. Molti di più portano ogni giorno il peso di un sistema economico che sfrutta l’uomo, gli impone un “giogo” insopportabile, che i pochi privilegiati non vogliono portare. A ciascuno di questi figli del Padre che è nei cieli, Gesù ripete: «Venite a me, voi tutti». Ma lo dice anche a coloro che possiedono tutto, ma il cui cuore è vuoto e senza Dio. Anche a loro, Gesù indirizza questo invito: “Venite a me”. L’invito di Gesù è per tutti. Ma in modo speciale per questi che soffrono di più.

Gesù promette di dare ristoro a tutti, ma ci fa anche un invito, che è come un comandamento: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore» (Mt 11,29). Il “giogo” del Signore consiste nel caricarsi del peso degli altri con amore fraterno. Una volta ricevuto il ristoro e il conforto di Cristo, siamo chiamati a nostra volta a diventare ristoro e conforto per i fratelli, con atteggiamento mite e umile, ad imitazione del Maestro. La mitezza e l’umiltà del cuore ci aiutano non solo a farci carico del peso degli altri, ma anche a non pesare su di loro con le nostre vedute personali, i nostri giudizi, le nostre critiche o la nostra indifferenza.

Invochiamo Maria Santissima, che accoglie sotto il suo manto tutte le persone stanche e sfinite, affinché attraverso una fede illuminata, testimoniata nella vita, possiamo essere di sollievo per quanti hanno bisogno di aiuto, di tenerezza, di speranza.

Angelus 6.7.2014